L'Egitto volta pagina, addio ai Fratelli Musulmani - speriamo sia per sempre - due servizi di grande interesse sulla STAMPA di oggi, 11/05/2014, a pag.1-12-13, di Domenico Quirico e Maurizio Molinari.
Domenico Quirico: " L'Egitto volta le spalle ai Fratelli Musulmani "
Domenico Quirico l'ex presidente Morsi
Ma che fine hanno fatto quelli che si trovavano qui? Torno al Cairo dopo più di un anno: la piazza dei rivoluzionari è ampia linda lucente. E vuota. Spariti i manifesti dei martiri le foto di speculatori e generali felloni le bandiere la meravigliosa canaglia barbarica delle rivoluzioni, ladruncoli mischiati ai ribelli, provocatori, arruffa-popolo, matti, eroi:popolo pittoresco vivace tumultuoso esuberante fanatico sudicio affascinante. Passava continuamente davanti agli occhi come una rapida e instabile luminosa veduta di cinematografo.Non rimane di quella rivoluzione forse che un inutile desiderio di bis. E i Fratelli Musulmani, i raduni per invocare il melmoso Mohamed Morsi, presidente deposto e ora ingobbito di mille reati; e le bandiere con le quattro dita in ricordo di piazza Rabaa e dei suoi 400 martiri? Eppure la città non sembra cambiata, sdraiata accanto al nastro turchino del Nilo, le lunghe vie involute fra il marasma delle case, le piazze formicolanti di folla e di traffico, le cataste brune dei rioni incrostati l’uno sull’altro sulla terra come frutti di mare su uno scoglio. Nella piazza, immobili, a coppie come buoi di metallo, vigilano ogni innesto di strada i blindati color sabbia del pio e ambizioso generale Sisi che il 26 maggio diventerà plebiscitario presidente. L’apoteosi dell’islamismo mondiale si è già spenta. Vertiginosa come l’ascesa la caduta dei Fratelli: in Egitto ma anche in Tunisia, in Marocco, in Algeria, in Yemen, in Giordania.Le vele di questi paranoici, autoritari, dissimulatori apostoli del califfato universale sono sgonfie, improvvisamente. Ancora una volta tutto è partito di qui, dall’Egitto: l’antico burattinaio, l’esercito, ha ripreso il suo posto, il potere. Come se nulla in questi tre anni, esaltanti e esaltati, fosse accaduto. Le folle che ho visto qui un anno fa scandire «l’Islam è la soluzione» ora si preparano a invocare il Maresciallo, versione ringiovanita e ritoccata dell’eterno Faraone. Un ragazzo del 30 giugno mi ha dato appuntamento a Tahrir: il volto serio, circondato da una sottile barba nera,una certa grazia altera che guida e rende rarefatto il gestire. La sua forza non si è consumata.Accarezza con lo sguardo le aiuole verdi e le panchine nuove dove un anno fa c’erano le tende e i bivacchi. E i blindati. «Non rinneghiamo niente: la rivoluzione, il voto per Morsi e poi quello per la costituzione dei militari.Voterò Sisi. Ci resta la speranza e la capacità di parlare, siamo diventati migliori.Lagente è stanca, certo,ma ha capito qualcosa, che si può partecipare indirizzare la storia, cambiare. Abbiamo pagato un prezzo alto? Sì ma era forse il solo modo per capire…». Si era aperto il nuovo mondo, la verità palpitante era là, per questo sono felici e infelici. Si vede che volevano uccidere il Passato.Quando si è vecchi lo si lascia morire,quando si è giovani e forti lo si uccide.Quando si può. «Oh! come sono grandi le cose che incominciano. Non c’è mai piccolezza nel principio...». E va via, in un istante, in fretta come era venuto. Sono tornato al Cairo a cercare un deputato dei Fratelli, Khaled Hanaf, un leader, uno dei fondatori di «Libertà e Giustizia» la sigla con cui hanno vinto le elezioni. Lo avevo intervistato due anni fa. Il suo telefono è disconnesso, a vuoto suonano quelli dei collaboratori, segretari, amici, del suo studio di medico a Nasser City. Cerco di risalire il filo del mistero a Elsayeda Zeinab, uno dei quartieri più popolari del Cairo, dove ricordo che è nato, vicino alla moschea IbnTolon la più antica della città ancora con la scala esterna che si aggrappa al tortiglione di pietra del minareto. Nel percorso mi sono perduto a Giza, in una immensa periferia di poveri, dove tutto, tuguri case palazzi di dieci piani,èabusivo. Una volta c’erano i campi il grano e il cotone Dietro i palazzi miserabili e sudici la fuga prospettica delle piramidi che nel deserto assumono l’aspetto di tende. E poi i piani vanno incontro al cielo,e tutto finisce. Per un’ora non riesco a divincolarmi