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La Stampa Rassegna Stampa
01.04.2014 Il futuro di Israele secondo Amos Oz
Maurizio Molinari a colloquio con il romanziere

Testata: La Stampa
Data: 01 aprile 2014
Pagina: 28
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Amos Oz: Per Israele il deserto del Negev è la nuova frontiera»
Riportiamo da LA STAMPA di oggi, 1/04/2014, a pag. 28 , l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Amos Oz: Per Israele il deserto del Negev è la nuova frontiera".

    
Maurizio Molinari   Amos Oz                          Il desertto del Negev

Per entrare nelle viscere di Israele bisogna varcare la soglia della casa di Amoz Oz. Seduto nel suo salotto in un elegante quartiere a Nord di Tel Aviv, Oz racconta il suo Paese con il misto di passione e lucidità che distingue lo stile dei libri e scritti tradotti in tutto il mondo: vede nel Negev la nuova frontiera di Israele, nella lingua ebraica una fonte inarrestabile di creatività, nella soluzione dei due Stati l’unica via d’uscita al conflitto con i palestinesi e rilancia la richiesta all’Europa di non guardare al Medio Oriente come se fosse un film di Hollywood con buoni contrapposti a cattivi.
Nel quartiere di Nahlaot, a Gerusalemme, Natalie Portman sta girando il film tratto dal suo best seller Sippur Al-Ahava VeHoscech (Una storia d’amore e di tenebra) ma la cosa non lo emoziona più di tanto. «E’ come se un pianista descrivesse un violinista», dice, affiancando rispetto e distacco. Resta il fatto che i suoi libri sono fra i più tradotti al mondo, trasformando la letteratura ebraica in un prodotto globale. E’ un fenomeno che spiega con «l’attrazione che i lettori hanno per le realtà particolari che possono suscitare grande interesse o repulsione» e lo porta a soffermarsi anche sulla «intrinseca creatività della lingua ebraica». «Posso essere un critico aspro di alcune posizioni dei governi israeliani – sottolinea - ma sono un appassionato sostenitore della lingua ebraica». Il motivo è che si tratta di un idioma «in continua trasformazione», che «si arricchisce di vocaboli grazie all’arrivo di nuovi immigrati» e possiede forme lessicali «che consentono di cambiare l’ordine di vocaboli, articoli e avverbi mantenendo lo stesso significato». D’altra parte il numero di persone che oggi parlano l’ebraico è simile a quello di chi conosceva l’inglese ai tempi di Shakespeare e dunque nulla preclude ad un’ulteriore espansione di un bacino di lettori in lingua originale che «quando Israele venne creata era di appena 300 mila anime ed ora è superiore agli abitanti della Norvegia o della Danimarca».
La vitalità intrinseca dell’ebraico nasce, per Amoz Oz, anche dall’essere stata una «Bella Addormentata» per 17 secoli, perché se è vero che non apparteneva a nessuno Stato lo è pure che «se un rabbino ashkenazita dell’Europa orientale doveva corrispondere per iscritto con un rabbino sefardita in Nordafrica lo faceva nella lingua della Bibbia perché era l’unica che li accomunava».
Ciò che colpisce nell’ascoltare Amos Oz è la semplicità di pensieri che esprimono una creatività dirompente. Avviene ad esempio quando, pochi minuti dopo, davanti a due tazzine di tè da lui stesso preparato e versato, si sofferma sul «Negev, possibile nuova frontiera di Israele». Qui si parla spesso e volentieri del grande deserto meridionale: Shimon Peres immagina di popolarlo, Benjamin Netanyahu vi investe sulle nuove tecnologie, lo «Shafdan» è un modello di ripulitura delle acque e l’agricoltura continua a fiorirvi. «Quando ci ritireremo dalla West Bank, il Negev potrà diventare il nuovo orizzonte», dice lo scrittore, sottolineando la possibilità di trasferirvi gran parte dei residenti negli insediamenti. E’ una delle idee che lo accomuna a Shimon Peres, a cui è molto legato, fino al punto da essere stato indicato da lui in passato come possibile guida per il partito laburista. Ora ad esserne leader è il giovane Isaac Herzog, che apprezza, mentre Peres sta per lasciare la presidenza dello Stato «e fra i possibili successori non c’è nessuno neanche lontanamente paragonabile alle sue qualità».
