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Informazione Corretta Rassegna Stampa
25.04.2014 La negazione della storia ebraica è uno dei cavalli di battaglia della politica palestinese
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Informazione Corretta
Data: 25 aprile 2014
Pagina: 8
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «La negazione della storia ebraica è uno dei cavalli di battaglia della politica palestinese»

Riportiamo da SHALOM di questo mese, aprile 2014, a pagg. 8-9 l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "La negazione della storia ebraica è uno dei cavalli di battaglia della politica palestinese"

                 
Fiamma Nirenstein                 

Fra le cose meravigliose contenute nella Bibbia ce n'è una che lascia senza fiato: la verità storica che ci riporta senza errori a ciò che accadde veramente tanto tempo fa. Per esempio, i due libri di Samuele e i due libri dei Re sono storia di altissima qualità, fra le opere maggiori di tutta l'antichità, dice Paul Johnson nella sua "Storia degli ebrei". Essi incorporano materiali degli archivi reali, i canoni egizi dei faraoni, i limmu o liste eponime degli assiri, ci mettono in grado di formulare datazioni e localizzazioni precise. Così sappiamo che Saul di certo fu ucciso intorno al 1005 a.e.v. e che Davide regnò fino al 966 e Salomone morì nel 926 o nel 925.
Questi sono solo un paio di esempi di come la storia nazionale degli ebrei sia registrata luogo per luogo, data per data sin dagli inizi. Anche le descrizioni fisiche dei luoghi sono precise e se ne ritrovano tracce che escludono ogni dubbio sulla presenza ebraica prima di tutto a Gerusalemme da ben prima ancora della conquista di David, ma anche a Gaza, Ashkelon, Ashdod, Gath e a Dan, Betel, Betlemme, Hevron e molti altri luoghi nominati nei testi, e oggi certificati da un'archeologia molto ostacolata. Gerusalemme e il suo Tempio sono descritti con esattezza. Del Secondo tempio troviamo descrizioni precise in una quantità di letteratura ebraica, cristiana (Gesù al Tempio sembra di vederlo ancora oggi sulla scala su cui salì per il pellegrinaggio di tutti gli ebrei e le botteghe dove predicò ai mercanti), romana con Tacito, Giuseppe Flavio, e altri, e anche musulmana. E come tutti sanno una vera e propria fotografia della deportazione degli ebrei dal loro tempio con la Menorà sulle spalle la troviamo, prova irrefutabile e tragica, scolpita, nell'arco di Tito. Ma la memoria della presenza ebraica si è sempre rinnovata nei secoli perché in realtà gli ebrei, cacciati e perseguitati non hanno mai abbandonato i loro luoghi di origine né nella tradizione mantenuta nella diaspora con preghiere e riti, né nella realtà quotidiana. Il popolo ebraico non se n'è mai veramente andato dalla sua capitale come dicono le cronache storiche portando testimonianza incessante della sua passione.
Scrive il reverendo James Parker, un'autorità sul rapporto fra ebrei e non ebrei: "i loro autentici titoli di credito furono scritti nella memoria dell’eroica resistenza di coloro che mantennero la presenza ebraica sulla Terra attraverso i secoli e nonostante tutti i momenti di sconforto". Già nel IV secolo si possono individuare quaranta comunità ebraiche dal Negev al Giordano, la massima aspirazione era vivere a Gerusalemme da cui i romani avevano bandito gli ebrei, l’imperatrice Eudocia dette di nuovo agli ebrei il permesso di pregare sulle vestigia del Tempio, nel 614 gli ebrei combatterono con i persiani contro il potere bizantino, nel VII secolo gli arabi che entrano a Gerusalemme portano testimonianza di una forte presenza ebraica e così i crociati nell'XI secolo e via via nei secoli i visitatori della Terra Santa sempre raccontano delle comunità di ebrei che vivevano sulle rovine del loro tempio. Nel XIX secolo la Palestina intera era scarsamente e raramente abitata mentre Gerusalemme contava già una maggioranza ebraica.
Gli ebrei non se ne sono mai andati, nonostante persino la memoria sia stata ostacolata soprattutto a Gerusalemme. La capitale fu resa, in particolare da Arafat, un luogo di oblio e di negazione della realtà storica, benché essa fosse testimoniata persino dai libri musulmani che parlano delle Moschea di Al Aqsa ricordando, con orgoglio di conquistatori, che essa e la più famosa Cupola della Roccia sono costruite sui resti del Secondo Tempio costruito da Erode, beit al maqdis costruita sul beit ha miqdash, come dicono i libretti che descrivono per i turisti la Spianata delle moschee. I tentativi di espulsione degli ebrei da Gerusalemme non sono riusciti nei secoli: l'ultimo lo si è avuto, in forma sanguinosa non meno di tanti selvaggi tentativi precedenti, durante la seconda Intifada, quando ebbe luogo una strategia che univa il folle negazionismo sulla appartenenza storica degli ebrei a Israele a una caccia spietata sugli autobus, i ristoranti, i supermarket. Questa strategia disegnava una strada non casuale. Era una guerra di terrorismo e rifiuto della presenza ebraica e del suo diritto ad esistere, ed esso veniva proposto al mondo come colonialismo, come quello di Algeri contro i francesi, degno solo di essere cancellato con la violenza.
Ovvero, era la stessa negazione del diritto del popolo ebraico al suo Stato nella sua terra che oggi causa il rifiuto di Abu Mazen ad ammettere nell'ambito del processo di pace l'esistenza di uno "Stato degli ebrei" come indispensabilmente chiede il governo israeliano. Abu Mazen non esprime, quando giura che non lo riconoscerà mai, una sua politica personale, ma una lunga storia di rifiuto, il "rifiuto arabo", come è stato chiamato.Durante la discussione su un documento cui avevo presentato ben 17 emendamenti a Strasburgo, nell'ambito del Consiglio di Europa, ho visto passare una risoluzione in cui era riconosciuta la richiesta di "due stati". Ho proposto che venisse cambiata in "due stati per due popoli", ma la risposta è stata negativa e per ignoranza, per pigrizia, per conformismo, per paura dell'opinione dei palestinesi e dei turchi presenti come osservatori, è passata questa formula. Che cosa significa? Significa che due stati possono esser creati nell'ambito di quella strategia degli "stadi", che per altro era stata teorizzata da Feisal Husseini insieme alla tesi del processo di pace come "cavallo di Troia", che può utilmente fornire ai palestinesi uno stato nei confini del ‘67. Ma lo stato numero due, quello previsto dalla risoluzione, che vuole semplicemente "due stati" può essere qualunque cosa, uno stato per due popoli, uno stato dei suoi cittadini, uno stato che non sia quello del popolo ebraico ma quello pronto a sparire prima o poi perché le carte geografiche possano finalmente avere ragione quando, come oggi avviene, dai muri delle scuole e degli uffici palestinesi, mostrano la "Palestina" come uno stato che comprende tutta Israele, cancellata invece dalla mappa.
Abu Mazen ha fatto della negazione della storia ebraica, seguendo le tracce di Arafat, imbattibile nella propaganda, un suo importante cavallo di battaglia. Per lui la storia ebraica a Gerusalemme è "un mito fittizio"; Israele inventa la sua storia "con la forza bruta". I giornali palestinesi, ormai purtroppo ciecamente seguiti dalla stampa internazionale, parlano del "supposto tempio degli ebrei". Sa'eb Erakat ha spiegato a suo modo perché l'Autorità palestinese non intende accettare la richiesta di riconoscere lo "stato del popolo ebraico": "Questo negherebbe tutta la nostra narrativa" ha detto. E qual è questa narrativa? E' quella che conduce diritta all'impossibilità di un vero accordo di pace e si mette nella tradizione della costruzione fasulla di una storia in cui i palestinesi sono i padroni di casa, gli ebrei degli estranei usurpatori, autentici colonialisti, e persino agenti dell'imperialismo americano (fino ad oggi le manifestazioni che hanno chiesto a Abu Mazen di rispondere picche alle richieste di Obama accusano insieme di cospirazione americani e israeliani).

