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La Repubblica Rassegna Stampa
15.04.2014 Israele, gli ebrei, la scrittura, la religione: il pensiero di Amos Oz
Intervista di Wlodek Goldkorn

Testata: La Repubblica
Data: 15 aprile 2014
Pagina: 49
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Non servono profeti per raccontare storie»
Riportiamo, da REPUBBLICA di oggi, 15/04/2014, a pag. 49, l'articolo di Wlodek Goldkorn dal titolo "Non servono profeti per raccontare storie".

                    
Wlodek Goldkorn            Amos Oz

Alla domanda cosa hanno guadagnato e cosa hanno perso gli ebrei dalla fondazione e dall'esistenza dello Stato d’Israele, Amos Oz risponde: «Ho appena consegnato al mio editore un romanzo dedicato a questo tema, ci ho lavorato cinque anni». Lo scrittore icona della moderna letteratura ebraica (in Italia i suoi libri sono pubblicati da Feltrinelli; di particolare bellezza Michael mio e Una storia di amore e di tenebra ) a maggio compirà 75 anni.
Tempo di bilanci e di cambiamenti. Pochi mesi fa ha lasciato Arad, la città nel deserto, dove tutti i giorni all’alba faceva una passeggiata tra i sassi e le sabbie e si è trasferito nella mondana ed effimera Tel Aviv. Così può stare vicino ai suoi quattro nipoti. Dal grande, luminoso soggiorno della nuova casa, in cima a un anonimo edificio di dodici piani, si intravede il mare.
E allora, cosa hanno guadagnato e cosa hanno perso gli ebrei dall’esistenza dello Stato d’Israele?
«Abbiamo guadagnato la libertà. Nella storia, gli ebrei hanno vissuto tempi cattivi, tempi cattivissimi e qualche volta, tempi buoni. Ma la loro sorte non dipendeva da loro. Oggi invece il mio destino è il risultato delle mie scelte: posso decidere se essere onesto o un delinquente, se agire con cautela o in modo impulsivo, se voglio o non voglio comprendere le lezioni della storia e trarne le giuste conclusioni».
E cosa hanno perso?
«Non possiamo più dirci irresponsabili. Ho quattro nipoti. Dovesse succedergli una disgrazia, ne sarò colpevole io».
Che uso fanno gli israeliani di questa libertà?
«In questo momento la usano con poca intelligenza. Gli ebrei hanno difficoltà a capire che l’uso della forza deve avare dei limiti. Per centinaia di anni, mio nonno e gli altri miei antenati che hanno vissuto in Russia, hanno conosciuto la forza solo in quanto persone bastonate. Ora, siamo noi ad avere il bastone in mano e siamo convinti che con questo bastone si può fare qualunque cosa».
Forse, il problema sta anche nella lingua. In ebraico c’è un nesso diretto, più diretto che in altre lingue, tra la parola e l’azione.
«La parola davar, che non è traducibile in altre lingue significa sia oggetto, sia parola, sia messaggio, sia azione e potrei continuare... In principio fu davar. Ma in fondo le cose sono più semplici: siamo ubriachi della forza che abbiamo. Siamo come un bambino cui hanno dato un nuovo giocattolo e non lo sa usare. Con la violenza puoi trasformare il nemico in uno schiavo, ma non in un amico, purtroppo, pochi qui lo capiscono».
A suo tempo lei ha mandato il suo romanzo Una storia di amore e di tenebra a Marwan Barghuti, leader palestinese imprigionato dagli israeliani. Perché?
«Volevo che sapesse di noi qualcosa di più».
Significa che lei crede nella forza della parola...
«Se non ci credessi sarei oggi un ingegnere ferroviario, era il mio sogno da bambino».
Perché ha deciso di diventare invece uno scrittore?
«Non l’ho deciso. Fin da quando avevo cinque anni, l’unica cosa che sapevo fare era narrare storie; ed era anche l’unico modo per far la corte alla ragazze. Probabilmente questa è anche la ragione per cui continuo a scrivere».
Lei dice che il compromesso, in politica e anche nella quotidianità familiare, è la chiave per vivere decentemente. Però la sua scrittura è radicale. Usa le parole in una maniera spesso brutale. Nella scrittura non esiste alcun limite?
«C’è un limite, dato dalla lingua. Ci sono cose per cui la lingua non è adeguata. La settimana scorsa, per due giorni ho cercato la parola giusta per nominare un profumo. Ma nessuna lingua comprende tutta la gamma di profumi. Quindi, alla fine ho adottato un compromesso, ho usato una parola che non corrispondeva esattamente alla mia sensazione».
