Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/04/2014, a pag.X, con il titolo "Gli esuli del 1936 " il pezzo di Andrea Affaticati, un commento che definiamo di altissima bravura, come se ne leggono raramente. Complimenti.
Stephan Zweig Joseph Roth Andrea Affaticati
Nell’estate del 1936, chi voleva incontrare il fior fiore della Exilliteratur, la letteratura tedesca in esilio, doveva recarsi sulla Riviera belga, a Ostenda, e sedere a uno dei tavoli del Café Flore. Qui ogni giorno si potevano trovare Stefan Zweig, Joseph Roth, Egon Erwin Kisch, Arthur Koestler, Ernst Toller. Molti di loro, come Joseph Roth, se n’erano andati dalla Germania e dall’Austria il giorno stesso della presa del potere di Hitler. Altri, fiduciosi che il nazismo avrebbe avuto vita breve, avevano aspettato, tra questi Stefan Zweig. Nel frattempo vagavano però tutti tra Parigi, Nizza, Sanary-sur-Mer, Amsterdam, Marsiglia e Ostenda. Il Flore era diventato come un bastimento, come il Titanic: di giorno ognuno aveva il suo Stammtisch, il suo tavolino per lavorare, mentre alla sera si stava in gruppo, a chiacchierare, spettegolare, bere e innamorarsi. La parola d’ordine era “ottimismo”, godersi la spiaggia e il sole, fingendo di non accorgersi che l’Apocalisse era ormai imminente. Doveva essere un’estate all’insegna dell’amicizia come annuncia il titolo del libro di Volker Weidermann, appena pubblicato in Germania: “Ostende 1936, Sommer der Freundschaft” (Ostenda 1936, l’estate dell’amicizia, ed. Kiepenheuer & Witsch). L’esilio li aveva resi tutti compagni della stessa avventura-sventura. Anche se poi amici veri, fraterni, lo erano, a ben vedere solo Stefan Zweig e Joseph Roth. Zweig aveva assunto nei confronti di Roth, di dieci anni più giovane, un ruolo a tratti quasi paterno. Di Roth ammirava incondizionatamente il talento letterario, ciò però non gli impediva di registrare con crescente preoccupazione come l’amico fosse sempre più schiavo dell’alcol. Quell’estate insieme l’aveva voluta Roth, e Zweig aveva accettato nella speranza di riuscire questa volta nel miracolo di farlo smettere di bere. Una speranza che andò delusa. Roth alloggiava all’Hotel de la Couronne, mentre Zweig, che pagava il conto per entrambi (e anche le fatture del sarto e del calzolaio di Roth) aveva affittato una villa. Zweig allora lavorava agli ultimi due racconti del suo “Sternstunden der Menschheit” (“Momenti fatali. Quattordici miniature storiche”). E durante quell’estate avrebbe scritto anche “Il candelabro sepolto”: racconto per il quale l’aiuto di Roth, soprattutto la sua profonda conoscenza della religione ebraica, era stato fondamentale. Zweig quella vacanza l’aveva scelta per aiutare l’amico (già anni prima i due avevano passato un periodo insieme ad Antibes), ma a Ostenda era tornato anche nella speranza che quel luogo di villeggiatura gli infondesse lo stesso élan vitale che aveva provato ventidue anni prima. Era l’estate del ’14: era andato a Ostenda per conoscere il pittore James Ensor. E si trovava ancora lì quando, il 28 giugno, moriva in un attentato a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando. Zweig allora si era fatto prendere, come milioni di altre persone, dall’entusiasmo interventista. Lui stesso voleva andare a combattere, ma non contro la Russia, non sui campi di battaglia dell’Ucraina. Zweig invidiava alla Germania i suoi nemici, i francesi, gli inglesi. E non era certo l’unico viennese che voleva combattere a Verdun e non a Brody, cittadina della Galizia, allora sotto l’impero asburgico. Anche Joseph Roth aveva reagito alla notizia dell’attentato all’erede al trono di Francesco Giuseppe con grande eccitazione. Roth, in quell’estate del 1914, si stava concedendo una vacanza a casa, a Brody per l’appunto. Lui e l’amico Soma Morgenstern, dopo i fatti di Sarajevo, si erano trovati d’accordo nel