L'accettazione del diritto degli ebrei ad avere qui, su questa terra, il loro Stato, è l'unico vero sistema per disinnescare quel rifiuto che in questi anni ha creato a ondate la convinzione di poter rispondere negativamente a qualsiasi proposta di pace (Rabin, Barak, Olmert, Clinton, Obama) mantenendo un sostanziale atteggiamento di rifiuto e quindi di guerra fino alla vittoria. Se si legge il sempre istruttivo PMW di Itamar Marcus, vediamo innumerevoli prove di questo. Fra il riconoscimento di Israele nel 1993 secondo l'accordo di Oslo e il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere, l'abisso è tutto da riempire. Scrive Marcus che l'ambasciatore dell'OLP in India Adli Sadeq spiega: "Non esistono due palestinesi in disaccordo sul fatto che Israele esista, ma riconoscere il suo diritto di esistere è molto diverso" (Al Hayat al jadida, 26 novembre 2011).
I bambini palestinesi vengono educati a distinguere fra questi due concetti. I loro libri scolastici dicono che "La guerra del ‘48 finì nella catastrofe per cui la gang sionista rubò la Palestina e stabilì il cosiddetto Stato di Israele". I bambini di 8 anni imparano che tutta Israele è terra occupata dal 1948: "Non ci dimentichiamo mai che abbiamo una terra che è stata occupata nel 1948 e che un giorno ritornerà a noi". Quando Kerry, o chi altri, sostiene che è del tutto inutile insistere sul riconoscimento di uno Stato nazionale del popolo ebraico perché questo è già avvenuto con gli accordi di Oslo, deve prendere in considerazione che questi testi, questo modo di pensare, sono ben posteriori ad Oslo, e sono quello in cui è solidamente impiantata la "narrativa" di Sa'eb Erakat. Il futuro dipende da come si vede il diritto del popolo ebraico al suo Stato su questa terra. E' indispensabile quindi che la fine del conflitto sia vista nella prospettiva della conclusione della bugia per cui il popolo ebraico si è inventato la favola bella della sua origine mediorientale, mentre di fatto è costituito da un patchwork di nazionalità con la valigia pronta per tornare in Marocco, in Germania, in Italia, in Francia. Questa terra si chiama Israele da più di duemila anni nonostante tutti i nomi artificiosamente sovrappostigli, ed è la Terra del popolo ebraico, e finché questo fatto non verrà riconosciuto e assimilato anche dai giovani palestinesi, non c'è futuro per la pace.

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