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Il Foglio Rassegna Stampa
30.05.2014 Perché l'America non può rinunciare a guidare il mondo - Seconda parte
L'analisi Robert Kagan, indispensabile per capire la politica Usa

Testata: Il Foglio
Data: 30 maggio 2014
Pagina: 3
Autore: Robert Kagan
Titolo: «Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo»

Riprendiamo dal FOGLIO del 29/05/2014, a pagg. 3-4 dell'inserto, la seconda parte del saggio di Robert Kagan, tradotta dall'ultimo numero di NEW REPUBLIC , dal titolo "Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo"


Robert Kagan

La prima parte del saggio può essere letta al seguente link:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=53617



La copertina del numero di New Republic che pubblica il saggio di Kagan 

Quando finì la Guerra fredda, molti si convinsero che gli Stati Uniti potessero infine liberarsi dalle enormi responsabilità globali che avevano sostenuto per più di quarant’anni. Come negli anni Venti, il mondo all’inizio degli anni Novanta sembrava sufficientemente sicuro. L’ex Urss era in una fase di collasso economico e politico; la Cina, dopo il massacro di piazza Tiananmen, era diplomaticamente ed economicamente isolata. La preoccupazione maggiore dell’America era il boom dell’economia giapponese che, come sarebbe poi diventato chiaro, stava per cadere in un ventennio di stagnazione. Quindi quale minaccia gravissima imponeva all’America di continuare ad avere un ruolo nel mondo tanto eccezionale e fuori misura? Gli Stati Uniti non potevano tornare a essere una nazione normale con una definizione più normale dei propri interessi nazionali? Nel settembre del 1990, in un articolo intitolato “Un paese normale in tempi normali”, Jeane Kirkpatrick argomentò proprio questa tesi. Con la caduta dell’Urss, non c’era più “la necessità pressante di eroismo e sacrificio”. La Guerra fredda aveva dato alla politica estera “un’importanza innaturale” nella vita americana. “L’élite della politica estera” si era ormai abituata a pensare che gli Stati Uniti avessero “obiettivi espansivi, costosi e globali” che “trascendevano gli interessi apparenti dell’America”. Era arrivato il momento per Washington di “concentrarsi di nuovo sui propri interessi nazionali”, che secondo la Kirkpatrick erano gli interessi “convenzionalmente concepiti” – “proteggere il territorio, la ricchezza e l’accesso ai beni necessari; difendere i propri connazionali”. Questa era “la condizione normale per le nazioni”. Kirkpatrick esprimeva quello che molti sentivano dopo la caduta del Muro nel 1989, non soltanto i seguaci di Patrick Buchanan, che trovò molto da elogiare in quel saggio. Francis Fukuyama disse che con il comunismo in dissoluzione e la democrazia in trionfo, non c’erano altre grandi sfide geopolitiche e ideologiche all’orizzonte. La minaccia principale per il futuro – come scrisse nel suo famoso libro “La fine della storia” – sarebbe stata la noia, la tediosità vuota di una vita all’ombra di un liberalismo occidentale insipido e poco eccitante. Altri sottolineavano l’allarme di Paul Kennedy sull’“overstretch” imperiale e si preoccupavano che gli impegni militari dell’America così estesi e non più giustificati dal nemico sovietico avrebbero finito per portare uno svantaggio al paese in un mondo in cui la geoeconomia vinceva sulla geopolitica. I realisti chiesero un forte ridimensionamento degli sforzi militari oltreoceano, il ritiro delle truppe dall’Europa e dall’Asia, e persino il ritorno a quello che chiamavano “l’equilibrio offshore” degli anni Venti e Trenta. Eppure, e va sottolineato, per i primi due decenni dell’èra post Guerra fredda gli Stati Uniti hanno continuato a sostenere l’imponente strategia da pre-Guerra fredda. Gli eventi che definirono l’approccio degli anni seguenti erano al confronto minori. Nell’agosto del 1990, l’esercito iracheno di Saddam Hussein invase il Kuwait, e in pochi giorni lo conquistò e fece l’annessione. Per quanto fosse un’azione brutale, in confronto agli eventi sismici del sanguinoso Ventesimo secolo, sembrava una “small beer”, una cosa da niente. Il confine tra le due nazioni, come molte frontiere nel mondo arabo, era stato disegnato arbitrariamente dall’impero britannico. Il Kuwait era sotto la sovranità dell’Iraq durante l’impero ottomano, e i leader di Baghdad avevano considerato per decenni il Kuwait una loro provincia. Saddam giustificò l’invasione come un sostegno alla ribellione popolare – creata ad arte – contro la famiglia reale del Kuwait. Dentro e fuori l’Amministrazione Bush, i cosiddetti realisti sostenevano che la linea di reazione degli Stati Uniti non passava dal Kuwait, ma dall’Arabia Saudita. Il petrolio del Kuwait non era poi così importante, disse Colin Powell, e il rischio di un “confronto ben più grave” con Saddam e il suo esercito era molto alto, così l’opzione “più prudente” era quella di difendere i sauditi. “Non possiamo costruire un caso che porti a far perdere vite americane in nome del Kuwait”, diceva Powell, “ma con i sauditi è del tutto differente”. Dick Cheney era preoccupato del fatto che cacciare Saddam dal Kuwait costasse “one hell of a lot of money”, un sacco di soldi, che gli americani avevano “una bassa tolleranza per le guerre” e che, dopotutto, “quel petrolio va soprattutto al Giappone”. James Baker la pensava più o meno allo stesso modo, così come la maggior parte dei democratici al Congresso, e la maggioranza degli americani. Un sondaggio fatto nel 1990 rivelò che il 51 per cento degli americani non era d’accordo con il tentare di far uscire gli iracheni con la forza dal Kuwait e soltanto il 37 per cento pensava che l’intervento fosse giusto. La maggior parte era a favore di sanzioni economiche per punire Saddam. Altri consiglieri di Bush invece, guidati da Brent Scowcroft, vedevano