In mostra New York l'arte definita 'degenerata' dai nazisti che demonizzarono le avanguardie e la modernità
Testata: La Repubblica Data: 06 aprile 2014 Pagina: 46 Autore: Anna Ottani Cavina Titolo: «Arte degenerata. La demonizzazione del Moderno nel Terzo Reich»
Riportiamo da La REPUBBLICA di oggi, 06/04/2014, a pag. 46, l'articolo di Anna Ottani Cavina dal titolo "Arte degenerata. La demonizzazione del Moderno nel Terzo Reich".
Anna Ottani Cavina
1937, Gobbels visita la mostra "Arte degenerata"
NEW YORK Abbiamo avuto il futurismo, l’espressionismo, il cubismo, perfino il dadaismo. Può la pazzia andare oltre?”. In visita alla mostra sull’arte ‘degenerata’ apertasi a Monaco alla Haus der Kunstil 9 dicembre 1937, il Führer brutalmente dava voce alla filosofia culturale del Terzo Reich. Sono passati tanti anni. La storia di quella prima esposizione itinerante (idea non banale di Göbbels: Monaco, Berlino, Lipsia, Vienna, Francoforte… dodici grandi città; 65 l’avevano richiesta!) è stata rivisitata molte volte, anche nel successo paradossale e non voluto (2.600.000 presenze), che impose all’attenzione dell’Europa il piatto forte tedescoespressionista nel menù delle avanguardie, messo a punto quasi esclusivamente nell’alta cucina di Parigi. Oggi a New York, alla Neue Galerie sulla quinta strada, Degenerate Art: The Attack on Modern Art in Nazi Germany, 1937( fino al 30 giugno) ricostruisce quella demonizzazione del Moderno che portò alla confisca in Germania di oltre 22.000 opere d’arte, 5000 i dipinti. Stipate, sbilenche, appese a delle corde secondo una drammaturgia espositiva che tendeva a creare delle “camere degli orrori” in sequenza, 600 di quelle opere furono messe alla gogna alla Haus der Kunst nel 1937, in contrasto programmatico con la pittura “ariana” e accademica di Adolf Ziegler che, ugualmente a Monaco, veniva celebrata nelle sale neoclassiche della Haus der Deutsche Kunst, quella sì la vera Casa dell’Arte Germanica. La capitolazione culturale di quei giorni è impressa da sempre nella memoria di noi europei, costretti a riavvolgere il nastro della storia che ci ha coinvolto molto da vicino, quando la separazione allora introdotta fra arte legittimata dallo Stato e arte “degenerata” finì per aprire la strada a distinzioni perverse in tema di religione, pensiero, libertà, infine diritto alla vita. A New York, dove massima è la concentrazione dei survivers alle stragi naziste, la mostra ha un impatto ancor più emozionale. Non è il riscatto (ormai incontestato) dell’espressionismo tedesco a colpire le fila dei visitatori, sono i cinque minuti di proiezione del cortometraggio girato da un fotografo americano nel 1937. Prestato dall’archivio ebraico di Steven Spielberg, questo frammento è il solo rimasto a documentare l’arroganza dei despoti in visita alla Entartete Kunst, quei gerarchi di piombo e quella gente silenziosa e sgomenta che si fa strada fra le sculture ammassate di Ludwig Gies e di Ernst Barlach. Prima che sull’Europa scenda la notte. Nell’accrochage caotico e ostile del 1937, passano Klee, Kandinsky, Chagall, Otto Dix, Nolde, Schwitters, Max Ernst, Kokoschka, Beckmann, Grosz, Picasso… in nome di un’azione “educativa” e di censura. Censura di cosa esattamente? La risposta è che le avanguardie non avevano soltanto ridefinito in modo radicale le forme dell’arte. Avevano anche introdotto un’idea soggettiva e assoluta di libertà. E questo soggettivismo, che si era espresso con linguaggi estremi e destabilizzanti, appariva inconciliabile e sovversivo rispetto al progetto nazista di ordine e comunità controllata. In questa chiave, decisamente politica e di risarcimento alla tragedia ebraica, è stata realizzata questa mostra nel tempio della civiltà austro-tedesca a New York, quella Neue Galeriepiena di charme, diventata, con il suo molto viennese Café Sabarsky, uno dei luoghi del cuore della città, monito perenne nei confronti dell’ideologia hitleriana. Due gigantografie si affrontano all’ingresso: la fila dei visitatori a Berlino(1938)perlamostra“Entartete Kunst” e la fila senza fine degli ebrei smarriti, scaricati come bestie alla stazione di Auschwitz-Birkenau, anno 1944. Come dire che esistono delle relazioni e quello che era accaduto nell’ambito della cultura non poteva non essere presagio di rovine devastanti. Molte sono le ragioni che accendono oggi la curiosità della gente attonita davanti ai dipinti, alle sculture, alle fotografie, alle corni- ci simbolicamente vuote che, nell’assenza, stanno ad evocare le opere perdute. C’è naturalmente il film di George Clooney, apologia inchiavewesterndei Monuments Men, ma c’è soprattutto l’affare Cornelius Gurlitt, il misterioso recente ritrovamento a Monaco di un bottino di 1406 opere trafugate dai nazisti (Matisse, Picasso, Beckmann, Klee, Kokoschaka …). Ancora più inquietante perché Gurlitt è ebreo, figlio di un potente mercante di Dresda, che in prima linea, nella cerchia diGöbbels,avevapilotatoisequestridell’arte “degenerata” spogliando le collezioni ebraicheinGermania.L’ombralungadelcollaborazionismo tocca del resto anche la nonresistenza al potere del pittore Emil Nolde, anche se si deve ogni volta ricordare che la linea di demarcazione, nell’inferno del Reich, passava attraverso compromessi non negoziabili: per non soccombere, Ernst Ludwig Kirchner nel 1938 decise di spararsi una pallottola alla testa. Questo cercava di spiegare in anni recenti la scrittrice Christa Wolf, anche lei coinvolta nella ragnatela di spie della Stasi, i servizi segreti della DDR. Citando, a sua difesa, il verso di un grande romantico tedesco, Friedrich Hölderlin:“Was bleibt …quello che resta,alla fine, è quello che il poeta ha creato”. Una scheggia di luce alle porte della notte.