dalle viuzze, buie come la notte perché i palazzi sono così vicini che quasi si toccano, là in alto biancheggia appena una striscia di cielo, dalla folla che si sbriciola sulla polvere delle piste che tengono il posto delle strade, dai cumuli di immondizia che si mescolano a banchetti e botteghe dove la gente i cani i bambini fruga alla ricerca ancora dell’utile, e le mosche che si avventano con furore. Eccola questa montagna di uomini, ammassati per terra come pietre della via, rovinati dalla miseria. Avviliti dalla mendicità, presi tutti in un solo ingranaggio, nello spaventoso ricominciare di ogni giorno. Inutile chiedere indicazioni, le strade non hanno nomi ufficiali, le battezzano con il nome di chi per primo vi ha costruito la casa. Fino al 2005 non vi era luce e acqua, le ha regalate Mubarak, dono delle sue ultime elezioni truffaldine e vittoriose.Giro in tondo, all’infinito, mi sento soffocare.La folla, improvvisamente accelera, si spalanca.Un uomo la fende, correndo, a piedi nudi, negli occhi una selvaggia paura. Una muta di inseguitori lo bracca, lo afferra, lo getta a terra. Cominciano a colpirlo con calci pugni. Chiedo che succede.Mi rispondono senza voltarsi, continuando, selvaggiamente a spiare il linciaggio, con occhi come grinfie, ridendo: «un ladro... forse». La folla quietamente si richiude sulle urla dell’uomo, lo inghiotte con il frastuono del traffico, i cavalli i carretti, gli asinelli, gli appelli dei venditori. È un amico che, alla fine, arriva a estrarmi dal labirinto, mi guida verso il minareto di Ibn Tolon. Anche Gamal è nato qui: «Una volta era un bel quartiere, piccola borghesia, funzionari, anche di alto livello.Ma se abitavano qui, nella vecchia Cairo, voleva dire che non rubavano, che non si lasciavano corrompere: «Mio padre era uno di loro, immerso tutto il giorno nelle cifre, ne emergeva a sera come un naufrago, stordito...». Ora le case sono muri screpolati, inclinati e polverosi, scacchieri brumosi su cui posano rettangoli di chiarore, scogliere che assorbono il formicolio delle persone che si seppelliscono nelle porte, si affondano nei vicoli, poi vagamente si cambiano in luce. Splendidi mausolei di santi antichi giacciono abbandonati, guasti come denti cariati. Le botteghe hanno appena aperto, i negozianti arenati sulla spiaggia di una stuoia come grossi cetacei, attendono. Solo davanti al carretto che vende le fave calde annegate nell’olio di sesamo, già si affollano i compratori con le gamelle. «È quello di El Gash, lo conoscono in tutta la città, perfino i cantanti famosi mandano a prendere le sue fave succulente...». C’è coda anche davanti al forno. I bambini si stringono le pagnottelle al cuore, come una bambola. È uno dei pochi che vende il pane a 5 piastre, il prezzo calmierato. L’altro, il pane dei «francesi»degli stranieri come lo chiamano, dei ricchi, è fuori portata per la povera gente. Ecco: il vicolo dove è nato Hanaf. I vicoli del Cairo: prolungamento del corpo e dell’anima di chi ci vive. Una delle caratteristiche del vicolo è che non conosce mormorii e sussurri, le voci sono sempre molto forti, a volte rudi a volte piene di saggezza. Non è un semplice spazio limitato sepolto da una massa di dettagli, ma è tutto un mondo di significati emotivazioni. Chi vi entra, anche un estraneo come me, vi è inghiottito, si liquefa. L’anima di un popolo deve prendere dimora in un luogo, raccogliervisi, armonizzarsi alla sua natura. La vita al Cairo ha individuato nel vicolo il luogo per sé, nello spazio e nel tempo, si è radicata in una sede che è sua all’interno dell’indifferente e dissolvente natura che vorrebbe continuamente confondere tutto. Andiamo a chiedere notizie al caffè che ingombra mezza via con i suoi sofà e i suoi sgabelli. Ronza, tintinna e si affumica già, offre un sudicio ma comodo rifugio a una gruppo di uomini che sembrano statue. Immobili, assisi nobilmente tra i loro stracci smaglianti, dignitosi, sorvegliano il tumulto che cresce nella via. «Hanaf? È in prigione, con gli altri trentamila. Forse condanneranno anche lui a morte... Chissà! Credevamo di conoscerlo bene, uno cresciuto qui, tra noi.Mentivano bene, la religione qua la religione là.Chi parla di dio pensavamo è una persona buona onesta. Li abbiamo votati in questo quartiere, in massa, pareva che stessimo aspettando la