le cose in modo differente. L’invasione di Saddam, pensavano, era “il primo test per il sistema post Guerra fredda”. Per metà secolo gli Stati Uniti avevano avuto un ruolo guida nella deterrenza contro gli eventuali aggressori. Tuttavia cacciare gli iracheni dal Kuwait sarebbe stato “costoso e rischioso”. Scowcroft temeva che un fallimento avrebbe costituito “un precedente terribile, che avrebbe soltanto accelerato tendenze centrifughe violente, in questa èra nascente del dopo Guerra fredda”. L’accettazione di un’aggressione in una regione avrebbe fomentato aggressioni da qualche altra parte. A Bush quella situazione ricordava molto gli anni Trenta. Questa volta, come ricorda nel suo memoir, “non volevo alcun appeasement”. Parlando agli americani alla vigilia della guerra, Bush descrisse gli obiettivi della nazione non in termini di interessi nazionali, ma in termini di un “nuovo ordine mondiale”, nel quale “lo stato di diritto, non la legge della giungla, governa le azioni delle nazioni”. Come Roosevelt nel 1939, Bush affermò che “un mondo nel quale la brutalità e l’illegalità possono continuare indisturbate non è il tipo di mondo in cui vogliamo vivere”. Così l’originale strategia di Roosevelt – la difesa dell’ordine mondiale liberale contro il collasso, con la risposta non soltanto a ogni singola, specifica minaccia ma a ogni sfida politica, economica o strategica potesse presentarsi – sembra riemergere dopo la Guerra fredda. Dopo il 1990, gli Stati Uniti, nonostante alcune pressioni per un maggiore protezionismo nel dibattito interno, in generale cercarono di espandere il libero mercato e lavorarono in collaborazione con altri governi, anche nei momenti di crisi, per prevenire un crollo del sistema economico globale. Gli Stati Uniti cercarono anche di allargare il loro sistema di alleanze, specialmente nell’Europa centrale e orientale. Nel decennio dopo la caduta del Muro, gli Stati Uniti fecero anche un considerevole numero di operazioni militari, sette per essere precisi, più o meno una ogni 17 mesi: a Panama (1989), in Iraq (1991), in Somalia (1992), ad Haiti (1994), in Bosnia (1995), di nuovo in Iraq (1998), in Kosovo (1999). Nessuna operazione era una risposta a una minaccia percepita degli interessi nazionali. Erano tutte fatte per difendere ed estendere l’ordine mondiale liberale – cacciando dittatori, ribaltando golpe, cercando di riportare la democrazia come a Panama e Haiti; prevenendo uccisioni di massa e carestie in Somalia, Bosnia e Kosovo; contenendo o ribaltando aggressioni nel Golfo Persico nel 1991; cercando di prevenire la proliferazione nucleare di altre armi di distruzione di massa in Iraq nel 1998. Quando Bush inviò 30 mila soldati per rimuovere il dittatore corrotto Manuel Noriega non fu, come scrisse giustamente Gorge Will al tempo, per perseguire interessi nazionali “vagamente costruiti”, ma per soddisfare “i diritti e le responsabilità che s’accompagnano al possesso di un grande potere”. Quando Bush poi andò in Somalia, si trattò dell’intervento più puramente umanitario, e anche puramente disinteressato, della storia americana. Disse: “Comprendo che gli Stati Uniti da soli non possono aggiustare tutto quel che è rotto nel mondo”. Ma il popolo somalo “ha bisogno del nostro aiuto” e “alcune crisi nel mondo non possono essere risolte senza il coinvolgimento dell’America”. Gli Stati Uniti, in breve, erano “la nazione indispensabile” secondo la definizione di Bill Clinton – indispensabile per preservare l’ordine mondiale liberale. Questo era il pensiero alla base di molte delle iniziative di politica estera di Clinton: l’allargamento della Nato, che includeva l’estensione di garanzie militari senza precedenti a nazioni come la Polonia, la Repubblica ceca, i paesi baltici; i miliardi inviati per salvare l’incerto esperimento democratico di Boris Yeltsin in Russia; il focus sul contenimento di Corea del nord, Iraq e Iran, definiti “rogue states” proprio perché sfidavano i princìpi dell’ordine mondiale liberale. I conflitti in parti remote e turbolente del mondo non erano considerati irrilevanti per gli interessi nazionali, ma furono posizionati all’interno di un contesto più ampio. Dopo il massacro di Srebrenica, nel 1995, gli uomini di Clinton affermarono, secondo David Halberstam, che “l’aggressione serba” era intollerabile – non perché minacciava direttamente gli interessi americani, cosa che ovviamente non faceva, ma perché “squarciava il tessuto stesso dell’occidente”. Anche lo scontro con l’Iraq, cominciato alla fine degli anni Novanta e culminato con l’invasione del 2003, cominciò come un problema di ordine mondiale, prima di diventare parte della “Guerra al terrore” di George W. Bush. Quando Clinton diede l’ordine per quattro giorni di bombardamenti e attacchi missilistici contro le basi in cui si sospettava che fossero prodotte le armi irachene alla fine del 1998, avvertì che, se Saddam non fosse stato fermato, la comunità delle nazioni si sarebbe accorta “sempre di più della minaccia che l’Iraq rappresenta oggi: uno stato fallito con armi di distruzione di massa, pronto a usarle o a darle ai terroristi. Se non rispondiamo oggi, domani Saddam e tutti quelli che seguiranno i suoi passi si sentiranno più forti”. Nel Ventesimo secolo, gli americani “hanno spesso fatto la distinzione tra caos e comunità, paura e speranza. Ora, nel nuovo secolo, avremo un’opportunità rimarchevole di forgiare un futuro più pacifico rispetto al passato”. Alla fine, la decisione di George W. Bush di rimuovere Saddam Hussein, che fosse saggia o folle, era guidata più da preoccupazioni sull’ordine mondiale che sullo stretto interesse nazionale. Di tutti gli interventi dell’èra post Guerra fredda, soltanto l’invasione dell’Afghanistan potrebbe essere considerata legata direttamente alla sicurezza nazionale dell’America.
