I vicini scomodi Roberto Matatia
Giuntina Euro 10
Nell’autunno del 1938, per Nissim e la sua famiglia la sfortuna fu doppia. Essere ebrei, la prima. Essere vicini di casa di Mussolini, la seconda. Eppure fu proprio in nome di questa vicinanza che l’ebreo greco arrivato nel ’20 a Forlì da Corfù per cercar fortuna pensò che la tempesta non lo avrebbe travolto. Cosa sarebbe potuto succedere – si chiedeva- a uno come lui? Un fascista della prima ora, con villa per le vacanze a Riccione, proprio a ridosso di quella del Duce, con i figli che in spiaggia giocavano con i piccoli Mussolini, con la moglie che quando vedeva arrivare l’idrovolante bianco di Lui quasi sveniva per l’emozione.
E poi, era o no il pellicciaio di fiducia dei gerarchi che nel tempo fascista del turismo facevano a gara nel far regali a mogli e amanti? Aveva o no tanti amici in camicia nera?
È vero che qualcuno di questi lo aveva avvertito nel corso dell’estate: l’aria sta cambiando per gli ebrei, meglio vendere tutto e andarsene. Ed è vero che da febbraio lo avevano convocato più volte in questura a Bologna: «Dovete assolutamente vendere quella casa. È intollerabile che un ebreo possa villeggiare a pochi metri dal Duce. Voi, subdoli parassiti, non potete né dovete avvicinarvi né a Lui né alla sua famiglia».
Sì, l’aria stava cambiando e i fratelli di Nissim – Leone ed Eliezer, giunti con lui da Kerkyra – già stavano meditando di riparare all’estero con le rispettive famiglie. Ma con lui, che alla moglie Matilde Hakim e ai figli Beniamino, Camelia e Roberto assicurava che tutto si sarebbe risolto «all’italiana». E che nessuno lo avrebbe costretto a vendere la villa in mattoni rossi in fondo a viale Ceccarini, a ridosso della spiaggia, simbolo di un benessere arrivato in fretta. Il Manifesto della razza del 14 luglio? Parole. E quel titolo sul Resto del Carlino? “Gli insegnanti e gli alunni ebrei esclusi dalle scuole a datare dal 16 ottobre”.
Preoccupante, ma…
Un ma destinato a frantumarsi pochi giorni dopo le leggi razziali, quando clienti e amici lo fanno sentire un morto che cammina. Nissim Matatia, ebreo straniero di anni 54, viene espulso dall’Italia e rispedito a Corfù.
Da laggiù è costretto a dare il suo consenso alla vendita della villa al mare: per sole 14.400 lire passa al Comune di Riccione. Un vero furto di Stato, che però consente al Duce di non avere più vicini ebrei, «subdoli parassiti». Dopo qualche tempo, il pellicciaio di Forlì rifà il tragitto all’incontrario, rientrando clandestinamente in Italia e nascondendosi a Bologna.
La famiglia si è nel frattempo rifugiata a Savigno, sull’Appennino bolognese. Anche i loro incontri sono clandestini, organizzati per vedersi pochi minuti nelle vie della città, per farsi coraggio a vicenda. Fino a quel novembre del ’43, quando Nissim e il figlio Roberto, 14 anni, vengono arrestati in piazza Re Enzo. Il 1° dicembre, dopo una soffiata, tocca alla moglie e agli altri due figli. Finiscono tutti ad Auschwitz, da dove torna solo Beniamino, unico sopravvissuto degli 84 ebrei bolognesi deportati: risparmiato dai nazisti perché sapeva suonare bene la fisarmonica.
Una storia che a distanza di quasi settant’anni riemerge grazie a Roberto Matatia, nipote do Eliezer e pellicciaio a sua volta a Faenza. In I vicini scomodi, edito da Giuntina (pag. 112, euro 10) rimette insieme i ricordi dolorosi di famiglia raccolti negli anni, infrangendo l’oblio terapeutico invocato dal padre. «Scrivere – dice immedesimarmi con Nissim e i suoi figli è stata per me un’esperienza sconvolgente, che mi ha fatto condividere la disperazione del perseguitato. Ma dovevo farlo».
Soprattutto per Camelia, che nelle poche foto rimaste, scattate a Riccione, ha ancora il sorriso felice ma che nelle cinque lettere struggenti scritte tra novembre e dicembre di quell’anno mostra il suo dolore e il suo coraggio. Le ha scritte a Mario, un ragazzo della sua età di cui si è innamorata. Ed è stato lui a riconsegnarle ai parenti, trent’anni fa, per poi sparire nel nulla. «Si mi piacerebbe ritrovarlo – dice Matatia – o incontrare i suoi familiari, sapere altre cose di Camelia».
Caro Mario, non riesco più a ridere (…); mi sono accorta di avere più di un capello bianco e non ho ancora 18 anni (…); da molti anni non faccio più bei sogni sul mio avvenire perché per me è tutto buio e incerto (…); se mi fosse permesso avere desideri; desidererei soltanto un uomo semplice che mi vuole bene, una piccola casetta con tanto sole e un bel bimbo nato dal nostro amore».
«Però ho paura sai? So di non avere nulla da rimproverarmi se non di essere nata con un marchio disgraziato. Un marchio che nemmeno la scolorina del tempo potrà mai cancellare. E di questo io non ho colpa», scrive nella sua lettera d’addio, il 1° dicembre ’43, mentre prepara i bagagli per il viaggio senza ritorno. La lascerà cadere dal camion tedesco che la porta via.
Achille Scalabrin
Il Resto del Carlino