Yoshe Kalb Israel Joshua Singer
Traduzione di Bruno Fonzi
Adelphi euro 18
Rabbini che si tirano la barba, dotti oppure ignoranti come capre e corrotti, ricchi e miserabili dai cernecchi arruffati, chassidici e non, galiziani asburgici e russi, gli uni contro gli altri, ma comunque in un mondo a parte che ha le sue regole ferree dettate dalle Scritture e dalle infinite usanze; cabalisti guardati con rispetto e attesa di riscatto, eros proibito e invece sognato, temuto, praticato, donne che fuggono con ufficiali ungheresi, mogli che si aggirano di notte per incontrare gli amanti, o devote fino alla cancellazione di sé, briganti nascosti tra le tombe usate come letti di gozzoviglie; scemi del villaggio, rav del popolo che fabbricano mille amuleti mentre infuria un’epidemia, altri che dormono vestiti perché se arriva il messia bisogna esser pronti; matrimoni, balli, pogrom. Un universo corale di fine ‘800, cencioso, vestito di satin, ribollente, ingenuo, timorato, superstizioso, ipocrita, brulicante, maestoso. Il popolo dell’ebraismo nord-orientale oggi cancellato dalla faccia della terra.
Più si legge Israel Joshua Singer (1893-1944), più si capisce come il fratello minore Isaac, l’unico Nobel yiddish, abbia imparato tutto, o moltissimo, da lui. Sono diversi, certo, Israel è un razionalista senza sbavature, “scettico fino al midollo”, come lo descrive qui Isaac nell’introduzione, lui che invece, anche se pessimista, ha continuato a amoreggiare
Rsempre con il misticismo del padre rebbe chassid.
La storia narrata da questo capolavoro del ‘32 tradotto negli anni ‘70 da Bruno Fonzi e ora rimaneggiato (anche con un occhio all’yiddish) con sapiente cura da Elisabetta Zevi, Yoshe Kalb, è conturbante,ansiosa e ansiogena, un quadro in movimento, a tratti fortemente ironico, dell’ebraismo chassidico, ma soprattutto concentrato sulla figura dell’ebreo errante, di cosa può significare non riconoscersi più nelle tradizioni, eppure, senza di esse, non trovare più la propria identità né un luogo, una comunità a cui appartenere, pur sentendosi ebreo, ebreo, ancora una volta, “fino al midollo”.
Del resto non erano questi stessi dubbi, gli interrogativi di Israel Joshua Singer, sfuggito dal padre rabbino, comunista e poi anticomunista, tornato all’yiddish dopo 4 anni di silenzio anche per sfatare ogni romanticismo alla Peretz sui chassidim, pronto ad immigrare negli Stati Uniti, dove il suo romanzo, a cui sarebbero seguiti I fratelli Ashkenazi e La famiglia Karnow-ski, ebbe un enorme successo e fu portato sulle scene teatrali?
Yoshe Kalb è il doppio di Nahum, un ragazzo con passioni cabaliste di buona fami- glia ebraica e russa, costretto a sposare a 15 anni Serele, la figlia sempliciotta del padre chassid della galiziana e asburgica Nyesheve, il potente e incolto rabbi Melech, frettoloso di ammogliarsi per la quarta volta anche lui, con una giovinetta. Nahum all’inizio non sa quasi di essere un uomo, vorrebbe solo tornare dalla mamma. Vive in questa corte rabbinica più o meno medievale rifugiandosi nello studio e nel silenzio. Anche quando inizia a “conoscere” sua moglie, l’estraneità agli usi e all’ignoranza del luogo rimane totale. La sua separatezza finisce solo quando arriva Malka, la sposa del vecchio Melech, ragazza ribelle — fantastiche le scene in cui rifiuta di farsi tagliare i capelli o quelle in cui civetta con Nahum — : l’attrazione tra i due è palpabile e fatale.
Dopo terribili disastri, Nahum sparisce. Cambia scena, siamo a Bialogura, uno shtetl russo-polacco: è spuntato un giovane uomo che tutti chiamano Yoshe il tonto, non parla, non legge, recita solo i salmi, lo scaccino lo sfrutta e lo ospita in casa, accanto alla figlia minorata e “facile” Zivyah. La tentazione tormenta Yoshe, che però non cede, rifugiato solo nel suo mutismo. Eppure tutto precipita. Costretto a sposare la ragazza, scompare la notte stessa.
Scomparire, errare, lo dovrà fare ancora, perché è indubbio che non appartiene più a nessun luogo. Chi è? Perché se ne è andato? E dove ha vagato? È Nahum o Yoshe? È un santo o un bigamo impostore? «Non so», «L’uomo non sa niente di se stesso» continua a ripetere, tutti i tentativi di definirsi sono inutili. Che smarrimento.
Susanna Nirenstein
La Repubblica