I LUNGHI INTERVENTI IN IRAQ E AFGHANISTAN hanno certamente giocato un ruolo nello svilire il sostegno americano, non soltanto per le guerre ma anche per la strategia che aveva portato a quelle guerre. Tuttavia, quel sostegno è stato fragile fin dall’inizio. I sondaggi durante tutti gli anni Novanta mostravano che gli americani erano incerti sulle operazioni oltreoceano, anche se l’opinione pubblica generalmente sosteneva i loro presidenti quando usavano la forza. I democratici votarono contro la guerra nel Golfo Persico di Bush padre; i repubblicani s’opposero agli interventi dell’Amministrazione Clinton ad Haiti e nei Balcani considerandoli superflui “lavori sociali internazionali” e “nation building” del tutto separati dagli interessi nazionali dell’America. I realisti nelle università e nei centri studi si distanziarono dalle diverse Amministrazioni, lanciando allarmi sull’“imperialismo”. Forse come quei protagonisti dei cartoni animati che corrono verso i burroni e restano appesi con le gambe penzolanti prima di cadere, il sostegno alle politiche degli anni Novanta fu una specie di inerzia in avanti, alimentata dall’energia dell’ultima parte della Guerra fredda, che la forza di gravità avrebbe infine riportato sulla terra.
IL PENSIERO COMUNE PREVALENTE oggi è che gli americani sono stanchi della guerra. Ma sarebbe più accurato dire che sono stanchi del mondo. Durante la Guerra fredda, dopotutto, gli americani avevano molti più motivi per essere stanchi della guerra – la Corea e il Vietnam sono state 14 volte più costose in termini di vite americane rispetto all’Afghanistan e all’Iraq – ma non rifiutarono mai completamente la strategia del contenimento anticomunista che li aveva portati in guerra. L’umore di oggi sembra più simile a quello degli anni Venti. Più del 50 per cento degli americani oggi crede che gli Stati Uniti “debbano occuparsi dei propri affari a livello internazionale e lasciare che le altre nazioni vadano avanti come meglio riescono da sole” – è il numero più alto raggiunto da quando Pew ha iniziato a fare questa domanda, cinquanta anni fa. Al cuore di questo atteggiamento c’è senza dubbio il desiderio di evitare altre guerre. Ma come gli anni Venti e Trenta hanno dimostrato, la determinazione a rimanere fuori dalla guerra può influenzare le politiche estere ed economiche a livello più ampio. Negli anni Trenta, il desiderio di evitare la guerra portò il Congresso ad approvare i Neutrality Acts, per impedire che soltanto il commercio degli americani con i paesi belligeranti  di una guerra all'estero potesse  trascinare il paese da una parte o dall'altra di qualche conflitto. Un'azione del genere sarebbe inconcepibile oggi, ma il ragionamento che sta dietro è palese.  Più del 50 per cento degli americani concorda nel dire che è "più importante" che gli Stati Uniti "non si facciano coinvolgere in Ucraina" piuttosto che "prendere una posizione decisa"  contro la Russia, cosa che soltanto il 29 per cento considera invece più importante. Molti di quelli che non vogliono essere "troppo coinvolti" possono temere che ogni coinvolgimento porti a un possibile conflitto militare, e non hanno del tutto torto. Come negli anni Venti e Trenta, gli americani sanno capire quando può andare a finire male.  