Una volta disse che quando descrive un protagonista, ne condivide tutto: gioie, dolori, rabbie. Non ha mai paura di esprimere certi pensieri o sentimenti?
«No. Ma ho sempre paura di non essere preciso a sufficienza. E confesso che non sono capace di scrivere di persone che odio. Però vorrei raccontarle una storiella. Cinquant’anni fa, in Michael mio raccontavo la vita di una donna in prima persona, come se io fossi questa donna. Avevo 24 anni e pensavo di sapere tutto delle donne. Oggi non avrei osato fare una cosa simile. Oggi avrei detto alla protagonista Hannah Gonen: mi dispiace, questa cosa non la posso scrivere. Lei mi avrebbe risposto: sta zitto e scrivi. Le avrei detto: decido io, dato che sei tu la protagonista di un mio libro e non io il protagonista del tuo libro. Lei avrebbe risposto: sei tu lo scrittore, e allora tuo compito è narrare le mie sensazioni ed emozioni. Le avrei detto: insisto, io non lo posso fare, rivolgiti a qualcun altro».
Oggi avrebbe mandato Hannah a quel paese.
Però nei suoi libri racconta spesso la complicità tra le donne, basti pensare a Tra amici, o fa capire come le donne riescano, a differenza dei maschi, a prendere la vita per quel che è.
«Le racconto di mio nonno Alexander. Era un uomo che amava le donne ed era amato dalle donne. Era amato perché sapeva ascoltarle. In genere, quando la donna parla, il maschio prepara nella sua testa una risposta, oppure aspetta che smetta di parlare per passare dalle cose banali delle femmine alla storia importante che lui il maschio ha da raccontare. Il mondo è pieno di maschi che amano il sesso e odiano le donne. Io invece amo ambedue. E del resto, donne o maschi: mi alzo ogni mattina alle 5 e mi chiedo, cosa farei se fossi uno personaggio di miei libri. Questo è il mio lavoro».
C’è una dimensione profetica nella scrittura?
«Esiste una tradizione, nelle culture slave e in quella ebraica, per cui allo scrittore viene chiesto di indicare la strada. Si pretende che Tolstoij sia una specie di Gesù, Dostoevskij un profeta, Bialik, il nostro poeta nazionale, una guida morale. Ma non so se uno scrittore può farlo».
La domanda non riguardava lo status sociale dello scrittore, ma il suo rapporto con la spiritualità.
«Io so che ci sono cose che non posso capire né sapere. È una risposta modesta, ma è la mia risposta. L’intellettuale occidentale sa che il numero delle domande necessarie è superiore a quello delle risposte possibili. Ma in fondo lei mi sta chiedendo se Dio esiste. Se esistesse, certamente non sarebbe un religioso».
Esistono però dei valori per i quali sacrifichiamo la nostra vita.
«Sta confondendo ideologia con religione. Per quanto riguarda i valori sono un umanista».
Quindi un relativista, contrario all’idea dell’assoluto.
«Esatto».
Pensa che con i suoi romanzi possa cambiare il mondo?
«Sì. In genere un buon libro aiuta ad ascoltarsi l’un l’altro: la moglie il marito, il marito la moglie, il padre i figli, il fratello la sorella e così via. Leggere romanzi significa essere curiosi. E la curiosità è un atteggiamento morale. Una persona dotata di curiosità è migliore di una che ne è priva, perché si pone sempre la domanda su cosa provi l’altra persona. Sono convinto che un uomo curioso è un amante migliore di uno privo di interesse per il partner».
Esiste un rapporto tra scrittura e giustizia? In Una storia di amore e di tenebra lei restituisce i nomi agli sconfitti della storia, ai morti nella Shoah. Ma anche ridà vita a sua madre morta suicida...
«Quando scrivo un libro, invito i miei defunti a casa. Gli presento mia moglie e i miei figli. Gli offro un caffè e gli dico: ora parliamo di tutto ciò di cui non abbiamo parlato quando eravate vivi. Per esempio, di sentimenti. Ma quando abbiamo finito di parlare, andatevene; non voglio che abitiate a casa mia. Però qualche volta vi rinnoverò l’invito; sempre a condizione che poi potrò mostrarvi la porta. Questo è il modo con cui noi umani dobbiamo trattare i nostri morti».

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