Un regalo del Führer Charles Lewinsky
Traduzione di Valentina Tortelli
Einaudi euro 23,00
Quanti denti ha il pescecane e a ciascun li fa veder, cantava Kurt Gerron girando la manovella di un organetto. Era il song di Mackie Messer alla prima dell’Opera da tre soldi a Berlino, nell’agosto del 1928.Un successo travolgente. Il grasso Kurt, un cabarettista, uno da café chantant, «una pancia che canta», come si definiva lui, non molti anni dopo sarebbe stato ingoiato da ben altri squali, da quegli aguzzini nazisti che lo avrebbero deportato con la moglie Olga a Theresienstadt e poi soppresso ad Auschwitz. Ma l’ebreo berlinese Gerson (questo il suo vero nome) fu non solo un attore popolare accanto a Marlene Dietrich ed Emil Jannings nel film L’angelo azzurro, ma anche un regista stimato che lavorava con interpreti come Hans Albers e Peter Lorre. Insomma un personaggio di quegli «anni ruggenti» che videro sfilare i più bei nomi della cultura tedesca fra le due guerre. Un soggetto ideale per uno scrittore come lo svizzero Charles Lewinsky, già autore di un’opera di grande respiro epico come La fortuna dei Meijer (Einaudi 2007), affabulatore instancabile che assembla destini individuali e collettivi con il taglio leggero e scorrevole di chi è abituato alla narrazione televisiva. Nel suo ultimo romanzo, Un regalo del Führer, proposto da Einaudi nella bella versione di Valentina Tortelli, il destino di Gerron diventa l’occasione per cogliere con fantasia piuttosto sbrigliata l’atmosfera, la musica di un’intera epoca. Gli anni sono bui, il momento è drammatico, ma la scrittura ha la magica pregnanza di un racconto che vibra all’infinito, e dove anche la tragedia si attenua fra il sentimentale e l’ironico. Viene in mente il film di Benigni, La vita è bella, perché anche qui, lungo l’inarrestabile monologo di Gerron rinchiuso nel KZ, il problema di fondo è come conciliare la finzione, gli arabeschi sfuggenti dell’ invenzione artistica con l’orrore. Il regista non ha molta scelta: deve decidere in tre giorni se girare un film per l’Obersturmführer Rahm senza scordare che, in caso contrario, c’è sempre un treno in partenza per Auschwitz. Una pellicola che reclamizzi Theresienstadt come l’isola dei beati, paesaggio da cartolina con gente allegra e spensierata. Deve creare la casetta di panpepato come quella della strega nella fiaba di Hansel e Gretel. Lui Gerron, la vittima, dovrebbe mentire per un ufficiale delle SS, perdere la propria dignità, diventare una marionetta pubblica, costruendo l’idillio dove domina la ferocia, mimetizzandola dietro una facciata culturale. Perché Rahm sogna un KZ rivisitato come fosse la Weimar di Goethe e già si vede nei panni del duca Carl August. Lucida follia, progetto a cui il detenuto Kurt, pur sapendo di non essere un eroe, vorrebbe sottrarsi, ma che finirà per accettare, seguendo il consiglio della moglie, consapevole però che quel film potrebbe allungare l’esistenza di molti altri collaboratori destinati alle camere a gas. L’ebreo Lewinsky trasforma il suo eroe in un giullare pieno di guizzi e di trovate, in una specie di rabbi che di fronte all’epilogo della vita non smette di narrare e inscenare la propria epoca, tra la prima guerra mondiale e l’esilio con la famiglia in giro per l’Europa dove incappa nella rete dei nazisti, mentre i genitori moriranno a Sobibor. Recita nelle pièce di Brecht, che definisce ipocrita e camaleonte, canta al Caffè Küka, alla Wilde Bühne o al Metropol in quella Berlino che gli appare fra mille luci come un unico gigantesco teatro. Storie vere e false s’intrecciano in un gioco che attutisce e soffoca la tragedia nel ritmo palpitante delle parole. Qualcuno ha detto maliziosamente che lo scrittore guarda più a Hollywood che a Theresienstadt. Sì, perché il travolgente racconto di Kurt, carico di bizzarre memorie e di destini dispersi, ha il ritmo e l’estrosità della sceneggiatura di un film. Non quello che dovette girare Gerron, il cui materiale - concluse le riprese - fu montato da altri, ma quello zeppo di trovate, di Charles Lewinsky, al cui fascino è difficile sottrarsi anche quando riflette fra realtà e fantasia sull’ umana spietatezza.
Luigi Forte
Tuttolibri – La Stampa