giorno di indipendenza, la bandiera americana con aquila File vettoriale

Spesso gli storici fanno riferimento alla “maturazione” della politica estera dell’America nel Diciannovesimo secolo. Ma se le nazioni possono imparare, possono anche dimenticare quanto imparato. In questi giorni è difficile osservare il comportamento della politica estera americana e la discussione che le ruota intorno senza percepire una certa dimenticanza delle vecchie lezioni su cui poggiava la grande strategia. Forse era inevitabile. La Seconda guerra mondiale è distante dai “millennial” di oggi quanto la Guerra civile lo era per la generazione degli anni Trenta. Una generazione che non ricorda la Guerra fredda, ma che è cresciuta conoscendo solo l’Iraq e l’Afghanistan, sta iniziando a vedere in maniera differente il ruolo dell’America nel mondo. Si aggiunga il fatto che la generazione precedente è stanca di interpretare lo stesso vecchio ruolo, e non sorprende che l’entusiasmo si stia sgonfiando. Gli americani oggi non sono isolazionisti, sono più come erano negli anni Venti. Amano l’ordine mondiale liberale nella misura in cui pensano che questo abbia conseguenze immediate sulle loro vite. Ma non sono più preparati a sacrificare molto per proteggerlo. E’ comprensibile. Gli americani sono stati degli Atlanti che portavano il mondo sulle loro spalle. Possono essere perdonati per la tentazione di metterlo giù. Nelle migliori circostanze, ricoprire il ruolo del difensore dell’ordine mondiale liberale è sempre stato un compito monumentale. All’alba dell’èra americana, Truman la definì “la responsabilità più terribile che qualsiasi nazione abbia mai affrontato”. George Kennan era convinto che gli americani “non fossero adatti, né a livello istituzionale né per temperamento, per essere un potere imperiale in grande stile”. Kennan li sottostimava, e gli americani hanno mantenuto i loro impegni verso il mondo per decenni, meglio di molte altre nazioni. Nonostante questo il peso è stato enorme, e non soltanto per i costi ovvi in vite e denari. Gli americani hanno speso cifre gigantesche nei budget per la Difesa, più di tutte le altre grandi potenze messe insieme. Gli alleati dell’America non possono portare un po’ di più di questo peso? La domanda è stata posta fin dall’inizio della Guerra fredda, ma la risposta è sempre stata: probabilmente no. Le stesse ragioni che hanno reso gli Stati Uniti capaci di difendere l’ordine mondiale – ricchezza e potere enormi e la sicurezza data loro dalla geografia – aiuta a capire perché gli alleati degli americani sono sempre stati meno capaci e meno volenterosi. Sono mancati loro il potere e la sicurezza di vedere e agire oltre i loro limitati interessi. E dove hanno fallito nel passato falliranno ancora. Anche gli europei del Ventunesimo secolo, con tutte le loro meraviglie di unioni europee, sembrano incapaci di unirsi contro il predatore che sta in mezzo a loro, e sono pronti, come nel passato, a lasciare che il più debole sia divorato se questo è necessario per salvare la loro pelle (e l’economia). Ci sono anche alcuni costi morali. Come molti popoli, gli americani amano credere che il loro comportamento nel mondo sia giusto, che sono dalla parte della ragione. Se possibile, vogliono avere una sanzione legale e istituzionale per le loro azioni, o quanto meno l’approvazione generale delle nazioni affini. Nelle due occasioni negli scorsi cento anni in cui gli Stati Uniti hanno preso in considerazione l’idea di assumere un ruolo centrale negli affari mondiali, nel 1918 e nel 1945, i leader americani hanno insistito per creare contestualmente un’organizzazione globale che potesse, almeno in teoria, legittimare l’operato americano. Il problema è che il mondo manca di ogni istituzione sovranazionale, legale o istituzionale, e ancor meno di un’autorità democratica, alla quale le nazioni si sottomettano. I dilemmi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sono risolti non sulla base di una giustizia imparziale ma di solito sulla base della distribuzione dei poteri nel sistema. Gli americani hanno sempre avuto bisogno di usare il loro potere per sostenere la loro idea di giustizia senza nessun’altra rassicurazione oltre alla consapevolezza di essere nel giusto. E’ un peso morale enorme per un paese democratico. Nelle loro vite di tutti i giorni, gli americani sono abituati a vivere questo peso suddiviso uniformemente su tutta la società. Il popolo fa le leggi, la polizia le fa rispettare, i magistrati e le giurie comminano le pene e i funzionari carcerari infliggono le punizioni. Ma nella sfera internazionale, gli americani hanno dovuto agire da giudice, giuria, polizia e, nei casi di azione militare, anche da boia. Cosa dà agli Stati Uniti il diritto di agire in vece dell’ordine mondiale liberale? In verità niente, oltre alla convinzione che l’ordine mondiale liberale è il più giusto. Questo dilemma morale era più facile da ignorare durante la Guerra fredda, quando ogni azione intrapresa, anche negli angoli più oscuri del pianeta, era giustificata dalla difesa di interessi nazionali vitali. Ma oggi le azioni prese in difesa dell’ordine mondiale sono cariche di complessità morale. Gli americani e gli europei dicono che la sovranità dell’Ucraina dovrebbe rimanere inviolata e che il popolo dell’Ucraina dovrebbe essere reso libero di seguire le proprie aspirazioni a essere parte dell’Europa. Vladimir Putin giustifica la sua invasione della Crimea sulla base di antichi legami storici e come risposta all’intromissione americana ed europea nella sfera storica di influenza della Russia. C’è qualcuno che può giudicare tra queste due invocazioni di