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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
22.05.2014 Un'immagine distorta di Israele e del Medio Oriente
alla vigilia del viaggio di Papa Francesco

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 22 maggio 2014
Pagina: 32
Autore: Annachiara Valle
Titolo: «Francesco, profeta di pace in Terra Santa»

Riprendiamo da FAMIGLIA CRISTIANA datata 25 maggio 2014, a pagg. 32-39, l'articolo di Annachiara Valle dal titolo "Francesco, profeta di pace in Terra Santa".  
L'articolo presenta un quadro falsato della realtà mediorentale e israeliana, enfatizzando episodi minori come gli atti di vandalismo contro le proprietà ecclesiastiche e tacendo del fatto che Israele è l'unico luogo del Medio Oriente nel quale i cristiani godono di pieni diritti religiosi e civili,  descrivendo le limitazioni imposte dai check point, ma tacendo del terrorismo che rende questi ultimi necessari, rivolgendosi a fonti prive di credibilità come padre Ibrahim Faltas, noto per aver fornito una versione falsa della vicenda del sequestro della Basilica della Natività di Betlemme da parte di terroristi palestinesi.

faltas           
Annachiara Valle     



       Ibrahim Faltas

Ecco l'articolo:

E' un viaggio in bilico tra speranze e paure quello che papa Francesco compie in Terra Santa dal 24 al 26 maggio. Le speranze del popolo palestinese di sentirsi accolto e interpretato da un Pontefice che si avverte vicino ai poveri e agli oppressi. Quelle del popolo ebraico di rinnovare l'amicizia con la Chiesa cattolica a pochi mesi dalla ricorrenza dei cinquant'anni di Nostra aetate, il documento conciliare che riaprì il dialogo tra ebrei e cristiani. «Ma le speranze degli uni sono le paure degli altri. La benedizione per l'uno viene intesa come maledizione per l'altro», commenta padre David Neuhaus. Sudafricano, ebreo, gesuita, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, coordinatore del Comitato incaricato di seguire la visita del Papa, padre Neuhaus prova a spiegare una terra complessa dove ci si aspetta «soprattutto speranza e gioia, le due cose di cui oggi sentiamo la mancanza. Insieme con la semplicità dei gesti e delle parole». Gli estremisti, tra coloni ed ebrei ultraortodossi, provano a prendere la parola nei giorni che precedono il viaggio di Francesco: imbrattano chiese e luoghi di culto con scritte anticristiane e anti-islamiche, chiedono la rimozione dei manifesti che annunciano la visita, inscenano manifestazioni di protesta. Agguerriti e violenti, anche se numericamente insignificanti, seminano odio e insofferenza. "Sono veri atti di terrorismo che avvelenano il clima», ha denunciato il patriarca di Gerusalemme, monsignor Fouad Twal, «crimini contro musulmani, cristiani e drusi, condannati dalla politica, ma mai puniti e che rappresentano anche un colpo alla democrazia di Israele». Ancora più duro lo scrittore israeliano Amos Oz che ha definito gli estremisti «neonazisti ebrei». Quello dei Price Tag, il prezzo da pagare, come si fa chiamare il movimento eversivo, «è sicuramente il tentativo di acquistare più visibilità e di radicarsi ancor meglio sfruttando l'attenzione dei media in vista del viaggio del Papa», cornmenta il custode di Terra Santa, il francescano padre Pierbattista Pizzaballa. Che invita, però, a «non farsi spaventare e, invece, a rafforzare la presenza dei pellegrini e la vicinanza dei fedeli nei luoghi di Gesù». Un viaggio delicato che papa Francesco affronta con due "angeli custodi" nel suo seguito ufficiale: il rabbino Abraham Skorka e l'islamico Omar Abboud, presidente dell'Istituto per il dialogo interreligioso di Buenos Aires. «Una maniera concreta di fare dialogo interreligioso», ha sottolineato padre Federico Lombardi, portavoce vaticano. «Anche in Giordania l'incontro a Betania con i 600 profughi e giovani disabili di ogni religione è un chiaro gesto interreligioso che parla più di mille discorsi», aggiunge Wael Suleiman, direttore di Caritas Giordania. È di questi gesti che la Terra Santa ha bisogno. «Ci vuole un linguaggio nuovo e nuovi leader», insiste padre Neuhaus, «e da questo viaggio ci aspettiamo proprio un impulso del genere. Di proseguire su quell'apertura che avevano avviato sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI quando sono venuti qui». Certo, «l'obiettivo della visita di papa Francesco è spirituale e non politico. Viene per ricordare l'abbraccio con l'ortodosso Atenagora e per proseguire sulla via dell'unità. Il suo viaggio è importantissimo per la vita interna della Chiesa. Ma anche per dare un nuovo impulso all'evangelizzazione che vuol dire possibilità di pace vera».
«CI VUOLE UN MANDELA».