discesa dal cielo di angeli di gioia e misericordia. E invece volevano solo il potere. Sai che quando Morsi è diventato presidente i proprietari dei night e dei locali sulla via delle piramidi si son messi le mani nei capelli… siamo rovinati, quello ci cancellerà tutte le licenze per vender alcol. Invece le hanno prorogate non per un anno come primama per tre! Ipocriti, solo ipocriti». Un altro,Omm, incalza: «Io sono stato a lungo con loro. Mi ha salvato mio padre,mi ha insegnato che le decisioni dovevo assumerle io, non gli altri prenderle per me.Nei Fratelli a poco a poco si diventa un automa, ripeti le formule che ti ficcano in testa,non hai più volontà. Esigonodi controllare tutta la tua vita, persino sapere chi è la ragazza che vuoi portare a letto. Anche io mi ero iscritto tra i volontari per l’Afghanistan. Quando mi sono tirato indietro, per loro è come se non fossi esistito più, come fossi morto». Nella conversazione i temi si incontrano si attirano e si fondono come scorrevoli gocce di inchiostro.Nuovi interlocutori ai aggiungono, altri si alzano per le loro faccende. Khaled, il meccanico, sorveglia da lontano i due bimbi sporchi di grasso che gli fanno da aiutanti, e narra il suo guaio: «Il mio affitto è bloccato ameno di un euro almese, sia grazie a dio misericordioso e a Nasser che emanò questa legge santa! Tutto quello di buono che c’è in Egitto è merito suo, la riforma agraria le industrie la diga… Adesso il proprietario vuole buttarmi fuori, mi tenta con 300mila piastre. È furbo, sapete come fanno…demoliscono la casa, si fanno dare i soldi dalla banca, di appartamenti ne costruiscono trenta e guadagnano milioni. Ma io non mollo. L’esercito?Ma la gente vuole tranquillità, guadagnare qualcosa, vivere decentemente. Votiamo per chi ce la garantisce. Sarà Sisi? Benissimo viva Sisi allora! Da quando son tornati imilitari non ci sono più interruzioni di acqua e luce come ai tempi di quel pasticcione incapace di Morsi». Arriva il colonnello, un ufficiale in borghese, tutti gli fanno posto rispettosi, cala un ossequioso silenzio mentre racconta di aver accompagnato la figlia a ripetizione: «La scuola fa schifo,perfino alle elementari bisogna portare i bambini a lezioni private perché imparino davvero a leggere e scrivere. E i maestri e i professori arrotondano lo stipendio che non consentirebbe loro di sopravvivere.Tutto l’Egitto sopravvive così, arrangiandosi. E voi stranieri dite che noi militari abbiamo fatto un colpo di stato, e storcete il naso...meno male, con quei dannati, rischiavamo di diventare un altro Paese, ci cambiavano ogni giorno con piccole dosi di veleno». Come per caso da una delle case parte una canzone di gran moda, «Ringraziamo le mani», un ballabile allegro che esalta l’esercito che ha liberato l’Egitto. Il colonnello ridacchia soddisfatto. «Bella eh? Ti vien voglia di ballare. I Fratelli odiano questa canzone, raccontano che uno di loro quando ha saputo che i parenti della sposa l’aveva scelta per la festa ha rinunciato a sposarsi...». Tutti fanno cenni di assenso. Passa un giovane, la barba da islamista, la galabia corta come impongono i salafiti, saluta, lo salutano. «È un bravo ragazzo, non un terrorista. I Fratelli ammazzano i poliziotti, quasi ogni giorno un attentato, laggiù - Othman l’impiegato fa un cenno vago verso i quartieri della periferia -. Ma è un segno di impotenza. Non oseranno utilizzare le autobomba, passare al terrore cieco, sanno che se dichiareranno guerra al popolo li andremo a prendere casa per casa, nei quartieri. Li conosciamo uno per uno». È l’ora della preghiera: tutti si alzano, si mettono in movimento: «La religione è il nostro sangue,ma quella praticata viva, non quella ostentata, fatta di segni esteriori, e finta...». Una religione per gli infelici perché essi non soccombano.Mi avvio.Non ho più nulla da cercare. Le moschee sono l’una accanto all’altra, le voci dei predicatori si sovrappongono, si intrecciano, formano una straordinaria rombante cacofonia che riempie e fa vibrare la città intera. La presenza di Dio sovrasta come il cielo i conflitti angoscianti degli uomini e l’immensità che affanna delle tragedie chequi si vivono.La presenza! Nulla ho mai sentito di più forte di questo grido al Cairo dell’uomo verso la divinità, nulla che possa dare un’idea così perfetta del silenzio.