giustizia contrastanti? Chi può decidere quale parte ha ragione e quale ha torto? Non è il caso di invocare una qualche moralità superiore del Ventunesimo secolo in contrasto con l’inferiore moralità del Diciannovesimo. In questo secolo non c’è più moralità o più giustizia nel sistema internazionale di quanto ce ne fossero in quelli precedenti. Né le grandi potenze arrivano allo scontro con la coscienza pulita, in questo o negli altri secoli. Tutte pensano al loro potere, tutte sono moralmente compromesse. Infatti, più potere ha una nazione, più tende ad agire in modi che non possono essere definiti secondo la concezione di moralità cristiana o illuminista. Chi potrebbe dire che perfino la difesa dell’ordine liberale è necessariamente giusta? L’ordine liberale non è mai stato messo al voto. Non è stato benedetto da Dio. Non è il punto d’arrivo del progresso umano, nonostante ciò che ci dice la nostra educazione illuminista. E’ un ordine mondiale temporaneo ed effimero che soddisfa le esigenze, gli interessi e soprattutto gli ideali di un grande e potente insieme di popoli, ma che non necessariamente soddisfa gli interessi e i desideri di tutti. Per decenni molti popoli stranieri e anche alcuni americani lo hanno visto come una forma di imperialismo occidentale, e molti ancora lo vedono come tale. Il comunismo sarà fallito, ma l’autoritarismo e l’autocrazia sopravvivono. Ed è l’autocrazia, non la democrazia, a essere stata la forma di governo standard nel corso della storia. Negli ultimi decenni le democrazie, guidate dagli Stati Uniti e dall’Europa, hanno avuto il potere di plasmare il mondo. Ma chi può dire che il putinismo in Russia o il tipo particolare di governo autoritario praticato in Cina non sopravviveranno abbastanza per sostituire la democrazia europea, anch’essa, eccezion fatta per la Gran Bretagna, vecchia appena di un secolo? L’ordine mondiale liberale, come ogni altro ordine, è qualcosa di imposto, e per quanto l’occidente possa desiderare che sia imposto dalla sua virtù superiore, è solitamente imposto da una manifestazione di potere superiore. Putin cerca di imporre la sua visione dell’ordine mondiale, almeno nell’area di influenza russa, esattamente come cercano di fare l’Europa e gli Stati Uniti. Il suo successo o il suo fallimento probabilmente non saranno determinati solo da chi ha ragione e chi ha torto. Saranno determinati dall’esercizio del potere. Questa è una riflessione inquietante per una nazione che si è stancata di esercitare il potere. Hans Morgenthau una volta ha notato che gli americani sono attratti dall’“illusione che una nazione possa scappare… dalla politica di potere”, e che a un certo punto “gli ultimi veli cadranno e il gioco della politica di potere smetterà di essere giocato”. Molte fughe dalla realtà sono state proposte negli ultimi vent’anni. Nel 1989 Fukuyama disse agli americani che con la fine della storia non sarebbero più “rimasti veri avversari ideologici della democrazia liberale”. Il progresso liberale era inevitabile, e pertanto non c’era bisogno di fare niente per promuoverlo o difenderlo. Questi pensieri sono risuonati in tutti gli anni Novanta. L’èra della geopolitica aveva lasciato il posto all’èra della geoeconomia. Quello di cui l’America aveva bisogno nella nuova èra era meno “hard power” e più “soft power”. Questo era il senso comune almeno dalla fine della Guerra fredda fino al 2008 e l’inizio della crisi finanziaria. Poi il paradigma è cambiato. All’improvviso, al posto della fine della storia si è iniziato a parlare di fine dell’America e di fine dell’occidente. Il trionfalismo si è trasformato in declinismo. Dall’utopia del dopo Guerra fredda si è passati al mondo post americano. Ma anche questa si è rivelata essere un’evasione dalla realtà: sia che il mondo liberale stesse trionfando sia che l’America e l’occidente fossero in declino, la soluzione rimaneva la stessa: non c’è niente da fare. Dovunque prima era stato inutile per l’America, o perfino sbagliato, usare il suo potere per plasmare il mondo, ora, all’improvviso, era impossibile, perché gli Stati Uniti non avevano più potere a sufficienza. Oggi più del cinquanta per cento degli americani ritiene che gli Stati Uniti giochino “un ruolo meno importante e potente come leader mondiale di quanto non facessero dieci anni fa”. Si potrebbe pensare che per molti americani questo declino non sia accompagnato da un senso di panico bensì di sollievo. Meno potere significa meno responsabilità. Un senso di inevitabilità, oggi come negli anni Venti e Trenta, è sia un invito sia una giustificazione per un ritorno alla normalità. Il senso di inevitabilità ha colto anche i legislatori. Gli alti funzionari della Casa Bianca, soprattutto i più giovani, guardano a problemi come la guerra civile in Siria e pensano che ci sia poco o niente che gli Stati Uniti possano fare. Questa è la lezione della loro generazione, la lezione dell’Iraq e dell’Afghanistan: che l’America non ha né il potere né la sensibilità né la capacità per risolvere i problemi nel mondo. Anche questo è un tentativo di fuga dalla realtà, in quanto c’è un mito in questo appello all’inevitabilità, cioè che esercitare il potere un tempo fosse più facile di quanto non sia oggi. Possiamo indossare degli occhiali dalle lenti rosa e ripensare alla Guerra fredda e immaginare che gli Stati Uniti sapessero perfettamente come convincere gli altri a fare quello che volevano, sapessero quello che andava fatto e avessero un potere così eccezionale che il mondo si inginocchiava al loro volere o soccombeva al loro incanto. Ma la politica americana durante la Guerra fredda, nonostante il suo successo