Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Iran: la strategia di Rohani per salvare il regime Analisi di Tatiana Boutorline
Testata: Il Foglio Data: 09 maggio 2014 Pagina: 3 Autore: Tatiana Boutorline Titolo: «Nell’Iran di Rohani i diritti sono “solo un mezzo” già dimenticato»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 09/05/2014, a pag. 3, l'articolo di Tatiana Boutorline dal titolo"Nell’Iran di Rohani i diritti sono “solo un mezzo” già dimenticato".
Tatiana Boutorline Hassan Rohani
Milano. Alla vigilia dell’ennesimo round negoziale sul nucleare di Teheran, in calendario la prossima settimana a Vienna, i protagonisti della trattativa sono ottimisti. Certo, i tecnici sottolineano che molti decisivi dettagli devono ancora essere definiti (“quando raggiungeremo l’accordo? Nelle prime ore del 21 luglio”, ha scherzato un diplomatico coinvolto nei colloqui intervistato dal Guardian, i sei mesi dell’accordo ad interim scadono il 20 luglio e la sensazione è che ogni frase sarà limata fino all’ultimo istante); certo, gli iraniani seguitano a denunciare i sabotaggi di “forze oscure” (Israele e i falchi nemici del presidente, Hassan Rohani), ma l’ottimismo prevale. “A Vienna i caponegoziatori dovranno trovare una lingua comune è un passaggio fondamentale (…). Se ce la faranno e l’accordo potrà andare in porto, si tratterà probabilmente del più grande successo diplomatico finora raggiunto nel Ventunesimo secolo”, scrive il Guardian. Il New York Times concorda sottolineando in un editoriale dell’11 aprile che i colloqui sono finora stati produttivi, che non si deve reagire in maniera scomposta alle provocazioni (tipo l’infausta nomina dell’ambasciatore all’Onu Hamid Aboutalebi) perché le conseguenze di un fallimento sarebbero catastrofiche. Avanti tutta dunque. Rand Corporation ha già pubblicato un rassicurante studio sul “day after the deal”: Arabia Saudita e Israele non faranno salti di gioia, ma si adatteranno alla nuova realtà, e Laura Rozen di al Monitor sostiene che, al netto della sua posizione ufficiale, Gerusalemme più che osteggiare l’inevitabile accordo si preoccupa piuttosto dei suoi meccanismi di implementazione e di controllo. Mentre lo spirito del tempo sancisce che gli scettici sono miopi o in malafede perché l’Iran è quello che è e Rohani è quanto di meglio la Repubblica islamica possa produrre, il ministro degli Esteri, Javad Zarif, si prepara a incontrare la capa della di diplomazia europea, Catherine Ashton (solo il fatto che si chiamino per nome è stato fustigato in Parlamento, ma Rohani si rifiuta di censurare lo stile informale del suo ministro, “bisogna capire e assecondare certi usi occidentali”): la baronessa è stata omaggiata con un vestito “islamically correct” disegnato da una stilista iraniana. La fiducia preventiva sbocciata nella comunità internazionale con Rohani si estende alla sua trattativa, ai suoi emissari e ai suoi interlocutori. Il presidente lo aveva promesso durante la campagna elettorale: se scegliete me, il mondo ci guarderà con occhi nuovi. Ha avuto ragione. La comunità internazionale gli ha creduto e Rohani ha spiegato agli iraniani che tutto sarebbe ripartito da lì, che se Teheran fosse rientrata nei salotti buoni, l’economia si sarebbe sbloccata e le forze più oscurantiste si sarebbero fiaccate. La vita sarebbe stata più lieve e, a quel punto, la chiave, simbolo elettorale di Rohani, avrebbe aperto le altre porte chiuse: quelle fisiche oltre le quali languono i prigionieri politici, e quelle invisibili come la cortina mediatica che tenta (fallendo) di isolare gli iraniani dai peccaminosi costumi occidentali. A quasi un anno dal suo trionfo però è soprattutto Rohani ad aver bisogno di essere salvato dal mondo. Ha legato il destino della sua presidenza alla soluzione della querelle nucleare senza potere o volere far qualcosa per l’Iran che da lui si aspettava, soprattutto, risultati concreti in tema di diritti civili. E invece i quotidiani chiudono, le esecuzioni capitali aumentano invece che decrescere, a Evin si consumano massacri e in tutte le battaglie culturali che oppongono le donne ai tradizionalisti Rohani tace. C’è chi lo difende e sostiene che il presidente deve prima portare a casa l’accordo nucleare e solo allora avrà la forza per incidere profondamente sul tessuto della società iraniana e chi, come Steven Ditto, autore di un documentatissimo profilo sul presidente intitolato “Reading Rohani”, mette in guardia dall’esausto modello mullah buoni-mullah cattivi già applicato durante la presidenza di Mohammed Khatami. Rohani non è un Khatami più forte e navigato. In maniera confusa, contraddittoria e inconcludente, Khatami aveva comunque elaborato una visione di società islamica ideale in cui i diritti umani erano un fine da perseguire. “Per Rohani – dice Ditto – i diritti umani sono solo un mezzo”. Un mezzo elettorale, un mezzo per garantire la pax sociale e tenere insieme il sistema. Sa che qualcosa dovrà essere concesso, che non bastano il concerto di una pop star o la difesa di WhatsApp per far dimenticare la detenzione di Mehdi Karroubi e Mir Hossein Moussavi e gli orrori del 2009, ma scommette sui poteri taumaturgici dell’accordo nucleare. Il tempo però non è dalla sua parte. La luna di miele con gli iraniani è già finita perché le delegazioni straniere affollano gli alberghi di Teheran, ma nell’economia reale poco o nulla è cambiato. In più per ripianare le casse dissestate dello stato, il governo ha deciso di interrompere la massiccia e pressoché universale erogazione di contanti decisa dal suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad, nel 2010. Il responsabile del programma ha stimato che nei 38 mesi della sua applicazione la cura Ahmadinejad è costata l’equivalente di 50 miliardi di dollari. Star della tv e famosi calciatori sono apparsi sugli schermi per convincere gli iraniani che lo stato non è un bancomat e che ognuno deve rimboccarsi le maniche, ma il mese scorso il 90 per cento dei cittadini riceveva ancora l’equivalente di 15 dollari al mese e in pochi paiono intenzionati a rinunciarvi. Il problema, come argomentava ieri Potkin Azarmehr sul Wall Street Journal, è che l’economia iraniana è come un enorme setaccio. Ogni centesimo che ci metti dentro scompare dentro minuscoli e misteriosi fori, nessuno rende conto a nessuno e nessuno sa dove i centesimi vadano a finire. Naturale che gli iraniani non abbiamo voglia di sacrifici, naturale che a poco a poco comincino a vedere le travi che noi non vogliamo vedere negli occhi di Rohani.
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