ritenere inevitabile il conflitto. E questo per loro significava: combattere contro la Russia e vincere. Zweig e Roth, ai tempi, non si conoscevano ancora di persona. Il più giovane, il futuro autore del “Radetzkymarsch”, nutriva però già una vera e propria venerazione per Zweig. Per questo, non appena giunto a Vienna, nel 1913, Roth si era recato da Zweig. O meglio, era arrivato fin sotto il portone della sua abitazione, nella speranza di vedere il maestro anche solo di sfuggita. Allora non aveva avuto fortuna. E sarebbero passati altri tredici anni prima di un incontro fra i due. A fare da trait d’union era stato il saggio di Roth “Ebrei erranti”, nel quale si raccontava la storia degli ebrei dell’est Europa trattati dai confratelli “assimilati” come “ospiti” tutt’altro che graditi. Il libro aveva commosso Zweig e l’aveva indotto a scrivere una lettera a Roth. Nasceva così un sodalizio che sarebbe durato per tutta la vita (o almeno, per quel poco di vita che il destino avrebbe riservato ai due scrittori). Un’amicizia non senza alti e bassi, a volte messa a dura prova. Per esempio da questa lettera di Zweig a Roth: “Abbia finalmente il coraggio di riconoscere che, anche se è un poeta geniale, resterà sempre, dal punto di vista delle risorse materiali, un ebreo piccolo e squattrinato. Squattrinato come altri sette milioni di persone, condannato a vivere modestamente e in ristrettezze come nove decimi dell’umanità”. E Roth aveva immediatamente risposto: “Non è certo lei che mi deve spiegare cosa sia un piccolo e povero ebreo. E’ dal 1894 che lo sono, e me ne vanto. Sono un ebreo dell’est credente, della specie di Radziwillow. Lasci dunque perdere queste cose! Io sono povero. E lo sono da trent’anni”. Ma non si era arrivati alla rottura. Roth sapeva che non era una sorta di sadismo a spingere Zweig a sottolineare le differenze tra di loro. Zweig era figlio di un ricco commerciante di tessuti; era nato a Vienna, ed era membro a tutti gli effetti di quella comunità di ebrei benestanti e assimilati che davano lustro alla capitale. (E quanto lustro dessero, lo lascia intendere la storica frase “Decido io chi è un ebreo” pronunciata da Karl Lueger, sindaco di Vienna dal 1897 al 1910, antisemita convinto e ostinato, sempre che non ci fosse una qualche convenienza che lo convincesse a soprassedere). Uno dei motivi ricorrenti di litigio tra di loro era poi il rimprovero che Roth rivolgeva a Zweig di non aver lasciato subito dopo l’avvento di Hitler l’Austria e il suo editore tedesco. Roth lo accusava di avere più a cuore gli affari che i principi. Zweig non era peraltro solo preoccupato della salute dell’amico, temeva anche che l’abuso di alcol potesse danneggiare alla lunga anche la qualità della scrittura, la riuscita dei libri. Roth infatti era sempre più inaffidabile nella consegna, e per questo sempre più sotto pressione. Gli editori non erano disposti a dargli ulteriori anticipi. Con questo, non si può dire che Roth non lavorasse: aveva quasi finito “La confessione di un assassino”, e anche con “Il peso falso” era arrivato a buon punto; infine, nella primavera del 1936, aveva iniziato un terzo romanzo il cui soggetto era la sua terra natale, Brody, Lemberg, la Galizia. Come titolo aveva scelto “Fragole”. Ma anche se ogni pomeriggio si metteva a un tavolino del Flore a lavorare (detestava il sole, il mare, era venuto a Ostenda solo per stare con Zweig) gli era sempre più difficile giungere alla conclusione. E così si era messo a “farcire” i due lavori già più progrediti, con parti scritte per “Fragole”. Vicino a loro, ai tavolini del Flore, c’erano anche lo scrittore e reporter Egon Erwin Kisch e la moglie Gisela, raggiunti, quell’estate da un’amica di famiglia: la scrittrice Irmgard Keun. “L’unica ariana” tra quel gruppo di ebrei alla deriva, come aveva scritto la Keun stessa al suo