La figura eroica di Fabrizio Quattrocchi ucciso in Iraq dai terroristi islamisti e dal silenzio in Italia
Testata: La Repubblica Data: 09 aprile 2014 Pagina: 20 Autore: Massimo Calandri Titolo: «'Mio fratello Fabrizio ucciso due volte dai terroristi in Iraq e dalle speculazioni'»
Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/04/2014, a pag. 20, l'intervista di Massimo Calandri a Graziella Quattrocchi, dal titolo 'Mio fratello Fabrizio ucciso due volte dai terroristi in Iraq e dalle speculazioni'. In Italia la figura di Fabrizio Quattrocchi, rapito e ucciso dai terroristi islamisti, invece di essere onorata come avrebbe meritato, da prima è stata oggetto di una campagna di diffamazione, poi è stata dimenticata. Nemmeno le parole da lui pronunciate prima di morire ("Vi faccio vedere come muore un italiano"), dimostrazione di estremo coraggio e dignità, sono valse a vincere i pregiudizi ideologici legati all'opposizione alla guerra americana e occidentale all'Iraq di Saddam Hussein. Una vicenda, quella di Quattrocchi che richiama quella attuale dei marò italiani incarcerati in India. Anche nel loro caso i governi e la società italiana non hanno saputo prendere le parti di cittadini che avevano tutto il diritto di aspettarselo.
Ecco il testo.
Fabrizio Quattrocchi, poco prima di essere assassinato
Vorrei solo che lo ricordassero per quello che era. Un italiano vero, orgoglioso di esserlo». Dice Graziella Quattrocchi che lunedì sarà «un giorno speciale». Dieci anni che è morto Fabrizio, il fratello. Al cimitero di Staglieno verranno a ricordarlo anche Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, che non si ritrovavano insieme da quei giorni in Iraq. Dieci anni. Sembra un secolo e sembra ieri, rimanda una scritta accanto alla statua che gli hanno dedicato i familiari. Alata, senza testa né braccia — una copia della Nike di Samotracia — eppure vittoriosa. Graziella non ha bisogno di spostare indietro le lancette del tempo. Per lei — e per la madre, le tre figlie, gli altri due fratelli — tutto da allora è rimasto fermo. Era il 14 aprile 2004 quando l’hanno ucciso. «Lo abbiamo saputo dalla televisione. Dicono che la Farnesina ci avesse già avvertito, non è vero. Sono stati i giornalisti. Molto spettacolare. Senza pietà. Crudele». Il giorno prima il rapimento a Bagdad delle 4 guardie del corpo. Le Falangi Verdi di Maometto chiedevano il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq. «Il 12 aprile era Pasqua, Fabrizio ha chiamato quattro volte. Tranquillo come sempre. Ma ripeteva di avere una gran voglia di tornare a casa. Ancora una settimana o due al massimo, ha detto. Passa un giorno, telefona mio fratello Davide: in tivù dicono che hanno sequestrato quattro italiani in Iraq, c’è anche Fabrizio. Impossibile, ho risposto». Perché? «Perché — ho pensato — ce l’avrebbe detto, che era laggiù. Il 3 gennaio era partito da Genova, non ha detto la meta. Pensavo fosse in Kosovo. In un Paese in guerra no, mai. Forse neppure lui sapeva dove l’avrebbero mandato. Forse era per quello, che sperava di rientrare presto. Ma non voleva spaventarci». In ginocchio, pietre e polvere, le mani legate e una kefiah a coprirgli il volto. «Posso levarla? Vi faccio vedere come muore un italiano. Posso?». Due spari. Quante volte ha visto quel filmato? «Una. Era lui, era Fabrizio. Un mese dopo avrebbe compiuto 36 anni. Sapeva che lo avrebbero ucciso, che l’Italia non avrebbe mai ritirato i soldati. Che era finita. Però voleva guardare in faccia i suoi carnefici. Un ragazzo leale che amava il suo Paese, fiero della sua italianità. Tutto qui, se vi basta». Mercenario, ha detto qualcuno. «Lo hanno ucciso due volte. Le speculazioni. La politica. Noi non abbiamo chiesto nulla. Non siamo mai andati in televisione, tranne quando hanno trasmesso il video dell’esecuzione. Mai un’intervista, se non parole rubate con una telefonata e poi travisate. C’è gente che dopo una tragedia si mette in mostra, si lega a questo o quel partito, s’assicura almeno uno stipendio. Noi no. Vogliamo essere lasciati in pace, niente strumentalizzazioni. La dignità. Quella di Fabrizio». “Allah è grande”, gridavano prima di premere il grilletto. «Credo esista un Dio universale, ed evocandolo non si possono giustificare queste atrocità. Tanto dolore in nome della religione non ha senso. Penso che dieci anni fa fossimo tutti impreparati, non si poteva fare di più. La sua è stata una morte inutile, non è cambiato nulla. Ho pianto per la scomparsa di Baldoni. L’altro giorno hanno rapito due missionari italiani e ho provato come un senso di stanchezza infinita». Nella casa al primo piano del quartiere di San Martino c’è un armadio a specchio che straripa di lettere e telegrammi per Fabrizio. Sul mobile in sala, alcune sue fotografie al mare: sempre sorridente. «Avevamo un panificio, poi mio padre è morto e Fabrizio in negozio soffriva d’allergia, così abbiamo venduto. Era campione di taekwondo, forte ed equilibrato. Ha scelto di occuparsi di sicurezza, gli è venuto facile: infondeva tranquillità. Serio, semplice. Per noi, così uniti, un capofamiglia. I primi tre anni è stato come se fossimo morti con lui. Lo strazio del ritrovamento dei resti, il dolore quotidiano. Se siamo andati avanti è per le cose che ci ha lasciato. I ricordi che posano sulla sua tomba, la medaglia d’oro al valor civile. Per le lettere che ci sono arrivate in questi anni: il re di Giordania, il sindaco di New York, tanti italo-americani che hanno scritto di essersi finalmente sentiti fieri del loro Paese». Orgogliosi di essere italiani. Non è facile, di questi tempi. «Fabrizio lo era, e credo che a modo suo abbia scritto un pezzo di storia d’Italia. Vorrei solo che tutti capissero la persona che era. La sua dignità, la coerenza. Vorrei che avesse un posto giusto nel ricordo di tutti. Quello di un vero italiano».