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La Stampa Rassegna Stampa
03.05.2014 Ecco come funziona l'apartheid in Israele
Lo racconta Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 03 maggio 2014
Pagina: 64
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Il giudice arabo-israeliano che loda gli italiani»

Questo articolo  di Maurizio Molinari, che riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/05/2014, a pag.64  con il titolo " Il giudice arabo-israeliano che loda gli italiani ", non lo dedichiamo agli odiatori di professione dello Stato ebraico, i vari Morgantini, Vattimo, Vendola - solo per citarne alcuni - ma a tutte le persone per bene ma disinformate, intossicate da una informazione a senso unico, che non vede in Israele l'unica democrazia reale in Medio Oriente, e una delle più avanzate a livello mondiale, ma uno Stato che opprime al suo interno una minoranza.
Cari lettori di IC, mettetelo nei vostri archivi e mandatelo a quegli amici che subiscono i quotidiani lavaggi del cervello ad opera di una propaganda che nulla ha da invidiare a quella del dott.Gõbbels.

a destra Abu Taha Nasir
Ecco l'articolo:

Maurizio Molinari

È nato sotto una tenda beduina nel deserto del Negev, ha studiato giurisprudenza a Napoli ed è in prima fila contro la criminalità organizzata in Israele: Abu Taha Nasir è il giudice arabo-israeliano che deve la sua formazione agli anni passati in Italia, dove afferma di aver imparato «come si combattono i reati gravi». Classe 1963, vestito grigio, voce bassa e perfetta conoscenza della lingua di Dante, Abu TahaNasir deve la sua passione per la legge all’infanzia passata nei villaggi beduini del Negev a fianco del nonno, Haj Ahmed Abu Taha. «Era un uomo molto anziano, saggio e stimato dalle tribù - racconta - e quando c’erano dispute nei villaggi la scelta di dirimerle ricadeva su di lui, applicando tradizioni e leggi beduine». Dopo la laurea in scienze politiche all’Università di Ben Gurion di Beer Sheva, il maggior centro del Negev, Abu Taha tenta il master in legge, ma in Israele c’è il numero chiuso e per lui, che non ha fatto il servizio militare, l’unica strada è andare all’estero. «Gli israeliani vanno spesso in Italia a studiare medicina, io scelsi giurisprudenza» ricorda, spiegando che «prima prefezionai l’italiano all’ateneo per stranieri di Perugia, poi feci legge a Napoli e quindi mi laureai a Camerino». Sono anni che lo hanno segnato. Per più motivi. Anzitutto il rapporto con Napoli. «Non avevo grandi risorse, l’unico appartamento che potevo permettermi era unamonocamera a Via Roma, nei quartieri Spagnoli», dice, sottolineando come «era una zona infestata dalla criminalità, ma nessuno mi toccò, mai, come non mai venni derubato, sebbene il mio appartamento era praticamente aperto». E’ un’esperienza dalla quale ha tratto la convinzione che «gli italiani, anche i più poveri e violenti, rispettano gli stranieri».Ma non è tutto, perché, «appena aNapoli eCamerino seppero che ero un arabo-israeliano, decisero di non farmi pagare gli studi, dandomi un salario e facendomi mangiare gratis alla mensa universitaria». Se a questo si aggiunge che «i libri me li pagavano le Chiese locali», non è difficile indovinare perché Nasir Abu Taha affermi di «dover molto all’Italia». Dove ha appreso anche «un approccio alla criminalità organizzata fonte di costante insegnamento». Il riferimento è anzitutto al reato di «associazione mafiosa» che Israele ha adottato cinque anni fa, «dopo un’attenta osservazione dei risultati positivi avuti in Italia». Per Nasir Abu Taha questo «strumento legislativo italiano» è uno dei «mezzi più efficaci che oggi ho a disposizione per perseguire qui in Israele gang criminali estese, come quelle guidate nel Sud da personaggi come Domrani e Grinberg». «Molti dei nostri successi - assicura - si devono all’esempio che ci viene dall’applicazione della legge in Italia». Primo procuratore arabo in Israele, Abu Taha diventa giudice nel 2002 e, quando l’allora Capo dello Stato Moshe Katzav lo invita alla cerimonia di investitura, gli fa sapere che sarà accompagnato dal padre e dall’ambasciatore italiano. «Lo staff di Katzav fece un sobbalzo. Non capivano perché volevo un diplomatico italiano - rammenta - ma spiegai che se ero arrivato fino a lì lo dovevo all’Italia». Giudice di pace e quindi in Corte d’Assise a Beer Sheva, Abu Taha è destinato ad arrivare alla Corte Suprema di Israele, uno Stato di cui si sente parte, ma del quale critica alcune leggi «Quandomi trovo davanti all’arresto di un palestinese dei Territori che viola la legge, venendo a lavorare in Israele, tendo a pronunciarmi per la sua liberazione - ammette - perché nella gran parte dei casi si tratta di persone che vogliono solo poter mantenere le proprie famiglie». «So bene che queste mie sentenze vengono poi rovesciate e annullate, ma continuo ad emetterle perché si tratta di persone che violano la legge pensando al cibo per mogli e figli», spiega durante un incontro nella residenza dell’ambasciatore italiano Francesco Talò. Al governo di Netanyahu critica il piano di «urbanizzazione delle tribù beduine» del Negev, affermando che «trasferire 45mila persone da villaggi nel deserto in case costruite con tutti i servizi può essere una decisione giusta», ma l’errore è «imporre dove questi villaggi devono essere», perché ciò significa inmolti casi «dover abbandonare aree a cui le famiglie tribali sono legate da generazioni». Sposato con una donna araboisraeliana, avvocato in Galilea, da cui ha avuto due figli, Abu Taha riconosce comunque allo Stato Ebraico il merito di «aver dato alla mia generazione di beduini arabo-israeliani opportunità di crescita ed affermazione». E non solo grazie a leggi in favore delle minoranze nazionali, «ma per il comportamento di singoli cittadini, come l’avvocato ebreo di Ashdod, che mi prese come praticante nel suo studio, scartando un mio coetaneo ebreo, figlio di un alto funzionario del governo». Abu Taha è convinto che «in fin dei conti a fare la differenza, nei rapporti umani come nella lotta al crimine, sono le decisioni dei singoli». Ed è a questa «capacità di operare a favore del prossimo», di cui è stato testimone in Italia negli Anni 80, che riconosce il merito di «avermi suggerito come operare, una volta divenuto primo giudice beduino».

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