amante ebreo, nel frattempo riparato negli Stati Uniti. Irmgard era una donna molto bella e soprattutto indipendente. Aveva appena abbandonato il marito che non comprendeva l’avversione della moglie per il nuovo regime. E aveva troncato anche con l’amante, il medico Arnold Strauss, dopo che questi dall’America le aveva scritto di essere disposto a lasciare la moglie per lei. Ecco la risposta che Irmgard gli aveva mandato all’inizio di giugno da Ostenda: “Ti voglio bene, ma non me ne frega assolutamente nulla di sposarti. Preferirei farmi pestare a sangue in un campo di concentramento, piuttosto che vivere tutta la mia vita sottomessa e grata al tuo fianco”. Risposta inequivocabile. Ma nonostante la schiettezza impietosa della donna, Strauss continuò ad amarla. Ogni volta che lei aveva bisogno le mandava soldi, e si prestava pure a diagnosi a distanza sullo stato di salute di Roth. Già perché Roth e Keun si erano nel frattempo messi insieme. Il loro era stato un colpo di fulmine. E poi erano gli unici single della compagnia. Zweig era arrivato con l’amante nonché segretaria Lotte Altmann. Ironia della sorte, Lotte gliel’aveva trovata la moglie, Friderike Zweig (un tempo anche lei amante dello scrittore), convinta di affiancargli una donna assolutamente innocua, totalmente priva di fascino. Lotte, forse, non aveva fascino, in compenso possedeva un’altra dote: sapeva ascoltare, si entusiasmava per qualsiasi idea o scritto di Zweig. Poi c’erano i Toller: Ernst, cofondatore della Räterepublik bavarese, nonché drammaturgo e rivoluzionario, e la giovanissima moglie Christiane Grautoff. Gli amici la chiamavano la “dea”, tanto restavano abbagliati dalla sua bellezza (e i pettegoli raccontavano la storia di un altro Zweig, lo scrittore tedesco Arnold, che pazzo d’amore, a Nizza, aveva cercato di entrare in casa passando da una finestra; lei, anni dopo, ridendo diceva che doveva essere stata una prova terribile per il poveretto, vista la sua pancia ingombrante e la sua fortissima miopia). Ernst e Christiane si erano conosciuti nel 1932, quando lui aveva 39 anni e lei appena 14, ma già lavorava con due grandi del teatro tedesco, Max Reinhardt e Fritz Kortner. Anche in questo caso, la passione era stata così forte da indurre Christiane a rinunciare al palcoscenico e al successo sicuro per seguire Ernst. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, così si legge nell’autobiografia “Il socialista e la dea”, pur di vedere negli occhi di lui accendersi un sorriso. Sì, perché Toller era una persona piuttosto problematica, e aveva anche un certo gusto per il macabro, tanto da non dimenticarsi mai, quando preparava la valigia, di inserirvi all’ultimo anche un cappio. Inoltre era morbosamente geloso della moglie, la cui bellezza affascinava ugualmente uomini e donne. Così aveva vietato a Christiane di frequentare i fratelli Mann. O meglio, Erika Mann, notoriamente lesbica, mentre con Klaus poteva parlare, visto che era un amico (e per di più omosessuale). Da sempre al centro di chiacchiere, pettegolezzi, invidie e malignità, la famiglia Mann fece molto parlare gli scrittori del Café Flore in quell’estate del 1936. La Pariser Tageszeitung, uno dei giornali in lingua tedesca per gli esuli stampato in Francia, aveva anticipato ampi stralci del romanzo “Mephisto” di Klaus Mann. E aggiungendo che era un libro basato interamente su fatti e persone reali, aveva subito rivelato che il vero protagonista era il grande attore Gustaf Gründgens, per un breve tempo anche marito di Erika. La cosa che fece molto divertire la tribù degli esiliati di Ostenda fu l’impacciata dichiarazione di Klaus Mann che, su sollecitazione dell’editore, fece pubblicare una lettera sul giornale in cui diceva che “Mephisto” non era Gründgens, ma una figura fittizia. Per Klaus, comunque, per le sue debolezze e la sua fragilità tutti