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Bet Magazine Rassegna Stampa
24.05.2014 Ebrei di Persia
Raccontati da Fiona Diwan

Testata: Bet Magazine
Data: 24 maggio 2014
Pagina: 12
Autore: Fiona Diwan
Titolo: «Da Mashad, la forza della tradizione-La mia vita in fuga»

Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano, n°5, maggio 2014, a pag.12-16, con i titoli " Da Mashad, la forza della tradizione", " La mia vita in fuga ", due articoli di Fiona Diwan sulla storia degli ebrei persiani.


Fiona Diwan

Da Mashad, la forza della tradizione


Baku, la nuova sinagoga- Immagine di Mashad


ebrei in Persia fine '800

«La chiamavano Rachel la Parrucchiera, Rachel Maashtì. Fu grazie a lei che l’ebraismo di Mashad si salvò. Fu un personaggio importantissimo, una figura di saldatura fondamentale: andando di casa in casa a pettinare le donne, le convinse a tenere duro, a non mollare, a non dissipare le radici e il sentimento ebraico. Veniva da Herat, da una famiglia molto religiosa, e il suo era un ebraismo ardente, vivo e non dissimulato. È lei che riaccende la fiamma e che riporta al centro, ad esempio, il cibo e la kashrut, che “rinfresca” le regole dell’educazione ebraica, e convince le mogli a opporsi all’assimilazione galoppante dei mariti, i quali vivevano un’identità ebraica azzoppata e messa a rischio dal marranesimo. Siamo intorno al 1860. E come è accaduto in altre comunità marrane, sono proprio le donne a diventare la roccaforte dell’ebraismo: non dimentichiamo che vivevano chiuse nell’ombra protettiva dei cortili e dei patio di casa e, non avendo contatti con la società musulmana esterna, furono in grado di custodire tradizioni e identità in modo saldo». Così racconta, appassionato, Davide Aziz, 53 anni, studioso dilettante di storia degli ebrei mashadì e attento osservatore dei cambiamenti sopravvenuti negli anni. «La cosa che rende così speciale la storia degli ebrei di Mashad è la condivisione del pericolo: quello terribile di una vita marrana, col rischio costante di essere scoperti e uccisi. Invece di frammentarli, quel destino li unì e compattò. Fu grazie ad alcune famiglie, i Livian ad esempio o quella degli Aminoff, che la Comunità rifiorisce in senso ebraico intorno a fine Ottocento, primi Novecento. Ma nel complesso, l’esperienza marrana impoverì culturalmente quel mondo, che fino al 1839 contava sapienti e letterati come Mashiach Mehdi, dotti non solo di Torà ma anche di filosofia e poesia iraniana», conclude Aziz. «Il loro destino è stato interamente influenzato dalla tragica vicenda storica che hanno vissuto e dalla scelta marrana che seguì la conversione forzata, nel 1839, evento ricordato come l’Allahdad (ovvero la conversione degli ebrei come dono ad Allah). La mia ricerca è ancora incompleta (ho fatto solo 12 interviste), ma l’idea che mi sono fatta è che la loro identità iraniana sia sempre stata fortissima, molto più che non per gli egiziani, i libanesi, i libici… Oggi, tutti parlano ancora la lingua farsi in casa e la memoria degli usi di Mashad si conserva e tramanda anche tra i giovani nati in Italia», spiega Adriana Goldstaub, coordinatrice del progetto Edoth del CDEC, un’imponente ricerca che si prefigge di raccontare l’esodo degli ebrei mediorientali del XX secolo, la fine del loro mondo e l’inizio di una nuova vita. Un Progetto ideato da Liliana Picciotto, che si prefigge di dar voce al mosaico di identità di cui è composta la Comunità di Milano. Dopo aver pubblicato la puntata sugli ebrei egiziani, il Bollettino racconta ora la storia degli ebrei di Persia, e di Mashad in particolare (a quelli di Teheran andrebbe dedicato un articolo a parte). «Quella dei mashadì è una storia fatta