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La Stampa Rassegna Stampa
30.04.2014 L'ombra dello scontro tra Iran e Arabia Saudita sulle elezioni irachene
Reportage di Laura Silvia Battaglia, analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 30 aprile 2014
Pagina: 11
Autore: Laura Silvia Battaglia - Maurizio Molinari
Titolo: «Baghdad seppellisce il passato 'Ci meritiamo la democrazia' - Dietro la sfida sciiti-sunniti il duello tra Riad e Teheran»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 30/04/2014, a pag. 11, l'articolo di Laura Silvia Battaglia dal titolo "Baghdad seppellisce il passato. 'Ci meritiamo la democrazia' " e l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Dietro la sfida sciiti-sunniti il duello tra Riad e Teheran".

Ecco il reportage di Laura Silvia Battaglia:

                      
Laura Silvia Battaglia           Il presidente iracheno Nouri Al Maliki

La pasticceria Zaitun apre i battenti alle 7 del mattino e lo farebbe anche se ci fosse il coprifuoco su tutta l’area di Karrada, a Est del Teatro Nazionale in Alfateh Square. Sul marciapiede ci si affolla come mosche sul tavolaccio del macellaio, salvo che qui non si tagliano quarti di agnello ma si distribuisce la prelibatezza del mattino, la kaji, una sfoglia ripiena di crema di latte e inzuppata nel miele più buono. La teglia va via in pochi secondi e tocca aspettare altri 15 minuti per la prossima. Ma non ci si annoia: non sono giorni come gli altri. Si vota e parlare di politica è inevitabile. Qui, in Iraq, la frattura tra giovani e vecchi si sente. Per fortuna la kaji mette tutti d’accordo, ma Ali Kareem, 25 anni, appena sposato, evidentemente sciita, benvestito, con un lavoro da informatico in un ufficio statale, in coda anche per il pane, dice di avere speranze per il futuro. Per cui voterà «perché i giovani si meritano un nuovo Iraq e posti di lavoro». Per non sentirlo parlare ancora, Abu Ahmad, con la sua jallabya color sabbia e la stanchezza dipinta sui suoi sessant’anni di uomo robusto, si infila nella drogheria accanto e quando si sente interpellato, parte con la sua filippica, senza giri di frase: «Non ci credo. Qui solo 3 mila persone ne controllano milioni. Tutti i politici sono ladri. Abbiamo fatto entrare gli americani perché doveva essere meglio di Saddam, invece per me è peggio». Forse Abu Ahmad ha anche un’età e ne ha viste troppe: per questo non spera più come quasi tutti quel che hanno vissuto dieci anni di guerra senza poter scappare. Ma lui è convinto che sia una questione genetica: «Il problema siamo noi iracheni: ci siamo assuefatti, addormentati ai soprusi. E poi non siamo onesti: non sappiamo fare gruppo, aiutarci tra noi. Siamo sempre divisi: il nostro cuore non è puro». Ha lacrime di rabbia Abu Ahmad, però a votare ci andrà. E ci andrà pure Abu Hasser, stesso quartiere, che è uno degli addetti alle pulizie di Mesbah Alaaaldeen Square e che si dispera perché i cartelli elettorali gli rovinano aiuole e piantine: «Guarda qua, prima la piazza era un gioiello, da tre mesi a questa parte non faccio altro che togliere cartacce e pestare le facce dei candidati». La piazza del Teatro Nazionale ne ha per tutti i gusti elettorali: ci sono i cartelli della grande coalizione sciita, con l’attuale primo ministro Nuri Al Maliki che fa capolino anche dai ballon sospesi in grande quantità sulle arterie di raccordo della circonvallazione di Baghdad e che qui ne ha fatto piazzare uno proprio sul Teatro. I maligni fanno i conti in tasca alla sua campagna elettorale, essendo il favorito: si dice sia costata 8 milioni di dollari e uno spot pubblicitario, che gira su tutti i canali governativi, pare sia stato pagato alla società di produzione più di 500mila dollari. In Mesbah Alaaaldeen Square, i cartelloni verde/giallo del partito del presidente, lo Isci (Il Consiglio Supremo degli islamici Sciiti dell’Iraq), sono quelli più grandi e ben in vista ma la miriade degli altri conferma le cifre ufficiali: 9650 candidati per 328 posti in parlamento, più di 230 gruppi politici, divisi in circa 100 liste e 39 coalizioni per 22 milioni di persone al voto. Tutti gli elettori chiedono sicurezza, lavoro, diritti. I candidati le promettono, spesso senza un vero programma, compresi i quattro grandi favoriti: Osama Al Nujaifi, Ali Al Sistani, Maqtada Al sadr, Massud Barzani. E, ovviamente, Nuri al-Maliki. In generale, questa è una campagna disordinata, funestata da attentati suicidi con 2750 morti in appena quattro mesi (solo nelle 24 ore che hanno preceduto il voto ci sono state 79 vittime), ma davvero energetica con parecchie donne candidate e, per la prima volta, anche un disabile. E nella capitale sono tornati i comunisti: si fanno sentire con vigore all’interno della Alleanza Civile Democratica e rafforzano la pubblicità con caroselli di auto e bandiere rosse. Emad Alkhafaji, direttore del «ngo BurJ Babel», candidato, che ha il suo ufficio/studio d’arte con annessa sala per film d’essai non distante dal Teatro Nazionale, ne è convinto: «I pessimisti lo sono soprattutto per se stessi. Con tutti gli errori dell’occupazione Usa e l’insipienza successiva, in questo Paese c’è del buono. Non possiamo paragonare il 2014 a quello che abbiamo passato nel 2006. Possiamo cambiare: lo faremo progressivamente. Basta diventare una vera democrazia». Non ci credono molto i sunniti che, nella corsa alle poltrone elettorali, hanno spaccato il partito al-Iraqiya, invitano al boicottaggio e recriminano per quanto accade nella provincia di Anbar e a Falluja, attualmente sotto assedio dell’esercito per ripulire l’area dai qaedisti dell’Isil che qui tutti, in arabo, chiamano «daesch» non senza timore. Nonostante tutto, queste elezioni sono la migliore occasione per dimostrare che gli iracheni sanno fare da sé. Anche se, scherza Sargon Slivo, che voterà per la minoranza assira, «bisogna ammettere che Alessandro Magno nei nostri confronti aveva ragione quando diceva che, o bisognava lasciare questo Paese o bisognava purgarlo: siamo molto creativi ma cambiamo idea facilmente. Siamo majnuni, pazzi. Nel bene e nel male».

