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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.05.2014 Tentativo di golpe in Libia
Cronaca di Lorenzo Cremonesi, analisi di Guido Olimpio

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 maggio 2014
Pagina: 1
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio
Titolo: «Libia, assalto al Parlamento. Il governo: 'E’ un golpe' - La Partita di Americani ed Egiziani»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/05/2014, a pagg. 1-15  la cronaca di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Libia, assalto al Parlamento. Il governo: 'E’ un golpe' " e, a pagg. 1-28, l'editoriale di Guido Olimpio dal titolo "La partita di americani ed egiziani". 


Khalifa Haftar, l'ex generale che guida il tentativo di golpe

Ecco la cronaca di Lorenzo Cremonesi:


Lorenzo Cremonesi


Scontri a fuoco, morti, feriti, alte colonne di fumo: Tripoli è di nuovo in guerra. Nella capitale libica, a tre anni dalla caduta del dittatore Muhammar Gheddafi, ieri pomeriggio uomini armati di bazooka e mitragliatrici pesanti hanno occupato il Parlamento. Sembra che almeno due deputati siano stati sequestrati. L’uomo che cerca di imporre un nuovo ordine è Khalifa Haftar, un ex generale «laico» fedelissimo del Colonnello. I portavoce del governo gridano al golpe. La zona dei palazzi governativi è stata bloccata da milizie lealiste e da poche unità dell’esercito regolare. L’ambasciata italiana pronta a un’eventuale evacuazione d’emergenza dei connazionali.
Alte colonne di fumo nero si levano sopra Tripoli. A tre anni dalla caduta della dittatura di Muammar Gheddafi, la capitale libica torna in guerra. I portavoce del governo gridano al golpe. Ieri pomeriggio uomini armati di bazooka e mitragliatrici pesanti avevano occupato il parlamento. Le cronache sono confuse, sembra che almeno due deputati siano stati sequestrati. La zona dei palazzi di governo è stata bloccata dalle milizie lealiste e dai pochi quadri dell’esercito regolare. Sono segnalati morti e feriti. L’ambasciata italiana sta raccogliendo i connazionali per un eventuale evacuazione d’emergenza.
Ma non è certo la prima volta che Tripoli vede il ritorno massiccio degli scontri di piazza. Solo quest’anno il parlamento era stato attaccato in febbraio e aprile. E negli ultimi tre giorni i combattimenti a Bengasi sarebbero costati la vita a decine di miliziani (pare sino a 80).
Al cuore del problema resta l’incapacità dello Stato centrale di assorbire le centinaia di milizie indipendenti (oltre 1.200) e raccogliere il consenso politico necessario a garantire la propria autorità. Ma questa volta è Khalifa Haftar, un settantenne ex generale di Gheddafi, l’uomo che cerca di imporre un nuovo ordine. Un nome noto il suo. Haftar fu un fedelissimo del Colonnello. Nel 1969 era al suo fianco nel golpe contro re Idris. Poi ebbe una rapida carriera nell’esercito, sino a comandare il contingente nella guerra contro il Ciad dal 1980 al 1987. In quel frangente fu particolarmente popolare per il comportamento umano che tenne coi suoi soldati. Catturato, denunciò il rifiuto di Gheddafi a riconoscere che i suoi uomini erano prigionieri in Ciad. Fu allora che si avvicinò agli americani. A Tripoli venne poi accusato di essere diventato un informatore della Cia, quando si venne sapere che era emigrato negli Stati Uniti. Vi restò per oltre un ventennio. A Bengasi tornò già durante i primi giorni della «primavera libica» nel febbraio 2011. Al tempo si ventilò potesse comandare il nuovo esercito rivoluzionario. Ma il suo passato di oppositore dei Fratelli Musulmani lo penalizzò e venne subito bocciato dai militanti delle nuove brigate islamiche.
Da allora ha svolto un’azione determinata per cercare di ricostruire una forza militare autonoma e in grado di disarmare le milizie. Si fece sentire in febbraio, quando dalla Cirenaica parlò ai media nazionali minacciando di rovesciare il governo ormai molto debole di Ali Zeidan. Sembrò l’ennesimo bluff nell’anarchia nazionale. Ma da allora Zeidan si è dimesso per fuggire in Europa con la famiglia. Il suo successore, Abdullah al-Thinni, è già stato defenestrato. E il nuovo premier ad interim, Ahmed Maiteeq, deve ancora essere confermato dal parlamento mentre lui cerca l’appoggio proprio delle milizie islamiche.
Haftar, per contro, lavora per unire le milizie più laiche in un’unica forza autoproclamata «Esercito Libico Nazionale». A Bengasi da mercoledì scorso ha assaltato i religiosi radicali della brigata Rafallah al-Sahati, accusata tra l’altro di aver partecipato all’attacco del locale consolato Usa l’11 settembre 2012, che causò la morte dell’ambasciatore Chris Stevens e di altri quattro americani. In suo sostegno sarebbero arrivate alcune unità dell’esercito regolare, tra cui anche un jet dell’aeronautica militare. Per il blitz delle ultime ore su Tripoli è riuscito invece ad allearsi alla potente milizia di Zintan. Una mossa vincente: i combattenti di Zintan sono considerati, al pari di quelli di Misurata, tra i meglio preparati e organizzati del Paese. 