di forti migrazioni coi paesi confinanti: verso il Turkmenistan, l’Afghanistan, l’Uzbekistan (viaggiano fino a Samarcanda e a Buchara per comprare tappeti da vendere agli inglesi e ai francesi), e poi in Russia, in Kirghizistan. Si trattava di ebrei di confine, al centro dei grandi imperi coloniali. Una zona-ponte tra due mondi, in cui le superpotenze coloniali dell’epoca giocavano una partita di supremazia e leadership», spiega Goldstaub. Non va infatti dimenticato che anche la regione del Khorassan, dove è situata Mashad, fu teatro della rivalità tra Russia e Gran Bretagna, durante tutto l’Ottocento: siamo in pieno periodo del Big Game, il Grande Gioco, una specie di guerra fredda ante litteram tra le potenze coloniali dell’epoca, con il suo fitto intreccio di spie russe, mata-hari inglesi, avventurieri di ogni risma che si incrociano sulle vie per l’Oxiana (così era chiamata dai romani la regione tra Persia e Uzbekistan). Siamo nelle atmosfere ovattate e perverse di una geografia dominata da Khan barbarici e sanguinari, un mondo dal fascino circospetto e allucinato, di cui oggi si fa fatica a ricostruire il tessuto (lo descrivono bene due grandi viaggiatori inglesi, Colin Thubron e Robert Byron nel suo bellissimo La via per l’Oxiana, Adelphi). Ma questo è un viaggio nel cuore perduto dell’Asia ebraica: a Mashad, gli ebrei ci arrivano nel Settecento, provenienti dalla città di Qazvin vicino al Mar Caspio. La loro è una immigrazione forzata, imposta da Nader Scià, un sunnita che per governare su un territorio sciita chiama in aiuto i suoi ebrei: si fida di loro e li vuole come custodi del tesoro. E così, praticamente, li deporta nel Khorassan. Una manciata di famiglie che non faranno in tempo ad insediarsi a Mashad che, manco a dirlo, Nader Scià muore, assassinato da congiure di palazzo e lotte dinastiche. Li ritroviamo, anni dopo, prosperi e numerosi quando, nel 1839, scoppia la rivolta che segnerà la catastrofe. È l’Allahdad (causò tra i 30 e i 50 morti e molti feriti), e l’inizio del marranesimo. Più di un secolo di doppia vita, tanto durerà questo incubo. Ma la reazione alla conversione forzata è composita e molti fuggiranno a Herat, rifutando la conversione e riuscendo così a preservare fede e identità (è da qui che verrà Rachel la Parrucchiera, nel 1860). Per gli altri mashadì inizia la finzione: i matrimoni doppi, quello musulmano e, il giorno dopo, quello ebraico -, le sinagoghe in cantina, la macellazione rituale nei cortili chiusi, lo studio dell’ebraico di notte e la scuola coranica, la madrasa, di giorno. E poi l’obbligo di tenere aperti i negozi di Kippur e Shabbat, obbligo aggirato con l’accortezza di non fare affari né maneggiare denaro in quei giorni. «Per dimostrare il loro apparente attaccamento all’Islam, molti compiono addirittura un pellegrinaggio a La Mecca, ma sulla via del ritorno si fermano a Gerusalemme e fondano piccole sinagoghe. E sotto i turbanti portano, nascosti, i tefillin. A Mashad le donne vengono promesse in sposa a ragazzi ebrei fin da bambine, per rifiutare qualsiasi musulmano fosse venuto, più tardi, a chiederne la mano», mi spiega la giovane Naghmeh Haghighat Etessami. I nuovi musulmani, Jadid al islam o Jadidi – così vengono chiamati gli ebrei islamizzati-, riusciranno solo nel 1906 a ottenere una scuola esclusiva solo per Jadidi, tornando così a una forma di cripto-giudaismo dichiarato: ufficialmente musulmani ma di fatto ebrei (e lo sapevano tutti). Davide Aziz spiega ancora come, nel XX secolo, si possano individuare tre fasi della loro storia: la prima (1880-1927), è caratterizzata dall’esodo degli uomini di Mashad nella città di Marv in Turkmenistan, dove si arricchiscono e fanno