Ecco l'analisi di Maurizio Molinari: 

 
  Le bandiere dell'Arabia Saudita e dell'Iran

          
       La bandiera irachena  Maurizio Molinari

La scelta del premier uscente iracheno Nuri Al Maliki di imputare all’Arabia Saudita «interferenze nel voto» evidenzia come le prime elezioni a Baghdad dopo il ritiro Usa siano un duello a distanza fra Teheran e Riad. Indebolito dalle defezioni nel campo sciita, a cominciare dall’ex imam ribelle Muqtada al-Sadr, Al Maliki tenta di guadagnare seggi sufficienti per ottenere il terzo mandato con una campagna dai marcati toni anti-sunniti: schiera le milizie sciite a fianco delle truppe irachene nella campagna per la riconquista di Fallujah e Ramadi controllate da Al Qaeda, ordina agli elicotteri la prima incursione in Iraq per bersagliare i jihadisti e sceglie le telecamere della «Bbc» per imputare ad Arabia Saudita e Qatar «pesanti interferenze».
E non è andato molto per il sottile, parlando di «un gran numero di combattenti di Niger e Ciad» che sarebbero entrati illegalmente in Iraq, con il sostegno economico di Riad e Doha, per rafforzare il controllo jihadista sull’Anbar. In questa maniera Al Maliki punta a presentarsi agli sciiti, maggioranza della popolazione, come il garante degli equilibri di forza fra etnie emersi dopo il ritiro Usa.
Ma il risultato è spingere i quotidiani delle monarchie del Golfo a definirlo «un colonnello dell’Iran», addebitandogli la «volontà di isolare e indebolire i sunniti in violazione degli accordi costituzionali» sin da quando nel dicembre del 2011 spiccò un mandato di cattura per il vicepresidente Tarek Al Hashemi obbligandolo a espatriare. Per i sauditi Al Maliki è un tassello della strategia iraniana di creare un blocco di Paesi contigui filo-Teheran, dall’Iraq al Libano passando per la Siria, e dunque Riad spera che a sostituirlo sia una coalizione multietnica di partiti sciiti, sunniti e curdi. Questi ultimi, guidati da Masud Barzani, sono fra i più determinati a sconfiggere nelle urne Al Maliki: per questo lo sfidano e irridono, minacciando di vendere petrolio del Kurdistan direttamente dai terminal turchi.
Il cocktail di tensioni inter-etniche sullo sfondo del duello fra i due giganti della regione - Riad e Teheran - ripropone la dinamica che segna la guerra civile siriana. E fa temere a Washington che nel dopo-voto a prendere l’iniziativa potrebbe essere Al Qaeda, puntando a sfruttare la fase di incertezza a Baghdad per rafforzare il controllo sulla regione dell’Anbar confinante con le aree jihadiste nella Siria del Nord-Est.


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