Prosecuzione della guerra con altri mezzi Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici, a destra, la palestina di Abu Mazen al posto di Israele, cancellato dalla mappa
come probabilmente sapete, anche se i giornali italiani ne hanno parlato poco e male, le trattative fra Autorità Palestinese e Israele sono in crisi profonda. Vi riassumo i fatti. Il termine stabilito un anno fa per la loro conclusione è il 29 aprile, ma è da novembre che le due parti non si incontrano e non vi è accordo praticamente su nulla. Il segretario di stato americano Kerry ha rinunciato prima a ottenere un accordo di pace, il suo obiettivo iniziale risultato chiaramente impossibile; poi a un accordo quadro per i futuri negoziati, risultato impossibile anch'esso; infine a fare una proposta non vincolante di questo accordo quadro, perché non vi erano gli spazi neppure per questo. Allora ha cercato di ottenere un prolungamento delle trattative, che i palestinesi hanno rifiutato. Quando è emerso con tutta chiarezza, anche da dichiarazioni del “presidente” (giunto al decimo anno di un mandato di quattro) Abbas, che il solo obiettivo dei negoziati, dal punto di vista dell'AP era di ottenere la liberazione di un certo numero di terroristi processati e condannati per assassinio e detenuti da Israele – l'incredibile prezzo preteso dall'Autorità Palestinese per partecipare ai colloqui – Israele ha deciso di posticipare l'ultima rata di questo prezzo, ritenendo che esso valesse per trattative vere e che dunque se non si era concluso nulla l'AP dovesse accettarne la prosecuzione. Abbas ha risposto facendo domanda di adesione a una quindicina di agenzie e trattati dell'Onu, il che andava contro sia al trattato di Oslo, che proibisce alle parti di cercare riconoscimenti internazionali fino a che non si fosse concluso il processo di pace, sia ai patti specifici di questa trattative, che proibivano domande del genere prima della conclusione. Israele allora ha annullato la scarcerazione dei prigionieri. Marwan Barghouti
Infine l'Autorità Palestinese ha indicato le proprie condizioni per tornare alle trattative in sei condizioni, fra cui la liberazione di 1200 detenuti (dieci volte tanto quelli concordati per la prima fase, includendo anche capi terroristi pericolosissimi come Barghouti, il comandante militare dell'ondata di attentati del 2000-2002, la cosiddetta seconda intifada), il blocco di qualunque attività edilizia nelle comunità ebraiche di Giudea e Samaria e di Gerusalemme, un lettera ufficiale che riconoscesse i “confini del '67” come territorio palestinese, il trasferimento immediato all'AP della sovranità sull'area che secondo i trattati di Oslo è controllata da Israele fino all'accordo finale e che è l'area contesa, includendo la valle del Giordano e i territori dove sorgono le città e i villaggi israeliani ma anche tutta “Gerusalemme Est” inclusa la citta vecchia, il ritorno dei detenuti espulsi in Europa durante la seconda Intifada, in particolare gli occupanti della basilica della Natività a Gerusalemme. Insomma, per trattare con Israele, l'Autorità Palestinese vuole ben di più di quel che anche l'ala più “pacifista” del governo israeliano sia disposta a concedere come risultato finale. Il tutto, beninteso, in cambio di niente. Perché l'Autorità Palestinese, e dietro di essa la Lega araba, ha chiarito con forza il suo rifiuto definitivo delle richieste israeliane fondamentali, cioè il riconoscimento di Israele come stato della nazione ebraica, la dichiarazione di “fine vertenza” come risultato delle trattative, la rinuncia a inondare Israele di “profughi”, la smilitarizzazione effettiva e controllabile del futuro stato, per evitare che diventi una nuova Gaza. John Kerry