affari; con la Rivoluzione russa tuttavia, perderanno tutto e torneranno a Mashad poveri. Nella seconda fase (1927-1946), rifiorisce la vita ebraica, i templi nascosti e i Talmud Torà, un cripto-giudaismo tollerato dalle autorità e dai mullah, convinti che la Comunità ebraica portasse ricchezza e andasse così difesa dalla furia del popolino. Ma con la Seconda Guerra Mondiale tutto crolla, regna l’indigenza estrema, i commerci muoiono e la gente fa la fame. Infine, la terza fase, quella dell’ultimo pogrom del 1946, che spingerà tutti a partire definitivamente. Il pogrom fu scioccante, anche se fallì grazie all’intervento delle autorità religiose (anche se tutta la famiglia Pahlevi era filo-semita). Le ultime famiglie lasceranno Mashad nel 1960. In tutto, si trattò di 25 mila persone. A Milano ne arriverà il 15 per cento, prosperando in seguito col commercio dei gioielli e dei tappeti. «L’impatto con la comunità milanese fu uno choc: i nostri genitori non erano attrezzati per gestire i contrasti, non avevano strumenti. La cultura secolare italiana fu vissuta come un pericolo e percepita come perdita e assimilazione; per questo i giovani che si laurearono negli anni Ottanta non riuscirono ad adattarsi e uscirono dalla comunità. Ma anche l’eccesso di cultura religiosa non era gradito, vissuto come un esibizionismo pericoloso. Questa diffidenza verso la cultura è quindi riconducibile a precise ragioni storiche, anche se oggi non è più così e i laureati sono sempre più numerosi. Adesso, a causa della crisi, la metà di noi ha lasciato Milano per New York o Israele», spiega Aziz. Ma quali erano i principali mestieri praticati? «Per secoli, in Persia, i commercianti e amministratori ebrei hanno avuto fama di correttezza e rettitudine. Quando andavano in pellegrinaggio alla Mecca, per mesi, i ricchi musulmani affidavano oro e argenteria agli ebrei piuttosto che ai loro stessi familiari. Avevamo fama di persone oneste. Compravamo pelli e pellicce dai turkmeni al confine nord dell’Iran o pelli di pecora dai villaggi intorno a Mashad e li vendevamo ai commercianti inglesi; ai turkmeni vendevamo stoffe che importavamo dall’Afghanistan o Pakistan e poi le spezie e il karakol che compravamo in India. Agli indiani vendevamo tappeti e oro…», spiega Davide Nassimiha, attuale Presidente della Comunità ebraico-persiana meneghina. «Ma è il secondo pogrom del 1946 che convince gli ebrei a lasciare Mashad per Teheran o verso l’Occidente. La violenza nasce sulla scorta della propaganda nazista giunta in Iran sotto forma di ideologia ariana, in cui si ricoscevano anche i persiani», racconta Naghmeh Haghighat Etessami. «Noi fummo tra gli ultimi a partire. Mio padre, Parviz Haghighat, decise di lasciare Teheran in meno di un mese. Accadde nel 1979, con la caduta di Reza Pahlevi. Tutti sapevamo che, caduto lo Scià, per gli ebrei si sarebbe messa male. Ricordo mio papà con le lacrime agli occhi, il giornale aperto sulla notizia che lo Scià se n’era andato. Io avevo cinque anni: a mio padre era crollato il mondo addosso», conclude Naghmeh Haghighat. «Oggi mia madre benedice l’Italia. I suoi ricordi a Mashad e Teheran sono pieni di amarezza: gli insulti per strada, gli inseguimenti quando andava in macelleria a comprare carne kasher…Per noi, l’arrivo di Khomeini fu un ulteriore trauma». Tra le tante storie, c’è ancora quella della famiglia Nassimiha che arriva a Milano nel 1954, in cerca di fortuna. David Nassimiha nasce qui e così assiste, dieci anni dopo, da ragazzino, al grande esodo dei mashadì sotto il cielo della pianura padana (l’apice della migrazione sarà negli anni Sessanta e Settanta). Una storia fatta di brutti ricordi, molta mitizzazione e qualche