Su REPUBBLICA di oggi, 27/04/2014, a pag.38, con il titolo "Amos Gitai", Cloe Piccoli intervista il regista-scrittore israeliano. In effetti Amos Gitai viene giustamente definito 'famoso', un'etichetta che merita. Essere famoso senza aver mai scritto un libro significativo, senza aver mai girato un film che non destasse una noia micidiale e malgrado questo essersi conquistato una fama internazionale è sicuramente degno di una mente sveglia.
La sua fama inizia quando lascia Israele per recarsi a Parigi, visto che in patria i suoi film non se li filava nessuno, nemmeno gli aficionados del pacifismo estremo non reggevano alla noia mortale che emanavano. Il nostro Amos allora trova la parola giusta "esilio", che paga ancora oggi, il suo lasciare Israele non è una decisione come un'altra, no, è un 'esilio', come se fosse stato cacciato, parola magica che gli apre le porte della critica 'militante'. I suoi film, finalmente, approdano ai festival, nelle cinemateque, piovono le interviste, come questa su REPUBBLICA, nella quale Gitai anticipa la trama del suo ultimo film, "l’intero film è girato in un unico piano sequenza, senza tagli né interruzioni". L'eventuale spettatore è avvisato, si munisca di un paio di occhiali scuri, nel caso si addormentasse e non volesse essere visto. Per altri aspetti l'intervista è interessante, non potendo raccontare di sè storie interessanti, da qualche anno Amos Gitai cita i genitori, visto che le loro vite interessanti lo sono state davvero. E con quelle lustra la sua.
Amos Gitai
Ecco l'intervista:
TEL AVIV- È un affabulatore Amos Gitai, ogni cosa è un racconto, ogni storia un’immagine, mentre seduto sulla terrazza poco sopra il livello della strada del 'Cantina', uno dei suoi ristoranti favoriti di Tel Aviv, racconta la sua vita. L’aria della sera è tiepida, sono le sette, in un chiosco di fronte al ristorante sulla Rothschild, una delle più grandi e trafficate arterie della città, servono aperitivi e succo di melograno. Alle nove alla Cinématèque ci sarà una proiezione speciale di "Ana Arabia" il suo ultimo film che ha vinto il premio Bresson in concorso a Venezia, proiettato qui per alcuni amici che non l’hanno ancora visto.
«Ana Arabia è una donna ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, che ha sposato un uomo arabo da cui ha avuto cinque figli e venticinque nipoti» racconta Gitai, occhi castani intensi, una voce soave ma decisa. «È una storia vera, quella di una comunità unita e divisa in cui convivono arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani. Nel film frammenti di memorie ricostruiscono un’unica realtà in equilibrio fra differenze e conflitti. Volevo mostrare la compattezza paradossale di questo contesto impossibile. Per questo l’intero film è girato in un unico piano sequenza, senza tagli né interruzioni». Di fare il regista lo decise in una situazione drammatica. «Era il 1973 quando sono stato richiamato dall’esercito di Israele e catapultato da Berkeley, dove studiavo architettura, direttamente sul fronte della guerra del Kippur. Facevo parte delle unità di soccorso in elicottero. Ci stavamo dirigendo verso la Siria, quando un missile ci ha colpiti. Il co-pilota che mi stava a fianco, un ragazzo di vent’anni come me, è stato letteralmente decapitato. Noi siamo precipitati. Lì ho capito che volevo dedicarmi alla storia: capirla, raccontarla, condividerla. Ho iniziato a girare documentari in Super 8, e poi film, e a fare fotografie».
Le prime, quelle del 1973, sono scatti della guerra del Kippur: uniformi di soldati, fra cui la sua e quelle dei suoi compagni, appese a grucce, come vite in bilico. Sono immagini toccanti in mostra da Thaddaeus Ropac a Parigi, dove La Cinémathèque française ha inaugurato a febbraio una sua nuova retrospettiva (fino al 6 luglio), accompagnata da un libro, Amos Gitai Architecte de la mémoire (Gallimard), in cui il regista dialoga con il curatore Hans-Ulrich Obrist.
«Uno dei temi del libro, che poi è un aspetto fondamentale del mio lavoro, è trovare la giusta distanza per raccontare le situazioni. Se sei troppo dentro non le vedi più, così come se sei troppo lontano non le capisci. In genere i media diffondono immagini di Israele che sono stereotipi dei buoni e i cattivi. Ma non esistono solo angeli e bastardi in Israele. Ognuno è sia un angelo che un bastardo. Siamo pieni di contraddizioni. Il cinema mi permette di osservarle, e di raccontare una complessità storica non facile da capire». È un uomo diretto Gitai, come i suoi film.