Sono condizioni chiaramente inaccettabili. E' possibile anche se improbabile, che gli americani trovino il modo di “salvare la trattativa”, usando il potere che hanno come finanziatori dell'Autorità Palestinese e come unico membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu a essersi opposto finora a sanzioni contro Israele. Ma è chiaro che si tratta di una commedia, di un rito autoreferenziale che serve soprattutto a non far perdere la faccia a Obame e a Kerry, e che non vi è possibilità di pace in questo momento e per molti anni ancora. La ragione è molto semplice. I palestinesi e gli arabi in generale non sono particolarmente interessati ad avere un loro stato in cui vivere in pace. Gli stati nazionali non fanno parte della loro cultura politica, che è tribale o panaraba o addirittura panislamica; del resto non esiste una tribù palestinese, sul territorio fra il Giordano e il mare si addensano popolazioni molto diverse fra loro, arabi di provenienza siriana ed egiziana, clan dell'Arabia, beduini e contadini e strati urbanizzati, insomma una confusione unita solo per il caso di condividere una condizione comune. Questa condizione è di essere, volenti o nolenti, l'avanguardia delle guerra araba per la distruzione di Israele, come nove secoli fa vi fu una guerra, quella volta vittoriosa, per cacciare i crociati dalla sponda sud del Mediterraneo. Se i “palestinesi” avessero voluto il loro stato, avrebbero potuto dire di sì alla spartizione proposta dalla Gran Bretagna negli anni trenta del secolo scorso, a quella dell'assemblea delle Nazioni Unite nel '47, alle trattative proposte da Israele nel '67, alla prosecuzione degli accordi di Oslo negli anni Novanta, alle proposte di Barak con Clinton nel '99-2000, ai piani offerti da Olmert nel 2006 e anche questa volta avrebbero potuto trattare nel merito. Naturalmente però quando si conclude una pace con qualcuno, lo si accetta per quel che è, si rinuncia a ulteriori rivendicazioni, ci si accontenta di quel che si è ottenuto, in particolare ci si astiene da atteggiamenti ostili e da atti di guerra. I palestinesi non intendono assolutamente fare questo. Dopo aver ottenuto con Oslo una base nel territorio controllato da Israele, hanno chiesto poi tutta la Giudea e Samaria (di questo si discute), ma già dicono con chiarezza di non volersi accontentare dell'annullamento della sconfitta del '67, di voler tornare prima al piano di spartizione dell'Onu del '47, che respinsero allora ma oggi dimezzerebbe il territorio dello stato di Israele e infine al controllo totale del territorio fino al Mar Mediterraneo, ricacciando in mare “gli ebrei” (o peggio). Hanno dichiarato infatti con chiarezza che nessun ebreo sarebbe ammesso a restare nei territori da loro controllati (è già così nelle zone amministrate dall'AP, fu così quando nel '49 Egitto e Giordania espulsero tutti gli ebrei dai territori occupati da loro). Insomma per loro la trattativa è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Sconfitti i grandi eserciti con cui avevano cercato di “sterminare” gli ebrei fra il '47 e il '73, neutralizzato il terrorismo aereo degli anni '70 e le operazioni suicide contro la popolazione civile dei due decenni successivi, oggi credono che il territorio migliore per proseguire la guerra sia quello politico, diplomatico, legale. Il loro obiettivo resta lo stesso, non una convivenza pacifica con Israele secondo qualunque confine e sotto qualunque condizione, ma la distruzione di Israele, la “cacciata degli ebrei”, la riconquista araba e musulmana di terre che considerano patrimonio islamico indisponibile a chiunque non sia dei loro. Almeno per un po' dunque la guerra si sposterà sul piano della propaganda, dei media, della diplomazia, delle organizzazioni internazionali, dei boicottaggi, delle aule legali. Ma sarà sempre guerra, il cui obiettivo sarà sempre una pulizia etnica genocida, la distruzione di un paese e di un popolo. Questo è ciò che americani ed europei non vogliono vedere: mentre credono di “aiutare il più debole” in realtà appoggiano un progetto di genocidio. Non bisogna stancarsi di ripeterlo, di cercare di farlo capire, di schierarsi con Israele nella nuova tappa di una guerra che si svolgerà soprattutto nelle menti e nei cuori dei cittadini dell'Europa e degli Stati Uniti.
Ugo Volli |