Sazio di giorni Yoram Kaniuk
Traduzione Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Giuntina euro 12
«Sazio di giorni» è il titolo dell'ultimo romanzo di Yoram Kaniuk, grande scrittore israeliano scomparso qualche mese fa. Ma è ben più che il nome di un libro: è una recondita ma vana speranza. C'è solo Giobbe, che muore «sazio di giorni»: appagato dalla vita, rassegnato alla fine, sereno per quel che lascia su questa terra. Dopo averne viste e patite tante, Giobbe si «ricongiunge con i suoi avi» e lo fa con la pace di chi è stanco di vivere ma ha amato la vita.
Kaniuk e quest'ultimo suo personaggio, un pittore che dipinge morti nel breve tratto di tempo che passa dall'ultimo respiro alla sepoltura, non sembrano proprio di affrontare la fine al modo di Giobbe, anche se questo è il titolo del suo romanzo. La morte ossessiona da sempre questo scrittore e gli ha strappato pagine mirabili, come una sua elucubrazione a cavallo del coma e della malattia condotta sul filo del sarcasmo che s'intitola "Per la vita e per la morte" ed è ancora da tradurre in italiano. Più che una narrazione, "Sazio di giorni" è un riassunto, anzi di concentrato dei motivi di Kaniuk, dei suoi personaggi più ricorrenti, delle sue ossessioni. Il nazista, la pittura, la follia, il figlio in bilico fra identità inconciliabili. E' in sostanza un Kaniuk alla potenza, Una chimera quello che scrive qui come per i temi fondamentali, prima di andarsene. Anche il pittore protagonista non ha volto e non ha storia ma qualche brandello di storie altrui. Solo la vedova, la moglie dell'uomo che il pittore viene chiamato a «immortalare», è un personaggio a tutto tondo. «Sono la sua vedova, non sono mai stata la vedova di nessuno, non ho avuto altro amore prima di mio marito, nessuno mi ha mai lasciata, non so cosa fa una vedova. Di recente ho letto che intendono organizzare un corso per future vedove i cui mariti cadranno in guerra, per prepararle al peggio, ma mai avrei immaginato di restare io stessa vedova». Il racconto si dipana in forma di dialogo fra il pittore e la vedova, anche se i due non si parlano mai direttamente, è come un'eco che rimbalza e racconta le loro vite; ma non è difficile riconoscere lo scrittore nella voce che rimbomba, nella luce smorzata della notte in cui il romanzo si svolge. Soprattutto nel sarcasmo più feroce che mai, nell'improbabile mistura di comico e tragico, di follia estrema e lucidità impietosa. Tutta la poetica di Kaniuk è fatta di questo impasto, a partire da "Adamo Risorto", viaggio in un manicomio ebraico nel deserto, dopo la Shoah. II sarcasmo emerge, feroce, anche nelle fulminanti apparizioni di circostanze assurde, come la madre che incontra una donna che racconta di essere «stata sposata con un nazista e due arabi», che è una storia «fuori luogo» ovunque ma non qui, non nella scrittura di Kaniuk. E poi c'è la pittura, recondita passione dello scrittore, motivo dominante di questo racconto che è più una allucinazione che un romanzo vero e proprio, dove un uomo dipinge i morti perché parlano della vita più dei vivi. Un po' come il Kaddish, la preghiera ebraica in memoria dei defunti dove tutto si menziona fuorché la fine, la morte, dove fra un'iperbole e l'altra non si fa che inneggiare alla indescrivibile e indicibile potenza divina. Di fatto, questo romanzo è il tentativo di entrare un poco in confidenza con la morte, trattarla con dimestichezza, imparare a conoscerla finché si è vivi, come dice per l'appunto Orlov, il protagonista, per giudicare questa sua scelta stilistica - quella di dipingere solo morti: volti e storie racchiuse in quei corpi. Questo consente a Kaniuk di liberare alcune frasi folgoranti sulla vita e sulla morte, di spiazzare il suo lettore e lasciarlo talora a bocca aperta, fra il meravigliato e lo sgomento. Ma quel che è certo è che «morire sazio di giorni» resta, dall'inizio alla fine di questa così come di ogni altra storia, una chimera disarmata di fronte al mistero della nostra inaccettabile caducità.
Elena Loewenthal
La Stampa