finale, era piena di errori, insensatezze, mezzi disastri, qualche disastro vero. Fin dall’inizio gli alleati sono stati riottosi, risentiti e difficili da gestire. La politica interna rendeva le grandi strategie difficili e a volte impossibili da mettere in pratica. L’economia mondiale, con l’economia americana, passava di crisi in crisi. Il potere militare dell’America era quanto meno uno strumento malsicuro. In Vietnam, perché inevitabile o a causa delle cattive strategie di Washington, fallì miseramente. In Corea, subì quasi la catastrofe completa. I presidenti di maggior successo del loro tempo, da Truman a Reagan, non sono sembrati sempre di successo agli occhi dei loro contemporanei e hanno subìto sconfitte significative nelle loro politiche internazionali. Gli architetti delle strategie internazionali di oggi davvero credono che Acheson e i suoi colleghi, o gli strateghi nelle Amministrazioni Johnson, Nixon o Carter se la passassero meglio di loro? La politica estera di ogni nazione è destinata a subire più fallimenti che successi. Il tentativo di influenzare il comportamento delle persone anche nelle questioni domestiche è già abbastanza difficile. Influenzare gli altri popoli e le altre nazioni senza limitarsi ad annichilirli è la più difficile delle azioni umane. E’ anche nella natura intima della politica estera, così come nelle questioni umane in genere, che tutte le soluzioni ai problemi portino solo più problemi. Questo è sicuramente vero per tutte le guerre. Nessuna guerra finisce in maniera perfetta, anche quelle con gli obiettivi più chiari e limpidi. La Guerra civile non pose fine alla piaga terribile della schiavitù, pur costando mezzo milione di vite. La Seconda guerra mondiale finì con il controllo dell’Unione sovietica su metà dell’Europa e aprì la strada ad altri quarant’anni di scontro tra superpotenze. Quando una nazione usa il suo potere per plasmare l’ordine mondiale, più che per autodifesa o conquista, l’ambiguità delle soluzioni è ancora più forte. Le azioni militari per preservare l’ordine mondiale sono quasi per definizione limitate sia negli scopi sia negli obiettivi. Il mantenimento dell’ordine mondiale rende necessario operare nell’area grigia tra la vittoria e la sconfitta. La misura del successo spesso non è quanto è meraviglioso il risultato finale, ma se l’insoddisfacente risultato finale è migliore o peggiore di quello che sarebbe accaduto se non si fosse agito. Insistere su risultati che puntino sempre al massimo risultato con il minor costo possibile è un’altra forma di fuga dalla realtà.
OGGI, TUTTAVIA, GLI AMERICANI SEMBRANO SOPRAFFATTI dalla difficoltà e dalla complessità di tutto questo. Anelano a ritornare a quella che Niebuhr ha chiamato “l’innocenza dell’irresponsabilità”, o quanto meno a una normalità in cui gli Stati Uniti possano limitare la portata dei loro impegni. In questo senso l’America è tornata allo stato d’animo degli anni Venti. C’è una differenza però. Negli anni Venti, non era l’ordine mondiale americano che aveva bisogno di essere puntellato. Gli americani pensavano, in modo errato come poi si è capito, che fosse compito della Gran Bretagna e dell’Europa difendere l’ordine mondiale che loro stesse avevano creato. Oggi è l’ordine mondiale dell’America che ha bisogno di sostegno. Gli americani decideranno che questa volta vale la pena sostenerlo, quando solo loro hanno la capacità di farlo? Non si pensa mai all’acqua fino a che il pozzo non si prosciuga, o almeno così dice il proverbio. Ci si potrebbe chiedere se gli americani, compresi i loro rappresentanti e il loro presidente, comprendano la posta in gioco. Quando il presidente Obama salì in carica per la prima volta cinque anni fa, Peter Baker del New York Times scrisse che il suo intento era di occuparsi “del mondo così com’è più che del mondo come dovrebbe essere”. E’ un ritornello realista che è stato ripetuto ancora e ancora dagli alti funzionari dell’Amministrazione Obama per spiegare perché il presidente ha deciso di non perseguire alcuni “ideali” desiderabili ma non raggiungibili in questa o quella questione. Quello che sempre meno persone sembrano capire, però, è che gli ultimi settanta anni hanno offerto all’America e a molti altri una notevole tregua dal “mondo così com’è”. Lunghi periodi di pace e di prosperità possono portare la gente a dimenticare com’è veramente il mondo “così com’è”, e a concludere che la razza umana sia semplicemente arrivata a un nuovo stadio di sviluppo. Questo era il pensiero comune in Europa nel primo decennio del Ventesimo secolo. In un periodo in cui non c’erano state guerre tra grandi potenze per quarant’anni, né una grande guerra europea in un secolo, l’aria era piena di discussioni su un nuovo millennio in cui la guerra tra nazioni civilizzate era ormai diventata impossibile. Tre quarti di secolo, due guerre mondiali e una Guerra fredda dopo, queste idee stanno tornando. Alcuni studi citati da Fareed Zakaria pretendono di mostrare che è avvenuta una “trasformazione nelle relazioni internazionali”. “Le modificazioni dei confini con la forza” si sono ridotte drammaticamente “dal 1946”. Le nazioni dell’Europa occidentale, dopo aver provocato due nuove guerre all’anno per 600 anni, non ne hanno iniziata nemmeno una “dal 1945”. Steven Pinker nota che il numero delle morti causate da guerre, conflitti etnici e colpi di stato militari si è ridotto – dal 1945 – e conclude che la razza umana è diventata “socialmente adatta” a preferire la pace e la non violenza. Le date in cui questi cambi dovrebbero essere cominciati sono un buon indizio. E’ una coincidenza che tutti questi trend felici sono iniziati