Il grande romanzo americano secondo Bernard Malamud Recensione di Nadia Fusini
Testata: La Repubblica Data: 23 aprile 2014 Pagina: 49 Autore: Nadia Fusini Titolo: «Malamud. Ecce Homo americanus»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/04/2014, a pag. 49, l'articolo di Nadia Fusini dal titolo "Malamud. Ecce Homo americanus".
Nadia Fusini Bernard Malamud Il meridiano dedicato a Malamud
Se esiste un Jewish American Movement, chi è il suo maggior esponente? Saul Bellow, Philip Roth o Bernard Malamud? Non si tratta di decretare chi sia il più bravo dei tre, ma piuttosto di addentrarsi nella domanda metafisica per eccellenza: se e come si possa cogliere l’essenza di un’esperienza di parola, che s’è affermata nel mondo della letteratura grazie alla lingua americana e all’immaginazione ebraica. Perché non v’è dubbio che il grande romanzo americano del Novecento è stato fatto anche da Saul Bellow, da Philip Roth, da Bernard Malamud. Se ne volete una prova, leggete il primo dei due Meridiani dedicato a quest’ultimo per l’ottima cura di Paolo Simonetti. Qual è l’emozione- Malamud? Accade con Malamud che la lingua americana e la tradizione yiddish si coniugano sbocciando in una immaginazione narrativa tra le più straordinarie al mondo. In altri termini, in Malamud si dimostra come la coscienza puritana e quella ebraica copulino, dando prova di straordinaria vitalità e di coinvolgente emozione per l’universalità dei lettori, siano essi ebrei o gentili. Perché alla fine — questa la tesi di Malamud — l’ebreo è simbolo di tutti gli uomini, ebreo è l’uomo che soffre. Di qui la sua inquietante affermazione: «Tutti gli uomini sono ebrei, solo che non lo sanno...». I protagonisti dei romanzi di Malamud, o dei suoi racconti — meravigliosi in particolare quelli del Barile magico — sono uomini messi di fronte al dolore. Per lo più, che sia il fuoriclasse, il giovane di bottega, o l’uomo di Kiev, il protagonista desidera una nuova vita, una seconda chance. È questa l’avventura narrativa dell’ebreo askenazita che lascia i ghetti dell’est europeo; ed è anche il grande tema della letteratura americana, già inscritto nel Pilgrim’s Progress di Bunyan, capolavoro della letteratura puritana, dove l’autobiografia prende l’andamento allegorico di un viaggio dell’anima. Un viaggio spossante, perché per il puritano come per l’ebreo la naturale tendenza dell’uomo è al peccato, perché ebrei e puritani sono ossessionati dal peccato, perché un Dio tremendo, niente affatto conciliante, li giudica — un Dio che è quello di Giobbe. Non finisce però in tragedia; piuttosto, secondo una tradizione propria della letteratura americana delle origini tragico e comico si mescolano. È un gusto che i pellegrini puritani derivano dal realismo shakespeariano, a cui la tradizione yiddish aggiunge i toni speziati del folklore. L’ homo americanus mai si presenta con gli orpelli dell’eroe: è sempre “popolo”, e sempre anche un poco schlemiel, per usare categorie ebraiche — un anti-eroe in tutti i sensi. Ride di sé, mentre piange; lo protegge dalla dolorosa realtà un umorismo perverso, che nel contrasto tra ideale e reale si rivela come il più elaborato sistema di difesa a disposizione dell’uomo. È così in Malamud, il cui anti-eroe vive il contrasto tra l’altezza dei propri ideali e l’ignominia dei propri fallimenti: vorrebbe progredire, ma cozza contro la realtà. Continua ostinato a combattere, sempre più simile, piuttosto che a Prometeo, a un goffo Charlot che continua a non uscire dalla porta, a rompere i vetri della finestra... È qui che Malamud s’intona a un certo cinema americano con le sue gag indimenticabili. Giovani pieni di speranze e talento vanno dunque in cerca di una nuova vita, ma la ricerca fallisce, a meno che non prenda una trasformazione interiore, e non volga, come nel caso dell’ uomo di Kiev, in vera e propria metanoia, o conversione. Se tremendo, secondo Simone Weil, è il dolore che non trasforma, nel caso di Yakov Bok il miracolo accade: il dolore dà senso alla sua esistenza martoriata. In questo senso L’uomo di Kiev è un grande romanzo di redenzione. E sempre in questo senso in esso più che in altri brilla una scintilla messianica. A dimostrazione dell’aura che circonda il romanzo, nella stessa traduzione di Ida Omboni, L’uomo di Kiev viene ripubblicato da Minimum Fax, presentato dallo scrittore Alessandro Piperno. Un particolare interessante: nell’edizione del Meridiano alcuni titoli vengono «aggiustati», nella volontà di portarci più vicino all’originale. Per evidente impossibilità di evocare tutte le sfumature di quell’appellativo, the fixer, grazie al quale a Yakov Bok è attribuito il potere di “fissare” le cose, il titolo originale, bellissimo, in italiano resta L’uomo di Kiev . Anche così, nel fallimento di trasportare all’italiano quel termine, misuriamo la complessità della lezione del maestro Malamud, il cui dettato realistico sempre vira verso una dimensione allegorica. L’uomo di Kiev prende a tema un fatto di cronaca: l’ondata di antisemitismo che si scatenò contro Mendel Beilis, ebreo ucraino accusato dalle autorità zariste di aver ucciso un bambino per scopi rituali, assolto al processo. Significativamente, però, Malamud non ci porta fino al processo; ci racconta un calvario, durante il quale la libertà è conquistata giorno dopo giorno nella resistenza al dolore. Anche se nella costituzione americana la felicità è promessa, nella vita quotidiana essa è negata alla moltitudine dei suoi cittadini. «Se vivi soffri, « commenta Yakov. Ma certi soffrono di più; ecco che cosa significa «essere ebreo». «Lei è forse ebreo?», chiede Manischewitz a Alexander Levine ne L’angelo Levine . «Willingly», quello risponde: «Di buon grado»... È una risposta spiazzante, che induce nel primo un dubbio: «Non è più ebreo?». Si può forse smettere di «essere ebreo»? Adottare una flessibilità rispetto a quel dato dell’esistenza? O si tratta di imparare l’ amor fati? E in esso accogliere il singolare dolore di quell’uomo universale che è il personaggio di Malamud?
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