L’ambizione a una convivenza pacifica fra culture, popoli e religioni è al centro del suo lavoro. Lo è nei film di guerra come Kippur, in quelli dedicati alla religione come Kadosh ambientato in una Gerusalemme chiusa nell’ortodossia religiosa, e nei più di ottanta fra film e documentari, a volte autobiografici, che l’hanno reso una star internazionale, ma anche una voce scomoda all’interno di Israele, per le sue posizioni pacifiste e laiche sviluppate a Berkeley, nella California della controcultura. Il dissenso verso Israele si manifesta in varie occasioni tanto che nel 1983, dopo il suo film Journal de Campagne, deve lasciare il paese per un esilio in Francia che dura fino al 1993. Ora la sua vita è fra Tel Aviv, Parigi e i festival cinematografici di tutto il mondo.
Ordina calamari e melanzane, e prima di riprendere a raccontare sistema il registratore su un bicchiere, in modo da avvicinare il microfono. «Vede? È sempre una questione d’equilibrio, sia in architettura che in politica» sorride mentre ripensa all’architettura, all’utopia di sua madre e suo padre e di un’intera generazione, quella di Ben Gurion, che sognavano di costruire un paese nuovo e diverso. È cresciuto con quest’idea istillata da genitori speciali: Efratia Gitai, ebrea russa nata in Israele, insegnante e intellettuale esperta di testi biblici con una cultura mitteleuropea, che ha lasciato le sue memorie in un libro uscito in Italia nel 2012 per Bompiani ( Storia di una famiglia ebrea) e Munio Weinraub, ebreo tedesco che ha cambiato il suo nome in Gitai, architetto del Bauhaus arrivato ad Haifa in seguito all’avvento del nazismo in Germania. «Era il 1905 quando mio nonno materno è partito in nave da Odessa per Alessandria d’Egitto, e da qui ha continuato il viaggio con i cammelli fino ad Haifa, con l’idea di fondare un nuovo Stato. Mia madre è nata qui, ha fatto la vita del kibbutz, ma a un certo punto sentendosi un po’ provinciale», scherza Gitai, «ha deciso di fare un viaggio in Europa. Era il 1929, è andata a Vienna, ha conosciuto Freud, visto i musei e gli studi degli artisti» racconta. «Dall’Austria è arrivata in Germania, e nel 1932, a Berlino ha sentito parlare Hitler a un comizio. Il che le ha fatto decidere di tornare immediatamente ad Haifa. Decisamente non era aria» ride amaro.
«Mio padre invece era un architetto. Quando è arrivato al Bauhaus, ovvero l’avanguardia della progettazione in Europa, Gropius gli ha detto che per progettare avrebbe dovuto imparare prima a fare il falegname, per capire come si costruisce un oggetto. L’anno dopo ha iniziato a lavorare con Mies van der Rohe. Ma quando le leggi razziali sono diventate più dure si è trasferito in Svizzera. E poi quando anche la Svizzera ha iniziato a rimandare gli ebrei tedeschi in Germania è partito per Haifa. È lì che si sono incontrati i miei. In un cinema. Avevano tutti e due quarantatré anni e un sogno, una visione: costruire un paese».
Pochi anni dopo, nel 1950, nasce Gitai che fa parte della prima generazione
dello Stato d’Israele. Munio Weinraub Gitai, a cui il MoMa di New York ha appena dedicato una mostra di disegni sull’architettura comunitaria del kibbutz, è stato fra i principali promotori di quella che è conosciuta come la città bianca di Tel Aviv, (oggi patrimonio dell’Unesco), ovvero quella vasta parte di città realizzata in stile Modernista come simbolo di una rinascita anche in senso etico e politico. «Mio padre mi diceva sempre che il Modernismo non è uno stile ma un concetto, che la forma distilla un’idea. È così sia per l’architettura che per il cinema, almeno lo è per miei film: c’è una relazione stretta fra forma e narrativa». La forma distilla la narrazione. Gli ambienti di Kadosh, per esempio, chiusi negli spazi angusti di Gerusalemme raccontano l’ortodossia radicale delle religioni. «Gerusalemme è una città simbolo, drammatica nella sua architettura, quasi astratta, di grande impatto emotivo. Il muro occidentale è forse uno dei monumenti più estremi della storia delle religioni, è solo una superficie».
Se in Kadosh la forma evoca chiusura, il road movie Free Zone racconta invece il desiderio di libertà, la ricerca della terra promessa in senso fisico e metaforico. «Nel film tre attrici di cultura e origini diverse attraversano insieme su un’auto zone e confini. Insieme è la parola chiave, la dimensione fondamentale, la condizione imprescindibile per la conquista della libertà in questo film come nella storia» precisa Gitai, che scandisce quest’idea di libertà in paesaggi e orizzonti, deserti e montagne, strade e città che scorrono per tutto il film, attraversando e ridisegnando confini e territori. E conclude: «La fine di questa storia sarà disegnata dalle prossime generazioni».
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