Fra i leader politici emergenti nessuno lo emoziona più di tanto, incluso Naftali Bennet capo del partito Bayit HaYehudì (Casa ebraica) in crescita nell’elettorato di destra. «I migliori fra i giovani non si avvicinano alla vita pubblica, in Israele come in Italia, perché temono che emergendo si troverebbero obbligati a dover giustificare ogni sorta di comportamenti passati, anche quelli più lontani negli anni», osserva, aggiungendo però di avere fiducia nel «fattore-sorpresa» che spesso ha cambiato il corso del XXI secolo. «Nessuno si aspettava che De Gaulle avrebbe lasciato l’Algeria, che Churchill avrebbe gestito la liquidazione dell’Impero britannico, che Begin si sarebbe ritirato dall’intero Sinai e che Gorbaciov avrebbe fatto implodere l’Urss ma questo è quanto in realtà avvenuto» osserva, indicando per il conflitto fra israeliani e palestinesi una soluzione «simile al divorzio dolce fra cechi e slovacchi» che portò la Cecoslovacchia a lasciare il posto alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia.
Amoz Oz, fondatore di «Peace Now», fu fra i primi a battersi per la soluzione dei due Stati per due popoli ed oggi davanti alle perduranti difficoltà e resistenze ribadisce che «non c’è una strada alternativa per porre fine ad un conflitto tragico perché non oppone un torto ad una ragione ma vede confrontarsi due parti che hanno entrambe ragione». Da qui l’appello all’Europa di «guardare a israeliani e palestinesi non come ad un film di Hollywood con i buoni e i cattivi», bensì come ad una realtà dove «si può esprimere sostegno ad entrambi». Riguardo alle incomprensioni fra Europa e Israele, la spiegazione che ne dà è duplice. Da un lato «l’Europa dimentica che siamo una nazione di profughi, dove ogni singolo porta dentro di sé la memoria delle persecuzioni, e dunque abbiamo bisogno costante di rassicurazioni», mentre dall’altro «sbagliano quegli israeliani che considerano ogni critica alle nostre politiche come una dimostrazione di antisemitismo».
In realtà nella stagione di Barack Obama vi sono anche molte incomprensioni fra Israele e Stati Uniti, fino al punto da far ipotizzare l’avvicinamento dello Stato Ebraico ad altre potenze, come la Cina e la Russia. E in Cina proprio la traduzione del suo libro dimostra la crescente attenzione per Israele. «Ciò che ci dobbiamo chiedere non è se noi guarderemo ad altri Stati – osserva Amos Oz – ma se vi saranno altri Stati capaci di aprirsi a noi come hanno fatto gli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni diventando il cugino potente di uno Stato senza famiglia come Israele». Sulle trasformazioni in atto nello Stato ebraico l’approvazione delle legge che abolisce l’esenzione dal servizio militare per gli ultraortodossi lo trova tiepido. «Non sono come quegli israeliani laici per i quali il servizio militare degli ultraortodossi è determinante – osserva, seduto con a fianco l’inseparabile gatto Freddy – per me ciò che conta di più è la loro integrazione nel mondo del lavoro». Più in generale comunque non crede ad un’Israele sempre più religiosa: «Quando lo Stato venne fondato i partiti religiosi in totale avevano 28 seggi, oggi ne hanno 31, dunque sono cresciuti ma non molto» e Israele «resta un Paese dove la maggioranza della popolazione, che vive lungo la costa da Naharya ad Ashkelon, è composta al 75 per cento da laici».
Dare eccessivo risalto agli ortodossi «è un errore che spesso fa chi vive a Gerusalemme». Anche fra i palestinesi le differenze sono sensibili: «Ramallah è la loro Tel Aviv ma nei piccoli villaggi albergano povertà e disperazione». Prima di salutarci, il ricordo di Oz va a Gianni Agnelli, che ricevette anni fa nel kibbutz di Hulda, in un incontro a cui parteciparono anche le rispettive mogli, Nily e Donna Marella. «Lo rammento come un uomo con grande cura per i dettagli e curiosità – termina Oz – a farci incontrare l’amico comune Vittorio Dan Segre».

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