Maurizio Molinari: " Soldi ai poveri, forca per i nemici. Il programma di Al Sisi"
Maurizio Molinari Abdel Fattah Al Sisi
Lotta senza tregua al terrorismo e prosperità per i più poveri: sono le promesse con cui il generale Abdel Fattah Al Sisi ha debuttato nella prima settimana della campagna elettorale per la presidenza che si concluderà con il voto del 25 e 26 maggio. Linguaggio e argomenti dell’ex ministro della Difesa puntano a rinnovare e rafforzare il consenso popolare che accompagnò il rovesciamento di Mohammed Morsi nel luglio del 2013. Allora milioni di egiziani scesero in piazza seguendo i militanti di Tamarod contro i Fratelli Musulmani. E Al Sisi, che li ha messi al bando come organizzazione terroristica, promette: «Se sarò eletto cesseranno di esistere». È l’impegno a un pugno di ferro che va oltre le sentenze di condanna a morte contro oltre 600 militanti perché Al Sisi si mostra sicuro di riuscire dove Nasser, Sadat e Mubarak hanno fallito ovvero annientare il partito islamico fondato da Hassan al Banna nel 1928 per combattere il colonialismo, riscoprire l’Islam delle origini e «dimostrare pietà per i poveri». Nell’intervista-fiume a Cbs e On- Tv Al Sisi spiega tale intenzione con la colpa più grave dei Fratelli Musulmani ovvero «aver minacciato di impiegare combattenti libici e afghani contro l’esercito». È un’accusa che trasforma la Fratellanza nel simbolo della sfida all’esercito, perno dell’identità nazionale dai tempi di Nasser, e fa di ogni suo militante un nemico. È un messaggio di lotta senza tregua con significative ricadute regionali perché Al Sisi si affianca all’Arabia Saudita nella guida di una controrivoluzione che punta ad annientare ovunque movimenti e milizie che si ispirano alla Fratellanza: dalla Libia alla Giordania, dal Bahrein alla Siria. L’altro fronte di Al Sisi è la promessa di benessere ai più poveri. Si mostra consapevole che l’insoddisfazione sociale, testimoniata dagli scioperi a raffica, rischia di privarlo dell’alta affluenza alle urne di cui ha bisogno per rilegittimarsi e così corre ai ripari. Parla di «migliaia di posti di lavoro» che saranno creati con gli investimenti degli Emirati, sigla con Mosca accordi per importare a basso prezzo il grano, promette il rilancio del turismo e incassa dall’Arabia Saudita la promessa di un diluvio di dollari per recuperare i «ragazzi di strada» ovvero i bambini abbandonati che vivono fra miseria e criminalità. Manon è tutto, perché Al Sisi gioca anche la carta americana. Lo fa svelando che Anne Peterson, ambasciatrice di Barack Obama, «chiese di rinviare la deposizione di Morsi» e poi facendo sapere a Washington che il successore, Robert Stephen Beecroft, «può tornare al Cairo» per riempire una sede vacante da nove mesi ma a patto, come dicono i portavoci di Tamarod, che «dimostri di aver cambiato politica nel mondo arabo». Al rivale Hamdeen Sabahi, candidato dell’opposizione, restano poche carte da giocare ma tenta comunque di non essere schiacciato ricordando che «Al Sisi appartiene alla vecchia nomenklatura di Hosni Mubarak».
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