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Ugo Volli
Cartoline
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Il fantasma e la vita 02/04/2014

Il fantasma e la vita,
Cartoline da Israele, di Ugo Volli

A sinistra, un tratto della barriera difensiva israeliana

Chiunque vada in Israele in compagnia, in particolare in un viaggio organizzato come quello di Informazione Corretta, a un certo punto ne sente parlare, ci si imbatte, o magari ci va a sbattere contro... anche se non c'è. Perché è un fantasma, ma un fantasma massiccio, con la pretesa di essere solido, e ha anche un nome duro e antipatico, breve e imperativo: muro. Non i muri delle case, naturalmente che ci sono dappertutto, e quelli dei giardini, i muretti a secco che delimitano i campi più sassosi, non i muraglioni delle fortificazioni che circondano Gerusalemme e Cesarea, neppure quello che in Occidente si usa chiamare “muro del pianto” e gli ebrei definiscono invece Kotel Hamaravì, cioè muro occidentale oi semplicemente Kotel, muro, che poi è il gigantesco muraglione di contenimento del Monte del Tempio che Erode fece costruire nella sua ristrutturazione dello spazio sacro sopra l'abitato di Gerusalemme. No, il muro di cui si parla ha la maiuscola, viene declinato nella buffa sentenza metaforica che amano buonisti e pacifisti, più o meno sinceri che siano: non bisogna fare muri ma ponti, come se si potessero costruire ponti senza muri di sostegno o come se si potesse fare una casa tutta di ponti che non riuscisse un incubo alla Escher. Insomma ci si imbatte nel Muro con la maiuscola, quello edificato da Israele a partire da una decina d'anni fa per difendere la popolazione dal terrorismo o almeno rendere le cose più difficili a chi fosse preso da una voglia improvvisa di indossare un giubbotto imbottito di esplosivo e magari anche chiodi e frammenti metallici per far più male e farsi saltare in mezzo a un bar, a un supermercato, a una festa di matrimonio, a un autobus come accadeva con terribile frequenza negli anni dello scatenamento terroristico chiamato “Seconda Intifada” (una parola araba che allude all'atto di un animale che si scrolla un peso di dosso) e che ora dopo la sua costruzione, guardate un po', sono diminuite del novantacinque per cento e passa, chissà perché.

Insomma, il Muro, con la maiuscola. Perché è un fantasma? Perché per lo più non c'è, cioè non è un muro, ma una rete metallica di separazione alta un paio di metri, non molto fitta né solida, almeno in apparenza, neppure elettrificata, nel senso che a toccarla non si prende la scossa. In cambio, ricca di sensori che colgono la presenza di chi si avvicina troppo, di telecamere che respingono gli intrusi, costeggiata da una strada dove le pattuglie di sorveglianza possono individuarli e catturarli. Dunque un non muro, se il muro vuol dire qualche cosa di solido e opaco. Ma piuttosto, come dicono gli israeliani, una barriera, una barriera di sicurezza. Certamente vi sono dei tratti in cui il Muro perde la sua natura fantasmatica e diventa davvero un muro solido, fatto di listelli verticali di cementi alti qualche metro, con anche le torrette di sorveglianza piazzate qua e là a dargli un'aria insieme medievale e postmoderna, come in un film del filone catastrofista. E' questo il muro che i nemici di Israele amano tanto odiare, che fotografano e diffondono in tutte le salse, che magari anche riproducono a grandezza naturale addosso agli edifici, come ha fatto una pia parrocca anglicana di Londra per festeggiare le scorse ricorrenze natalizie.


 Gilo as seen from Bethlehem. (photo credit: Yossi Zamir/Flash90) 
ll sobborgo di Gilo  

 
Peccato però che quel muro lì, il Muro per eccellenza, copra solo una frazione pari al cinque per cento circa del percorso totale della barriera. Il che è ben comprensibile se si pensa che esso è assai più costoso da gestire e mantenere, più lungo e più ingombrante della barriera elettronica e che di conseguenza è stato costruito solo in due situazioni  molto specifiche. La prima riguarda i tratti dove i terroristi avevano l'abitudine di tirare sulla popolazione israeliana dall'altra parte, si trattasse di case, strade, parti di città. Ho scritto “tirare” e sono stato volutamente ambiguo, perché le cose da tirare erano per lo più spari di fucile, come doveva subire per esempio un sobborgo di Gerusalemme, Gilo, che aveva la sfortuna di essere dirimpettaio di un villaggio arabo cristiano, da cui i terroristi musulmani sparavano volentieri, con la speranza che la rappresaglia israeliana coinvolgesse i cristiani, in modo da veder morire due nemici in una volta sola. Oppure potevano essere tirati grossi sassi, che piombando su una macchina in corsa e sfondandone il parabrezza spesso sono mortali. O bombe molotov, razzi, qualunque cosa. Una barriera di cementi in questi casi aiuta naturalmente a proteggere le vittime dell'aggressione e paradossalmente è una soluzione che evita anche di sparegere sangue degli aggressori. Lo stesso accade nell'altro caso che consiglia il cemento, quando cioè si può prevedere che vi siano tentativi di abbattere con la forza la barriera, il che non è difficile nel caso della rete metallica, con la conseguenza di permettere a chi è interessato di annullare a piacere la protezione o di dover difendere la barriera con le armi. Il risultato è che grazie al Muro con la maiuscola e alla barriera con la minuscola (ma soprattutto con l'elettronica), negli anni in cui essa è stata in azione si sono salvate centinaia di vite non solo di israeliani, ma anche di arabi. Questo è quello che i critici ignorano, concentrandosi su storie pietose di campi tagliati a metà (succede con tutte le frontiere) o di menzogne belle e buone, come quella che descrive Betlemme interamente circondata dalla barriera, mentre basta un'occhiata alla carta per vedere che la città è normalmente connessa senza ostacoli al territorio amministrato dall'autorità palestinese. O ancora si sostiene che la barriera avrebbe sottratto chissà quali terre ai palestinesi, ignorando che si tratta di terre che sono ancora sotto trattativa e dunque in questo momento non appartengono né a una parte né all'altra e che il principio reso necessario dal terrorismo è quello della divisione delle due comunità, che non può che essere contorta in una regione in cui gli insediamenti arabi e quelli israeliani si mescolano in un puzzle inestricabile.

Questo è quel che dice il buon senso. Ma i fantasmi, si sa, per mestiere al buonsenso non ci badano. E l'ideologia, come è noto, non si fa scrupolo di ignorare i fatti che contraddicano i suoi assiomi. E dato che l'assioma numero un o della politica estera progressista di tutti i paesi, come mostra anche il recente voto della commissione dei diritti umani dell'Onu, è che Israele ha per definizione torto e ce l'ha soprattutto quando cerca di difendersi, il Muro resta il grande fantasma, anzi la fantasia del demonio, chiamato Muro dell'apartheid (che non c'entra, Israele è un paese in cui religioni e minoranze etniche sono libere e protette) e addirittura Muro della vergogna – probabilmente della vergogna di chi dice bugie a suo proposito. Ma se si guarda alla sua funzione, al numero di esistenze che ha salvato, è un altro il nome con cui bisognerebbe chiamarlo: Barriera di protezione della vita.



Ugo Volli


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