rimpianto. «Il profumo delle pannocchie grigliate per strada è, per i miei genitori, indelebile. E poi il sapore della frutta, così buona e mai più ritrovata, nemmeno in Italia. Molti rimpiangono ancora l’atmosfera raccolta del Tempio, il rispetto reverenziale per gli anziani a cui si tributava un ossequio totale e insindacabile, tanto che tutti si alzavano, in sinagoga, quando ne entrava qualcuno», racconta David Nassimiha. «La nostra unità e coesione, spesso confusa per chiusura, affonda le sue radici nell’istinto di sopravvivenza maturato in 200 anni di soprusi, pregiudizi, accuse infamanti, ghettizzazione, molto simili a quelli vissuti dagli ebrei d’Europa. Se non fossimo rimasti così uniti nel nostro rifiuto di mescolarci con i musulmani e nel voler mantenere la nostra “diversità”, sicuramente non saremmo sopravvissuti, né come ebrei, né come comunità, a una pressione esterna così brutale. Ma la nostra non è una storia solo di persecuzioni. No, è un miracolo di sopravvivenza, la storia meravigliosa del lento formarsi di una Comunità», sottolinea Naghmeh. «Quella persiana è stata a lungo una comunità terrorizzata e traumatizzata. L’impatto con Milano è stato devastante: se all’inizio, da una parte, i giovani figli degli esuli rifutano il loro mondo d’origine, dall’altra, al contrario, alcuni mitizzarono una Persia idilliaca, protetta dalla benevolenza dello Scià. Ma per gli ebrei, la vita sotto il giogo sciita fu di gran lunga peggiore di quella sotto i sunniti. Tuttavia, oggi, dobbiamo confrontarci con la mancanza di materiali scritti, documenti pubblici o privati. La cosa è comprensibile visto che scrivere diari, cronache…, esponeva la comunità marrana a un evidente pericolo. Rischiare di essere scoperti li avrebbe esposti a punizioni collettive severe. Ecco perché tutto si è tramandato oralmente e, fino ad oggi, molto poco è stato messo nero su bianco», dice Daniel Fishman, che sta lavorando a un libro sugli ebrei di Mashad. Ma veniamo ai numeri. Oggi, a Milano, ci sono circa 800 ebrei di origine mashadì contro i 1600 degli anni Ottanta (nel mondo se ne contano 18 mila). Il Vaad, il Consiglio, è composto da membri molto più giovani di un tempo, decide la nomina del rabbino del Tempio Noam (che è Rav Simantov) e, oltre alla gestione ordinaria, gestisce anche un fondo di solidarietà per chi si trova in difficoltà economiche. «Il Vaad oggi è più pragmatico e non interviene più in fatto di questioni morali o private. Al tempo dei padri fondatori era una specie di consiglio degli anziani, c’era più autorevolezza e carisma, e si veniva a chiederne il parere in fatto di divorzi, separazioni, problemi familiari. Oggi questo compito è affidato al rabbino, investito di un ruolo super-partes di studioso e di saggio», spiega Nassimiha e conclude: «Ci sono atteggiamenti “marrani” che sono rimasti nel nostro inconscio collettivo: all’inizio vigeva, ad esempio, il divieto di parlare del nostro ebraismo in pubblico. E questo perché, per più di 100 anni, la nostra dimensione ebraica è stata vissuta nel nascondimento, in forma intima. Una volta arrivati in Italia, tra genitori e figli si è consumato un gap incolmabile. Oggi, la seconda generazione, nata qui, è ancora scissa tra valori opposti, divisa tra la spinta a voler aderire all’italianità e quella a restare fedele alle tradizioni e ai valori familiari persiani. Tuttavia, il legame resta strettissimo, anche con i mashadì sbarcati in America negli anni Ottanta e oggi ben integrati. Quanto a noi, quando siamo arrivati a Milano, abbiamo trovato una Comunità piuttosto apatica e se non fosse stato per la Scuola ebraica che ci accolse a braccia aperte, non ci saremmo, forse, mai integrati».