Ecco l'editoriale di Guido Olimpio:


Guido Olimpio


 La Libia è un vulcano. Lo è da quando hanno cacciato Muhammar Gheddafi. Ha prodotto violenza, settarismo, terrore. Condizioni ideali sfruttate da chi traffica in fucili e clandestini. Inevitabile che ci sia qualcuno che sogni di imporre con le armi un nuovo ordine in un Paese senza legge. Complicato farlo in una realtà così frammentata. L’azione del generale Khalifa Haftar è un tentativo che probabilmente ha molti sponsor, vicini e lontani. Fedele del raìs, l’ufficiale si è poi trasferito negli Usa dove ha costruito nel tempo ottimi rapporti con Pentagono e intelligence . Tornato in Libia all’epoca della rivolta ha provato a ritagliarsi uno spazio. Con risultati alterni e sotto la stella americana. Ora ha lanciato l’attacco contro i gruppi islamisti finendo poi per coinvolgere le deboli strutture libiche. Per alcuni osservatori la sua iniziativa è stata incoraggiata dai generali egiziani, sempre più preoccupati dell’instabilità cronica della vicina Libia. Poi si è detto degli Emirati arabi e di qualche potentato del Golfo, tutti spaventati dal crescere con quell’estremismo con il quale hanno peraltro mantenuto rapporti ambigui. Non è poi un caso che Haftar abbia raccolto molti consensi in Cirenaica, nell’est della Libia, la regione con aspirazioni secessioniste e insanguinata da una interminabile serie di atti terroristici. Infine ci sono gli americani. Informati o quantomeno spettatori interessati. Significativa la coincidenza delle mosse. In particolare l’arrivo nella base statunitense di Sigonella (Sicilia) di 200 marines, una task force pronta ad agire nel caso di minacce a siti diplomatici Usa in Nord Africa. Washington, in passato, ha chiesto a Tripoli di agire con fermezza, ha sollecitato l’arresto di personaggi sospettati di aver avuto un ruolo nella morte dell’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi, ha fornito aiuti che sono andati perduti. Un supporto esterno mai troppo convinto, per non finire impelagati in una realtà melmosa. Proprio l’uccisione dei diplomatici Usa ha dimostrato quanto sia intricata la storia. Pensi di avere dei nuovi amici e scopri dei vecchi nemici. Ora rispunta Haftar e magari gli americani sperano che regoli qualche conto. Ma resta da capire come il generale possa essere una cura per i guai cronici dei libici. Lui è solo un pezzo di un mosaico dove nulla combacia. E per di più le istituzioni, mai esistite sotto Gheddafi, sono fragili come le dune esposte al vento del deserto.

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