quando l’ordine mondiale americano è stato instaurato dopo la Seconda guerra mondiale, o che siano accelerati negli ultimi due decenni del Ventesimo secolo, quando l’unico vero avversario dell’America è crollato? Immaginate di passeggiare per Central Park e, dopo aver notato quanto è diventato sicuro passare di lì, decidere che l’umanità deve semplicemente essere diventata meno violenta – senza pensare che forse la polizia di New York ha qualcosa a che vedere con il fenomeno. Infatti, il mondo “così com’è” è un posto pericoloso e spesso brutale. Non ci sono state trasformazioni nel comportamento umano o nelle relazioni internazionali. Nel Ventunesimo secolo, non meno che nel Diciannovesimo o nel Ventesimo, la forza rimane l’ultima ratio. La domanda, oggi come nel passato, non è se le nazioni sono pronte a usare la forza ma se pensano di potersela cavare quando lo fanno. Se ci sono state meno aggressioni, meno pulizie etniche, meno conquiste territoriali negli ultimi settanta anni, è perché gli Stati Uniti e i loro alleati hanno punito e prevenuto le aggressioni, sono intervenuti, a volte, per evitare le pulizie etniche, e sono entrati in guerra per contrastare le conquiste territoriali. L’esitazione mostrata dalle altre nazioni nell’uso della forza non era segno del progresso umano, del rafforzamento delle istituzioni internazionali o del trionfo della legge. E’ stata una risposta a una distribuzione globale del potere che, fino a poco tempo fa, rendeva l’autocontrollo la via più sicura. Quando Vladimir Putin non è riuscito a raggiungere i suoi scopi in Ucraina con i mezzi della politica e dell’economia, è ricorso alla forza, perché sapeva di poterlo fare. Continuerà a usare la forza finché riterrà che i benefici saranno maggiori degli svantaggi. E non è l’unico a pensarla in questo modo. Cosa potrebbe fare la Cina se non fosse circondata da un anello di nazioni potenti sostenute dagli Stati Uniti? E inoltre, cosa potrebbe fare il Giappone se fosse molto più potente di adesso e molto meno dipendente dagli Stati Uniti per la sua sicurezza? Non abbiamo avuto bisogno di scoprire le risposte a queste domande, non ancora, perché il predominio dell’America, il sistema di alleanze dell’America, e gli aspetti economici, politici e istituzionali dell’attuale ordine mondiale, tutti dipendenti dall’esercizio del potere, hanno tenuto chiuso il coperchio su questo vaso di Pandora. E non abbiamo ancora scoperto quali conseguenze potrebbe avere il mondo “così com’è” sulla rimarchevole diffusione della democrazia. I critici della “esportazione della democrazia” sostengono che gli Stati Uniti spesso hanno provato a piantare la democrazia su suolo improduttivo. Forse hanno ragione. Il fiorire della democrazia nel mondo negli ultimi decenni potrebbe dimostrarsi artificiale e pertanto transitorio. Come ha osservato una volta Michael Ignatieff, potrebbe essere che la “civiltà liberale” in sé “sia intimamente contraria alla direzione dello sviluppo umano e sia realizzata e mantenuta soltanto grazie a una lotta incessante contro la natura umana”. Forse questo fragile giardino democratico richiede il mantenimento di un ordine mondiale liberale, e richiede di essere costantemente concimato, innaffiato, seminato e recintato contro la giungla sempre incombente. Senza tutto questo lavoro, le erbacce e la giungla potrebbero presto o tardi tornare e riprendersi la terra. Ci si potrebbe chiedere se l’ordine economico attuale rifletta il mondo “così com’è”. Un mondo in cui le autocrazie fanno tentativi sempre più ambiziosi per controllare il flusso delle informazioni, e in cui le cleptocrazie autocratiche usano la ricchezza e le risorse per perseguire i loro interessi privati, potrebbe dimostrarsi meno ospitale verso la libera circolazione dei commerci di cui il mondo ha goduto negli ultimi decenni. Infatti, dai tempi in cui Roosevelt e Truman lo lanciarono, l’intero progetto di promuovere e difendere un ordine del mondo liberale è stato uno sforzo organizzato per non accettare il mondo “così com’è”. Il progetto americano era rivolto a plasmare un mondo diverso da come era sempre stato, avvantaggiandosi della capacità unica dell’America di fare quello che nessun’altra nazione era mai stata capace di fare. Oggi, tuttavia, poiché molti americani non ricordano com’è davvero il mondo “così com’è”, non lo possono immaginare. Si lamentano delle difficoltà e dei fallimenti della grandiosa strategia ma danno per garantiti tutti i suoi benefici. Forse non comprendono nemmeno quanto velocemente tutto questo potrebbe sfaldarsi. Il sistema internazionale è una rete elaborata di relazioni di potere, in cui ogni nazione, dalla più grande alla più piccola, è perennemente soggetta a spostamenti e perturbazioni. Fin dal 1945, e soprattutto fin dal 1989, questa rete è stata ideata per dipendere soprattutto dagli Stati Uniti. Gli alleati osservano il comportamento americano e soppesano l’affidabilità dell’America. Le nazioni contenute o minacciate dal potere americano cercano segnali dell’aumento o della diminuzione del suo potere e della sua volontà. Quando gli Stati Uniti sembrano tirarsi indietro, gli alleati di conseguenza diventano ansiosi, e gli altri iniziano a cercare un modo per approfittare della situazione. Negli ultimi anni, il mondo ha colto inconfondibili segnali che gli americani forse non vogliono più portare su di sé il peso della responsabilità globale. Gli altri osservano i sondaggi, leggono i discorsi del presidente che invoca un “nation building domestico”, guardano la diminuzione del budget della Difesa e delle capacità militari, e notano l’eccezionale reticenza, da parte dei partiti