La mia vita in fuga


                                            Zipora Kashani

 Attaccatissimo alle tradizioni, religioso e devoto: il mondo di Mashad è sempre stato speciale. «Le donne, le madri, avrebbero fatto qualsiasi sforzo per mantenere i figli nelle tradizioni ebraiche. L’ebraismo era vissuto come un dono da non perdere, qualcosa di prezioso e unico, a dispetto della doppia vita marrana. Se ho nostalgia? Davvero no! Come si fa a rimpiangere una vita vissuta nel terrore? Noi palpavamo la paura, era come una forza oscura, tangibile, una morsa che ci accompagnava giorno e notte». Così parla Zipora Kashani Loulai, 72 anni, nata a Mashad nel 1942, scappata in Israele e venuta a Milano nel 1960, sposa novella a 18 anni, insieme al marito Moshè. Una vita intensa, tribolatissima, attraversata con sguardo aperto e pungente ironia. Una voce fuori dal coro, una sensibilità che ha permesso a questa minuta settantenne di scrivere un romanzo autobiografico, Ovunque straniera, mettendo nero su bianco non soltanto l’avventura della propria esistenza ma cercando di oggettivare e narrare la storia di una Comunità, – i suoi usi, le sue dinamiche – lungo più di un secolo, dalla vita a Mashad, città santa e arcaica del Khorassan iranico, fino all’arrivo qui, con una nuova vita all’ombra della Madonnina. «Ricordo ancora il ghetto dove vivevamo e dove, prima di noi, avevano abitato i zoroastriani (anch’essi si sentivano minacciati): era chiuso da alte mura fortificate ma dentro era come un groviera: passaggi segreti, cortili, scale, corridoi di comunicazione tra una casa e l’altra, tetti confinanti per monitorare la situazione e consentire la fuga ma anche il controllo verso ciò che accadeva “fuori”, si trattasse di intrusi o di plebaglia in avvicinamento… Ogni famiglia aveva il suo Bet haKnesset. Con gli anni, avevamo anche sviluppato un linguaggio criptico, una specie di yiddish locale, il mashadighì, un idioma che ravvivò anche la parlata locale persiana rendendola più vivace e colorita (ad esempio, se dovevamo far tacere un nostro correligionario che stava lasciandosi sfuggire perniciose informazioni davanti ai musulmani, gli mormoravamo in un ebraico maccheronico “lashon lo!”, che significava taci, stai zitto e frena la lingua). «Ancora oggi, ogni tanto, mi chiedo chi io sia, quale identità è davvero la mia, persiana, israeliana, italiana. Un’identità in bilico, a partire dal mio nome, che è stato per me un castigo, tanto che non so ancora con quale firmare il mio libro: il nostro cognome era Kashani-Ramazanzadeh, e i miei genitori mi chiamarono Nahid; ma poi sono diventata Noa e poi ancora, in Israele, Zipora. E qui in Italia, i non-ebrei, mi chiamano Nadia», dice. Zipora mi fa vedere le vecchie fotografie delle sue innumerevoli vite e di quelle della Comunità persiana, le tavolate, le feste, i matrimoni. «Lo sa che la tipica malattia degli ebrei persiani è il diabete? Erano altri tempi: noi donne dovevamo stare a casa, cucinare, esibirci in torte e menù sempre più mirabolanti…, e poi ovviamenti mangiarli. Era un modo per farci stare buone, per spingerci a non guardare fuori…, chiuderci in casa come forma di interiorizzazione della mentalità del ghetto, dominata da una paura che per anni la comunità persiana si è portata dentro, anche quando il pericolo non esisteva più». Sfoglio il manoscritto di Ovunque straniera e mi dico che, con