Per padre Neuhaus qui si gioca la vocazione della Chiesa: «Parlare un linguaggio che non sia di guerra. Parole e gesti nuovi. Non abbiamo parole per dire la pace. Dal 1948 in poi il linguaggio politico, economico, sociale usa parole di guerra. Sia in Israele sia in Palestina si parla di sopravvivenza, difesa, lotta. Tutto è diviso tra amici e nemici. Ma, ripeto, qui è la vocazione della Chiesa: far vedere chiaramente che non c'è posto per l'odio verso gli ebrei, per la paura dei palestinesi, per l'antisemitismo, per l'anti-islam. Se lavoriamo in questa direzione, questo linguaggio sarà pronto per il momento in cui ci saranno nuovi leader in grado di adottare queste parole e di mostrare che c'è un altro modo di vedere la realtà. Che non tutto è paura e paranoia». «Lo dico da sudafricano», aggiunge padre Neuhaus: «ci vuole un Mandela e Dio può fare questo, può mandare uno dei suoi profeti. Ma noi dobbiamo preparare la strada. Oggi non riusciamo a immaginare un mondo diverso da quello che conosciamo, con muri, eserciti, guerre, paura. Ma la Chiesa può aprire ad altre visioni, può far vedere la bellezza, può promuovere l'incontro vero. Sono certo, già da come sono stati fatti i preparativi per il viaggio di papa Francesco, che si muoverà in questa direzione». «Non ci aspettiamo discorsi politici, ma un incoraggiamento. Siamo stanchi. Il processo di pace si è arenato, la vita per i palestinesi, sia cristiani sia musulmani, è sempre più faticosa», aggiunge padre Ibrahim Faltas, della Custodia di Terra Santa. Nel suo libro da poco pubblicato, Dall'assedio della Natività all'assedio della città, ripercorre i 39 giorni dell'occupazione della basilica che anche il Papa visiterà a Betlemme. «Non è solo un libro di memoria», dice nel suo ufficio nel quartiere vecchio di Gerusalemme, «c'è il cammino, e anche i passi indietro, fatti in questi dieci anni. C'è l'assedio da parte dei coloni alle città palestinesi, c'è l'arresto delle speranze. Anche se abbiamo confidato molto sia nella visita di Benedetto XVI sia nel Sinodo sul Medio Oriente che lui ha convocato subito dopo aver visto la situazione di questi Paesi, adesso c'è un momento di stanchezza  evidente. L'esortazione che ha consegnato in Libano è stato un passo importante che ha dimostrato quanto la Chiesa ha a cuore la Terra Santa, ma ancora non basta. Qui si vive nella paura e nella rassegnazione».
L'ESODO CRISTIANO CONTINUA.
Chi può va via, anche se sono sempre di meno i palestinesi che lasciano queste terre. Bisogna avere mezzi anche per andarsene. E con la crisi di lavoro che c'è nel resto del mondo non è facile partire. «Quello che più preoccupa però», aggiunge padre Neuhaus, «è il problema dei cristiani che lasciano spiritualmente e anche mentalmente questo luogo. Si ritirano nel ghetto, hanno paura del mondo attorno, si sentono alienati, non partecipano più alla vita pubblica, non vogliono uscire dai piccoli luoghi dove possono creare un posto sicuro. Sentiamo sempre più spesso dire dai palestinesi musulmani che, anche nei posti dove ci sono cristiani, loro non li hanno mai incontrati nella loro vita. Come Chiesa questo è quello che ci preoccupa di più. E anche su questo punto speriamo che la visita del Papa incoraggi i cristiani a uscire, ad aprirsi, a tornare a impegnarsi nella società. Facile a dirsi, ma difficile a farsi in un Paese dove la vita è una continua guerra di nervi e di resistenza, di conquista del terreno metro dopo metro, di costruzioni e distruzioni. «In un contesto dove si è sottoposti a continui controlli, arbitrii, in cui non si è liberi di andare e venire dai luoghi santi, in cui si fa fatica per avere accesso ai servizi, per passare i check point, tutti i problemi si ingigantiscono», spiega padre Raed Abusahlia, direttore di Caritas Gerusalemme e a lungo portavoce del patriarcato latino. «Si fa il doppio della fatica per portare avanti progetti di sviluppo del territorio e per mantenere la speranza». Ne sa qualcosa anche la Cooperazione italiana che ha provato invano ad allestire un parco giochi per una scuola e a impiantare nuove tende per i beduini del deserto. Tutto ciò che sa di stabilità allarma gli israeliani, che procedono in fretta a requisire e abbattere. «Non lo stesso però avviene con gli insediamenti abusivi dei coloni che mangiano il territorio», dice padre Raed. Tre mesi di blocco degli insediamenti, definizione dei confini e poi «nella vostra parte costruite quel che volete», era stata l'ultima offerta di Abu Mazen, presidente palestinese, a Netanyahu. Ma il premier israeliano ha rifiutato senza controproposte.
LA COOPERAZIONE ITALIANA.
«Il nostro Paese ha sempre sostenuto il processo di pace anche in momenti in cui tutto sembrava fermo. E uno dei mezzi per arrivare alla pace crediamo sia il rafforzamento delle istituzioni democratiche palestinesi e della formazione della società civile. Ci vogliono tempi più lunghi, ma solo così le conquiste possono essere durature. Un rafforzamento delle istituzioni palestinesi significa anche che gli estremismi vengono progressivamente isolati e messi a tacere», commenta Davide La Cecilia, console italiano a Gerusalemme. L'Italia dà un aiuto concreto che si traduce, nel solo settore sviluppo, in un impegno di spesa di 30 milioni di euro a dono e 30 milioni a prestito. Non è poco in una terra dove non si sa bene cosa può riservare il futuro. «Intanto, in attesa di tempi nuovi», conclude padre Neuhaus, «noi stiamo lavorando molto al nostro interno. Nella Chiesa cattolica, con i palestinesi, i migranti di rito latino, i cristiani di lingua ebraica, ci stiamo educando a conoscerci e a riconoscerci come fratelli e sorelle. Perché, in un Paese lacerato, la nostra possa essere la testimonianza che — come dice il motto del viaggio papale Ut unum sint — vivere insieme uniti si può».

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