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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.05.2014 Egitto: il perché del sostegno ad Al Sisi
Analisi dello scrittore Marco Alloni

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 maggio 2014
Pagina: 11
Autore: Marco Alloni
Titolo: «Quei vecchi stereotipi sull’Egitto. Il generale Al Sisi non sarà un Faraone»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA del 20/05/2014, a pag. 11 l'articolo di Marco Alloni "Quei vecchi stereotipi sull’Egitto. Il generale Al Sisi non sarà un Faraone" .
Il CORRIERE della SERA  pubblica, come introduzione all'articolo, una brebe nota biografica dell'autore: "
nato in Svizzera nel ‘67, vive al Cairo da 17 anni. Sposato con una giornalista egiziana, ha due figli e si professa «musulmano ateo», «ateo per vocazione e musulmano per necessità». Ha scritto il romanzo «Shaitan» (Imprimatur, 2013)"

malloni
Marco Alloni Abdel Fattah Al Sisi

Ecco l'articolo: 

L’Egitto è sempre visto in termini di apocalisse. Che sia l’apocalittico, abusato «autunno arabo» che ha fatto seguito all’esultanza della «primavera» o l’allarmistico «golpe» con cui si è rimosso di fatto lo spettro della guerra civile, la misura intermedia della Realpolitik sembra negatagli.
Ora un nuovo pathos, una nuova sindrome da «incompatibilità con la democrazia», si abbatte sulle rive nilotiche: il timor panico che, con la probabile vittoria di Abdel Fattah Al Sisi alle presidenziali del 26 e 27 maggio, si assista a un ripristino dell’ancien régime e al cosiddetto «ritorno dei militari».
È un’ennesima deriva, forse un vero e proprio naufragio, di quel realismo politico che misurando il contingente per categorie dimentica che ancien régime è termine che mal si applica a un Paese che ha volto le spalle al passato, traversato tre ondate rivoluzionarie e scongiurato nel sangue l’alternativa islamista. E che, nell’equiparare sessant’anni di regime all’eventuale nomina di Al Sisi a raìs, rimuove di fatto ogni elemento di novità incarnato dall’ex ministro della Difesa e il sostegno trasversale che ne accompagna l’avvento.
Un assioma dualistico vorrebbe che l’appoggio a Al Sisi sia eo ipso sostegno ai militari o alla gestione militare del Paese. Eppure non pro o contro l’esercito si esplicano le prossime presidenziali, ma in due visioni vecchio stampo — liberale (Al Sisi) e socialista-nasseriana (Sabahi) — che il commentatore Ibrahim Issa sa analogamente «imprescindibili dal sostegno delle forze armate».
Riproporre la contrapposizione rivoluzionari/reazionari è quindi un azzardo anche sul piano sociale. Non foss’altro perché il sostegno a Al Sisi è trasversale ai due fronti, la vecchia classe intellettuale paradossalmente schierata con i giovani del Tamarrud e il fronte progressista frammentario al punto da risultare insussistente.
La vera incongruità nell’evocare un ritorno all’ancien régime è anche nel fraintendimento della figura del mushir , che per la prima volta pronuncia una frase senza precedenti: «Se il popolo volesse depormi, lascerei il posto». Uomo intelligente, di smisurate ambizioni patriottiche, Al Sisi sa che sull’altare della storia gli si offre l’occasione di una svolta epocale più remunerativa dei biechi arricchimenti o della perpetuazione dello status quo, e che misurandosi con un popolo insorto, non con l’Egitto dell’obbedienza, se rifiuta l’agenda dei famosi «100 giorni» all’europea — su cui era scivolato il populismo di Morsi — nondimeno non può ignorare la svolta antropologica che il suo popolo reclama come contropartita alla fiducia. E questo atteggiamento, da statista non ancora prono all’equivoco dell’autoritarismo, lascia presagire uno scenario che mal si attaglia all’idea di una semplice replica del passato.
Cruciale per cogliere il divario fra un Egitto macchiettizzato nei suoi manicheismi e la sua autentica vocazione rivoluzionaria resta comunque il sentire della gente. Lo scrittore Gamal Al Ghitani lo sintetizza in una formula: «Nel voler liberare il Paese dal terrorismo, Al Sisi ha assunto la decisione più pericolosa: l’Occidente non se ne avvede, ma incarna la richiesta di milioni di persone». Analoga posizione in Mohammad Hasanein Heikel, veterano del giornalismo nazionale: «Al Sisi è il candidato della necessità, l’unica alternativa possibile per sconfiggere il terrorismo». Gli fa eco Abdel Rahman Al Abdudi, bardo popolare: «Al Sisi, rispetto a Sabahi, rappresenta la novità politica adeguata al nuovo tempo di guerra». E lo scrittore Sonallah Ibrahim si spinge a parlare addirittura di un «cambio di rotta imprescindibile».
Certo, resta l’incognita dell’incoronazione plebiscitaria, che in passato ha coinciso con la faraonizzazione del potere. Resta l’enigma sul margine di manovra effettivo delle future opposizioni. Ma se qualificare — come Alaa Al-Aswani — la prospettiva di una presidenza Al Sisi «espressione della rivoluzione» ha dell’ottimistico, gridare alla controrivoluzione è disfattismo della ragione.

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