un buon editing, questo è un libro che meriterebbe un editore, una voce unica nel suo genere e soprattutto rara, visto che sono pochi i mashadì ad aver scritto qualcosa di autobiografico. Tra le foto, mi soffermo su quelle del suo periodo israeliano, l’adolescenza e i fitti viaggi, gli incontri mondani, con Shimon Peres e Itzchak Rabin, alle feste nelle ambasciate straniere in Israele. Zipora fa ricorso a una doppia voce narrante, quella della protagonista alternata a quella del diario della madre, espediente che le consente così di raccontare, con veloci pennellate, l’atmosfera e gli avvenimenti del passato più remoto. A partire dalle conversioni forzate e da quella vita infernale, fatta di dissimulazione e paura, che era diventata pane quotidiano. Un’autobiografia romanzata che è anche un catalogo di usi e costumanze. Ad esempio, per combinare un matrimonio, ecco tutto il balletto dei complimenti intorno alla richiesta di sposalizio da parte della famiglia del ragazzo: i finti dinieghi e la contrattazione fino a riuscire a strappare le sospirate caramelle, simbolo del consenso alle nozze da parte della famiglia della sposa. E poi la marcia degli immensi vassoi pieni di cibo preparati per il fidanzamento: trasportati per le strade, ondeggiavano in perfetto equilibrio sul turbante indossato sopra la testa dei portantini; e poi l’usanza della Henna, gli scherzi tra donne e le allusioni all’eros, il rito della Yengà, l’accompagnamento della sposa la notte delle nozze. Il tutto scandito dalla doppiezza: un finto matrimonio sciita – per placare i mullah – e poi, subito dopo, in segreto, lo sposalizio ebraico celebrato in cantina, alla luce delle candele. L’hammam e in parallelo il miqve… Zipora ricorda anche il suo rapimento, avvenuto quando aveva cinque anni, da parte di una coppia musulmana senza figli; e poi il clima di concupiscenza di cui erano oggetto le donne, gli shabab musulmani che facevano a botte per loro. Da Mashad, quasi tutti si trasferirono a Teheran: «fu un periodo di relativa serenità, si viveva meglio, si andava al cinema e la vita era dolce e piacevole. Tuttavia si avvertiva una forma di antisemitismo in letargo, dormiente ma pronto a risvegliarsi, e l’epressione sagh-yiud, cane ebreo, era sempre pronta per essere lanciata come una pietra». Una volta a Teheran (siamo negli anni Quaranta), gli ebrei si insediano nei quartieri vicino ad altre minoranze, gli armeni, i Bahai, i zoroastriani adoratori del fuoco. Nel frattempo, Zipora sviluppa un’indole sognatrice mentre, di anno in anno, la sua vita si fa avventurosa, fino all’arrivo in Israele e poi a Milano e all’impatto con un’Italia e un’ebraismo italiano troppo autoriferito e provato dalla guerra per poter capire mondi ebraici così dissimili e orientali. «Fin da piccola mi sono sentita diversa. Per non soffrire, per far fronte a delusioni e sconfitte, ho imparato a rifugiarmi in un universo di fantasia, un mio mondo interiore. Ho imparato a concentrarmi su me stessa, sviluppando una vita autonoma e ricca. A volte mi dico che non basta una vita per trovare ciò che cerchi e curare le ferite dell’infanzia. Ho sempre cercato un posto dove stare e accoccolarmi. Per non sentirmi, appunto, ovunque straniera. Sono grata alla sorte, oggi, di una cosa: che ai miei figli e nipoti sia stato risparmiato il mio destino».

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