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Ugo Volli
Cartoline
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Ritorno 07/04/2014

  Ritorno
Cartoline da Israele, di Ugo Volli

Cari amici,

per chi non ha deciso di andarci a vivere, il viaggio in Israele prima o poi finisce proprio dove era incominciato, all'aeroporto Ben Gurion. Con le nuove tecnologie i controlli di sicurezza per i passeggeri in uscita sono diventati più veloci e meno invasivi, ma restano comunque eccezionali rispetto agli standard di altri paesi: segno evidente che il problema che questi controlli intendono (e da moltissimi anni riescono) a prevenire è il terrorismo sugli aerei e non certo il dissenso politico. Dopo il colloquio con gli addetti alla sicurezza e i vari filtri per l'uscita arriva una sosta più o meno lunga nel grande centro commerciale che occupa l'area delle partenze; infine si decolla lanciando un  ultimo sguardo veloce ai grattacieli di Tel Aviv, il segno forte di modernità che il paese ripete ai suoi visitatori all'arrivo e alla partenza.


 La hall dell'aereoporto Ben Gurion


Tel Aviv

E' un segnale che corrisponde indubbiamente a uno stato di fatto. L'economia israeliana continua a fare meglio di tutte quelle occidentali, con un tasso di disoccupazione sceso quest'anno al minimo fisiologico del sei per cento e una crescita del quattro per cento: molto, ma molto meglio di Germania e Stati Uniti, per non parlare della disgraziata condizione italiana.  Il sistema dell'università, della ricerca pura e dell'innovazione industriale continua a funzionare a pieno ritmo, i Premi Nobel, i brevetti, la vendita di start up alle grandi industrie internazionali sono a livelli di record. Il turismo ha raggiunto numeri straordinari, l'agricoltura continua a sanare fette di deserto e a inventare nuovi prodotti, anche i problemi prodotti dall'evoluzione del clima, quest'anno con un inverno secco ai limiti della carestia, sono  affrontati con successo con i mezzi della tecnica: la desalinizzazione e il riciclo dell'acqua sembrano ormai capaci di integrare le precipitazioni mancanti; lo sfruttamento dell'energia solare cresce molto velocemente; la pianificazione urbanistica governa una crescita del numero e della qualità dei villaggi e delle città che ormai nel centro del paese costituiscono un'unica metropoli pulsante e piena di vita.

Tutto bene, dunque? Nessun problema, solo la prospettiva di uno sviluppo felice, temperato dalla passione umanistica e dallo spirito religioso, che magari in forme antagoniste, hanno comunque un peso in Israele che è difficile trovare altrove? Certamente le questioni aperte non mancano in una società plurale e fortemente differenziata come quella israeliana. I problemi che la attraversano sono ben visibili sui media e anche per strada. In un parco del centro di Tel Aviv, per esempio, sono ancora erette alcune delle tende delle manifestazioni per la casa e la giustizia sociale che fecero così tanto rumore un paio d'anni fa. Il problema dell'equa distribuzione della ricchezza prodotta dal progresso della società israeliana è ancora presente, sebbene la miseria che si vede sia molto rara e certamente inferiore a quella europea. Vi sono poi immigrati clandestini che vorrebbero asilo e che Israele deve allontanare per non diventare la meta di un'ondata migratoria che non sarebbe in grado di reggere, e questo problema non manca di suscitare polemiche.


Ebrei ortodossi a Gerusalemme
 

Centrale  è la grande questione della separazione che rispetto allo stato praticano e sentono gli strati più religiosi (o forse meglio: gli strati religiosi più tradizionalisti) della società, un dieci per cento della popolazione ben identificata e separata dal resto per abitudini di vita, costumi, ethos, scopi nella vita, economia. Lo sforzo del paese è quella di integrare questa minoranza senza distruggerne la natura, di portarla a contatto con la modernità senza obbligarla a rinunciare ai suoi valori: a questo mirano i  provvedimenti sul servizio militare, da cui i giovani charedim (i “timorati”, come si chiamano) erano finora esentati per un'antica concessione di Ben Gurion. Il servizio militare, oltre a garantire la vita di un paese che continua ad essere assediato da paesi ostili e terroristi, è uno straordinario fattore di integrazione sociale e di crescita culturale e tecnologica. Vi è infine il doloroso problema della corruzione della classe dirigente, che ha portato a indagini su uomini di stato come Sharon, Barack, Liberman, e ha condotto nei giorni scorsi alla condanna di Ehud Olmert: una ferita gravissima nella vita politica israeliana, che ha incrinato la fiducia degli elettori nei loro rappresentanti a livelli paragonabili a quelli italiani.


John Kerry

E' di questi temi di politica interna che il paese discute appassionatamente e su cui si divide, anche se i media europei non ci badano molto. Il pubblico israeliano è cioè concentrato prevalentemente su come garantire il proseguimento del suo sviluppo politico economico e sociale. Considera invece con scetticismo e un certo fastidio e certamente con pochissima speranza le ennesime trattative di pace organizzate dall'amministrazione americana. E però il loro collasso è certamente la novità più importante dell'ultima settimana. Come certamente sapete, da tempo era chiaro che le richieste dell'Autorità Palestinese (“confini del '67”, “ritorno dei profughi”, distruzione delle comunità ebraiche oltre “i confini del '67”) erano del tutto incompatibili con la sicurezza di Israele. Kerry ha rinviato di mese in mese la presentazione di quello che inizialmente doveva essere un trattato di pace, poi un accordo quadro, infine un quadro negoziale non vincolante, e ha anche cambiato più volte opinione sui problemi fondamentali, come il pubblico riconoscimento di Israele come stato della nazione ebraica, richiesto da Netanyahu come primo contenuto di una pace vera fra i due popoli – un riconoscimento che prima il segretario di stato americano ha sostenuto e poi, dopo il rifiuto palestinese, ha contrastato. E' noto che da novembre le due parti non si sono incontrate più ma hanno parlato solo coi negoziatori americani. Insomma, la trattativa non c'era più, sostituita da patetici tentativi di “salvataggio” o forse di copertura di fronte all'opinione pubblica da parte americana. I palestinesi avevano detto apertamente che non dichiaravano la fine della recita solo per ottenere il rilascio dei terroristi colpevoli di crimini sanguinosi detenuti (dopo regolari processi) da Israele e che non intendevano affatto prolungare le trattative come voleva Kerry per ottenere qualche accordo. Israele ha reagito rinviando la liberazione dell'ultimo gruppetto di terroristi e quando in risposta l'AP ha fatto quelle mosse internazionali (la richiesta di adesione a diverse agenzie dell'Onu) che essa si era impegnata a non fare durante le trattative, ha annullato del tutto la scarcerazione. Nell'ultima settimana questo quadro un po' grottesco è dunque collassato del tutto. Ne deriva una situazione complessa, che pone problemi nuovi alla dirigenza israeliana e agli amici di Israele nel mondo. Ve ne parlerò domani. Per ora sto seduto nell'aereo che mi riporta in Italia e penso al profilo di quella costa che ormai è dietro alle spalle, e ai boschi, alle città, alle persone splendide che mi sono lasciato dietro, alle emozioni alle speranze e alle preoccupazioni, ma soprattutto alla nostalgia che ogni visita in Israele mi lascia nel cuore



Ugo Volli

 


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