politici americani, ad usare la forza. Il mondo ritiene che, se non fosse stato per la stanchezza dell’America nei confronti della guerra, gli Stati Uniti probabilmente avrebbero usato la forza in Siria – esattamente come fecero in Kosovo, in Bosnia e a Panama. Lo stesso presidente Obama lo ha riconosciuto di recente quando ha detto “non è che non andrebbe fatto. E’ che dopo un decennio di guerre, sapete com’è, anche gli Stati Uniti hanno dei limiti”. Queste dichiarazioni fanno vibrare tutta la rete. Nell’est asiatico, le nazioni che vivono vicine alla sempre più potente Cina vogliono sapere se gli americani faranno lo stesso ragionamento quando sarà la volta di difendere loro; nel medio oriente, le nazioni preoccupate dall’Iran si chiedono se saranno lasciate ad affrontarlo da sole; nell’Europa dell’est e nei paesi del Baltico, le garanzie di sicurezza americane sono prive di significato a meno che gli americani non siano in grado di fare loro onore, e ne abbiano la volontà. Ce l’hanno? Nessuno di recente ha fatto un sondaggio per capire se gli Stati Uniti dovrebbero andare in difesa degli alleati con cui hanno stabilito un trattato in caso di una guerra, diciamo, tra la Cina e il Giappone, o se dovrebbero andare in difesa dell’Estonia in un conflitto con la Russia sul modello ucraino. La risposta potrebbe essere interessante. Nel frattempo, i segnali che l’ordine globale si sta disfacendo sono intorno a noi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’annessione della Crimea sono state la prima volta dalla Seconda guerra mondiale in cui una nazione europea è stata coinvolta in una conquista territoriale. Se l’Iran riesce a ottenere l’arma nucleare potrebbe portare le altre potenze nella regione a fare lo stesso, smontando il regime di non proliferazione che, insieme con il potere americano, è riuscito a mantenere il numero delle potenze dotate di armi nucleari ridotto nell’ultimo mezzo secolo. L’Iran, l’Arabia Saudita e la Russia sono coinvolte in una guerra per procura in Siria che, oltre a 150 mila morti e milioni di rifugiati, ha ulteriormente destabilizzato una regione che era già in tumulto. Nell’Asia dell’est il nervosismo sull’ascesa della Cina, unito all’incertezza sull’affidabilità dell’America, sta aumentando le tensioni. Negli ultimi anni il numero delle democrazie nel mondo si è ridotto costantemente, mentre il numero delle autocrazie cresce. Se questi trend continuano, nel prossimo futuro potremmo vedere un aumento dei conflitti, delle guerre per la conquista di territori, sempre più violenza etnica e settaria, e il declino della democrazia nel mondo. Come risponderà l’America? Se cercheranno di interpretare ancora una volta l’“interesse nazionale” in maniera ristretta, allora gli americani potrebbero trovare tutto questo tollerabile, o quanto meno preferibile a fare qualcosa per fermarlo. Gli Stati Uniti potrebbero sopravvivere se la Siria rimane sotto il controllo di Assad o, più probabilmente, si disintegra in un caos di territori, alcuni dei quali saranno controllati dai terroristi jihadisti? Potrebbe sopravvivere se l’Iran ottiene la bomba atomica, e se di conseguenza l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Egitto si armano anche loro? O se la Corea del nord dichiara guerra al sud? Potrebbe sopravvivere in un mondo dove la Cina domina gran parte dell’oriente asiatico, o dove la Cina e il Giappone riprendono il loro antico conflitto? Potrebbe sopravvivere in un mondo dove la Russia domina l’Europa dell’est, non solo l’Ucraina ma anche gli stati baltici e forse perfino la Polonia? Ovvio che potrebbe. Dal punto di vista della nuda “necessità” e di un interesse nazionale miope, gli Stati Uniti potrebbero sopravvivere a tutto questo. Potrebbero fare commerci con una Cina egemone e trovare un modo per convivere con un impero russo restaurato. Quelli che sono preoccupati da questi sviluppi saranno pressati, come lo fu Roosevelt, a spiegare come ciascuno di questi casi marginali potrebbe coinvolgere gli interessi ristretti dell’americano medio. Come nel passato, gli americani saranno tra gli ultimi a soffrire gravemente dal disfacimento dell’ordine mondiale. E quando avranno iniziato a sentirne gli effetti, ormai sarà troppo tardi. Nel periodo della Seconda guerra mondiale, Robert Osgood, il più attento tra i pensatori realisti dello scorso secolo, individuò un elemento che mancava dall’analisi strategica di quei giorni. Il mero calcolo razionale dell’“interesse nazionale”, sosteneva, si è dimostrato inadeguato. Paradossalmente, erano gli “idealisti”, quelli che erano “più sensibili alla minaccia del fascismo contro la cultura e la civilizzazione occidentale”, “tra i primi a capire la necessità di prendere misure straordinarie per sostenere la posizione in prima linea dell’America in difesa dell’Europa”. L’idealismo, concluse, era “un pungolo indispensabile nella mente dei grandi uomini per comprendere e agire davanti ai veri imperativi della politica di potere”. Questo era anche il messaggio di Roosevelt, quando chiese agli americani di difendere “non solo le loro case, ma i princìpi di fede e umanità sui quali le loro chiese, i loro governi e la loro civiltà erano fondati”. Forse gli americani possono essere ispirati ancora alla stessa maniera, senza la minaccia di un Hitler o un attacco al loro territorio nazionale. Ma questa volta non hanno venti anni per decidere. Il mondo cambierà molto più velocemente di quanto immaginino. E non c’è nessuna superpotenza democratica ad attendere dietro le quinte per salvare il mondo se questa superpotenza democratica vacilla.

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