avevano molta simpatia e comprensione. Di tutt’altro genere erano invece i sentimenti nei riguardi del padre, Thomas Mann. Di lui non si dimenticavano le ambiguità politiche degli anni Venti, e le esitazioni nel condannare il regime hitleriano. Ora, agli inizi di giugno del ’36, si era svolta a Bruxelles una conferenza per chiedere l’amnistia per i reati politici. Mann aveva fatto pervenire un testo nel quale sollecitava i governanti tedeschi a liberare i prigionieri politici. Al Flore tutti concordavano che quello di Mann era stato un discorso di grande caratura. Peccato per il finale “scandaloso”: Mann aveva infatti concluso dicendo che, liberando i prigionieri, il mondo avrebbe potuto constatare che la Germania non era un regime tirannico in cui regnava solo l’arbitrio. L’ebreo Roth non perdonava poi anche un’altra cosa: durante quella conferenza un giornalista aveva scritto che Mann era ebreo, e Mann si era affrettato a smentire. D’altro canto, concludeva Roth giocando con il doppio significato del cognome Mann (che vuol dire anche uomo, maschio): “Questo Mann ha indotto a un madornale equivoco. Per quanto, ai miei occhi è sempre stato solo un Es”. Per tutti loro, quell’estate doveva rappresentare un momento di normalità in un’esistenza che di normale non aveva pressoché più nulla. Ciò nonostante, era impossibile bandire totalmente la politica dalle loro discussioni. Kisch, il comunista militante, incontrando Roth all’inizio delle vacanze l’aveva salutato con questa battuta: “Senza corona? Senza ermellino? Che ti succede vecchio ebreo asburgico?”. E lui gli aveva risposto: “Molto divertente, vecchio ebreo bolscevico”. E sempre Kisch aveva trasformato uno dei tavolini del Flore in una specie di centro di arruolamento per andare a combattere in Spagna, in difesa della Repubblica e contro le truppe ribelli di Francisco Franco. Con lo stesso trasporto Kisch si lasciava però anche andare a parlare per ore del suo idolo, il pugile Max Schmeling (suo vicino di casa a Berlino) che proprio il 16 giugno, a New York, aveva messo al tappeto Joe Louis. Schmeling non era solo un campione, era anche un uomo tutto d’un pezzo, ripeteva ai commensali Kisch: non aveva ceduto alle pressioni dei nazisti che volevano si separasse dalla moglie ceca e dal manager ebreo. Peccato che ora, gli ribatteva l’uditorio un po’ snervato, Schmeling girava per gli Stati Uniti facendo pubblicità alle Olimpiadi che si sarebbero tenute in agosto a Berlino. E così si finiva di nuovo al punto di sempre: si finiva a parlare delle cose di casa loro, di come i nazisti, per esempio, stavano ripulendo le strade tedesche da segni troppo evidenti di antisemitismo e razzismo; ad ascoltare Toller che raccontava di come anche il giornale Der Stürmer, l’organo ufficiale dei nazisti, fosse stato sottoposto a censura, per emendarlo da qualsiasi espressione antisemita. Roth allora aveva notato sarcasticamente: “Vuol dire che gli toccherà vendere carta bianca”. Ma ormai nessuno aveva più tanta voglia di scherzare. Temevano che quel maquillage per le Olimpiadi avrebbe ingannato il mondo, perché il mondo, lo sapevano, era ben disposto a farsi ingannare. L’esilio forzato li aveva costretti a guardare le cose senza più illusioni, ma così finivano anche per dover constatare con dolore la loro impotenza. Un’impotenza che per molti di loro sarebbe diventata insopportabile. Avevano voluto credere che prima o poi sarebbero tornati a casa, sapevano però che più durava il viaggio e meno possibilità c’erano di un ritorno. Roth, aiutando l’amico Zweig nella conclusione del “Candelabro sepolto” gli aveva scritto: “L’estate stava finendo, era un’estate già molto vecchia, molto stanca… Un’estate che somigliava a un vecchio ebreo; un’estate che pareva lei stessa volersi riposare al campo santo”.
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