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La Stampa Rassegna Stampa
02.06.2014 Presidente dell'Assemblea dell'Onu l'Uganda, uno Stato criminale
è l'ennesima prova del fallimento delle Nazioni Unite

Testata: La Stampa
Data: 02 giugno 2014
Pagina: 12
Autore: Francesco Semprini
Titolo: «L'Uganda anti-gay alla guida dell'Assemblea Onu»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/06/2014, a pag. 12, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo  "L'Uganda anti-gay alla guida dell'Assemblea Onu".
La nomina dell'Uganda a guida dell'Assemblea dell'Onu ripropone un problema la cui soluzione è stata fino ad oggi banalmente discussa e sempre procastinata. Che l'Onu sia uno strumento incapace di funzionare nella maggior parte dei casi è arcinoto. La spiegazione è molto semplice: la maggioranza degli Stati che la compongono sono dittature. Inutile quindi stupirsi - con un' Onu regolata in questo modo - del buon diritto dell'Uganda a rappresentarla.
Non sono in gioco soltanto i diritti di una minoranza. Ciò che va affermato in termini chiari e forti è l'assoluta impossibilità per uno Stato-canaglia come l'Uganda di dirigere l'Assemblea delle Nazioni Unite. Un'unione i cui risultati fallimentari sono sotto gli occhi di tutti. E' ora di cambiarla.

       
Francesco Semprini   Sam Kutesa       L'Assemblea generale dell'Onu

Ecco l'articolo: 


Non ci sono votazioni formali, ma solo una nomina per acclamazione, come prevede la carta costitutiva delle Nazioni Unite nell'elezione del presidente dell'Assemblea generale. Il punto è che questa volta a guidare il «Parlamento del mondo» è un certo Sam Kutesa, il ministro degli Esteri dell'Uganda. Il principio dell'alternanza prevedeva che questa volta fosse un candidato dell'Unione Africana a ricoprire l'incarico, dopo l'anno in cattedra di John William Ashe, diplomatico di Antigua e Barbuda, e di quello del giovane e rampante politico serbo Vuc Jeremic. Il punto è che ciò accade a quattro mesi di distanza da quando il governo di Kampala ha adottato un severa legislazione contro gli omosessuali. La più dura legge anti-gay al mondo, una sorta di «colpo di mano omofobo», che ha sollevato le ire internazionali, tanto che contro la nomina del rappresentante ugandese si sono già mobilitati in molti. Ed ecco riproporsi quella contraddizione in termini che ha più volte caratterizzato l'universo Onu, impegnate in prima fila nella lotta contro omofobia e discriminazioni di ogni genere. L'ultima iniziativa dell'Alto Commissario per i Diritti Umani è ad esempio, un video a favore dei «gay rights» coreografato da Longi di «Slumdog Millionnaire». A far sentire la propria voce sono la senatrice di New York, Kirsten Gillibrand, in Gran Bretagna l'attivista per i diritti dei gay Peter Tatchell ha fatto appello al governo di Cameron per bloccare la candidatura, mentre una petizione su Change.org chiede al segretario di Stato John Kerry di revocare a Kutesa il visto di ingresso, e ai paesi membri dell' Onu affinché votino contro il ministro. Attivisti e ong parlano di «scelta inquietante». Un copione già visto come quando nel 2012 il Ruanda fu eletto membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza, proprio mentre si sospettava sul suo ruolo negli scontri tra forze governative della Repubblica democratica del Congo e il gruppo di ribelli M23. Ma è il Consiglio per i diritti umani il teatro di maggior scontro sulla nomina dei membri, proprio per la natura stessa dell'organismo. Alla fine dello scorso anno sono tornati nel Consiglio Cina, Russia, Arabia Saudita e Cuba: «I difensori dei diritti umani hanno un bel da fare davanti a loro e dovranno raddoppiare i propri sforzi», avverte Human Rights Watch. L'anno prima era stata la volta di Etiopia, Venezuela, Pakistan, Costa d'Avorio e Kazakhstan, e prima ancora Iran. Paesi che a guardare dai rispettivi ordinamenti interni con i diritti umani o più in generale con taluni principi della Carta costitutiva hanno un rapporto quanto meno curioso. Da ricordare infine tra personaggi che hanno creato imbarazzi, Richard Falk, nominato nel 2008 «Special Rapporteur» Onu per i diritti umani nei territori palestinesi, protagonista di invettive contro Israele per le sue «sistematiche violazioni» per le quali Usa e Stato ebraico hanno più volte invocato le sue dimissioni.

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