Gerusalemme
Cartoline da Israele, di Ugo Volli
A sinistra, una veduta del Kotel
Gerusalemme
Non c'è vero viaggio in Israele che non culmini a Gerusalemme. Che sia un viaggio di turismo, di politica, di studio o di fede, non può non puntare a dove è il cuore del paese, il suo centro vitale. Noi quest'anno siamo arrivati a Gerusalemme venendo dal Golan (ne riparleremo, forse) e passando dalla valle del Giordano. Gerusalemme ci si è offerta dunque tutta di un colpo, dopo la dolcezza del paesaggio del lago, dopo i campi che spuntano dalla sabbia, dopo i villaggi e gli insediamenti, soprattutto dopo le austere forme minerali ocra del deserto di Giudea, all'uscita del tunnel sotto il Monte degli ulivi: una gloriosa sovrabbondanza di forme, di resti storici, di cupole, di traffico, di umanità, che si dà tutta assieme e colpisce il viaggiatore, lo lascia senza fiato, rende necessaria una sosta di riflessione, un tempo di assorbimento.
Ma questa sensazione abbacinante non dipende solo dal brusco passaggio dal deserto alla città, dal buio alla luce, dalla carenza di forme alla loro sovrabbondanza – ciò che fa percepire il passaggio del tunnel come un'illuminazione, un miracolo personale. Comunque si arrivi a Gerusalemme, per esempio per la via più comune, l'autostrada che si arrampica per la gola nelle montagne conquistata con tanto sangue nella guerra del '48, la città si presenta come una presenza straordinaria, un'apparizione concreta, tangibile, piena di colori, di odori, di persone diversissime, ma insieme anche un dato metafisico, una sfida enigmatica alla percezione comune. Non è un caso che questo posto sia considerato da religioni diversissime una porta per il cielo, un luogo di presenze e di elevazioni. Una città dunque che apre possibilità di rivelazioni, ma sempre anche un luogo inquietante, “grande e terribile”, perfino pericoloso, perché il contatto col divino lo è sempre, come sanno i teologi e i sociologi della religione. E infatti nel corso dei secoli qui è scorso moltissimo sangue, per lo più di persone pie e devote per mano di persone altrettanto religiose – per il possesso dei luogi, ma anche per la verità, la posta in gioco di ogni disputa veramente radicale.
Nel quartiere ebraico
Come si coglie quest'altezza e questo pericolo, dipende naturalmente dalla cultura e dalla fede di chi prova a percepirlo. Per me come per molti ebrei il carattere straordinario della città si concentra in quel muraglione di enormi pietre squadrate che si chiama Kotel. Come il percorso per arrivare a Gerusalemme, anche quello per raggiungere il Kotel in Gerusalemme ha un certo carattere iniziatico: si lascia la città moderna si superano le mura, ci si inoltra nel dedalo delle viuzze o si attraversa lo spazio del suk, pieno di odori di spezie, di persone, di merci più o meno simboliche o degradate (croci e magliette sportive, lampade religiose e insalata, oggetti sacri e sottovesti). Si passa per sottoportici oscuri, si supera una certa sensazione di pericolo se si passa per il quartiere arabo, oppure nel quartiere ebraico si viene interpellati da mendicanti rigorosamente vestiti da religiosi, o da religiosi che di mestiere fanno i mendicanti, si attraversano metal detector. E infine, di colpo appare oltre un grande spazio vuoto la muraglia lunga un centinaio di metri, alta una ventina, fatta di grandi blocchi squadrati di pietra bianca assemblati in maniera irregolare, con qualche ciuffo d'erba che esce qua e là, dei piccoli varchi in cui si infilano allegri i passeri.
Il Kotel
La mente razionale riconosce nelle forme del muro l'opera architettonica romana caratteristica di Erode che lo edificò per sostenere l'allargamento della spianata del tempio; ne vede il carattere letteralmente laterale, di servizio, senza pretese estetiche o monumentali. La mente antropologica nota i diversi costumi della folla che si affolla sotto il Muro a pregare, sente i ritmi delle numerose liturgie che spesso vi si svolgono contemporaneamente, coglie in questa molteplicità rituale insieme l'anarchia e la ricchezza. La mente estetica coglie la luce straordinariamente chiara e limpida, la bellezza della pietra bianca che fascia anche tutte le case di fronte, le evoluzioni quasi ubriache delle rondini che fanno acrobazie sulla testa della gente. Il corpo si avvicina, si appoggia e accarezza una pietra lisciata da mille e mille gesti analoghi ripetuti ogni giorno, ne sente il tepore, vede i foglietti di preghiere infilata negli interstizi, sente melodie antiche che lodano il Cielo e le sue opere, si sente immerso in una piccola folla che vive le stesse sensazioni.
Ma tutto questo subito diventa solo un guscio, un fremito tutto intorno a una sensazione di integrità e di completezza. Nessuno è così pazzo da scambiare quel muro che è solo un muro per ciò che lo provoca, nessuno lo venera, naturalmente. Né quel muro è un simbolo, ha un senso analogico, espone una metafora. Semmai la sua figura retorica, come quella di tutta Gerusalemme è la sineddoche, la pars pro toto e la litote, l'assenza insieme affermata e negata. Il Kotel non è il Tempio distrutto da duemila anni, ma ne manifesta l'assenza perché ne è stato parte. E' dunque a un'assenza, a un ricordo, a un desiderio che ci si rivolge, è un'identità che emerge dal carattere virtuale di ciò su cui ci concentra: non qualcosa, che non c'è più o non c'è ancora ma la possibilità di incontrarlo di nuovo forse, probabilmente non per me, ma per l'identità collettiva di cui mi riconosco parte. Gerusalemme e soprattutto il Kotel è dunque luogo di testimonianza, di fedeltà, di appartenenza, di continuità e dilazione nel tempo. Concetti astratti che per me diventano concreti, emozionali, fisici, nel contatto con quella pietra calda – per altri in altri luoghi - e si dilatano a ondate per la città, ne spiegano la condizione e anche la divisione, lo splendore particolare che la avvolge e la contesa che la divide. Anche se Gerusalemme è naturalmente un luogo, ed è piena di luoghi, di monumenti, di spazi sacri, la sua dimensione vera non è spaziale ma temporale, riguarda un rapporto con l'eternità che non può non esaltare e atterrire assieme, motivando la politica e la fede e la gioia e la paura e l'esaltazione della sensibilità e l'austerità del rito. Un paradosso fatto città, anche perché la città è lì, quotidiana come tutte, con il mercato e i giardini e i monumenti e gli alberghi e il traffico e tutto ciò che fa una capitale. La sua normalità, incapace di contenere la sua eccezionalità, in cui ogni cosa diventa emozionante e unica.
Ugo Volli