11 settembre: le 'rivelazioni' del genero di Osama bin Laden un articolo dedicato a Gianni Vattimo, Piergiorgio Odifreddi, Giulietto Chiesa & complottisti vari
Testata: La Repubblica Data: 21 marzo 2014 Pagina: 44 Autore: Vittorio Zucconi Titolo: «Io, nella grotta con Osama dopo il crollo delle Torri»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/03/2014, a pag. 44, l'articolo di Vittorio Zucconi dal titolo "Io, nella grotta con Osama dopo il crollo delle Torri".
Suleiman Abu Gaith, genero di Osama bin Laden
Dedichiamo questo articolo a Gianni Vattimo, Piergiorgio Odifreddi, Giulietto Chiesa e tutti i complottisti vari. Chissà se daranno credito al genero di Bin Laden e la smetteranno di inventare complotti sionisti-americani. Ecco il pezzo:
Il lungo viaggio verso la notte di Sulaiman per incontrare Osama finì nella penombra di una grotta alla fine del mondo dove l’uomo più ricercato, più venerato e più odiato della Terra, gli disse: «Lo sai che siamo stati noi, vero?». Era la notte tra l’11 e il 12 settembre del 2001 e Sulaiman Abu Gaith guardò il suocero Osama bin Laden senza rispondere. «Siediti e ascoltami» gli ordinò Osama. Sulaiman si sedette e ascoltò la storia che lo avrebbe portato, 13 anni dopo, in un tribunale federale di Manhattan, davanti a un possibile ergastolo, sepolto in una tomba di cemento armato per morti viventi, senza possibilità di rivedere la luce. Mai nessuno tanto vicino al profeta di Al Qaeda e allo stratega massimo della jihad stragista aveva deposto, sotto giuramento, nell’aula di un tribunale della nazione che il suo leader avrebbe voluto devastare e nella città che i suoi fratelli del terrore avevano decapitato. E se le deposizioni degli imputati non sono mai necessariamente la Verità, se più bugie vengono dette in un’aula di tribunale che in una spiaggia d’estate sotto le stelle, il racconto di quest’uomo, membro del cerchio di morte più stretto attorno a Osama, ci porta sicuramente più vicini al cuore nero di quanto mai prima fossimo arrivati. «Mi prelevarono a Kandahar (la grande città del sud ai confini con il Pakistan, ndr)e mi caricarono in un suv, senza dirmi nulla. Viaggiammo per tre ore al buio su strade di montagna sempre più strette e poi su terreni non battuti fino a una grotta. In fondo alla grotta, nella poca luce, c’era Osama». Sulaiman lo conosceva bene, lo aveva già incontrato, come aveva incontrato la figlia con la quale era fidanzato e che avrebbe sposato. Fuggito dal Kuwait, dov’era nato, aveva vagato per la galassia dei viaggiatori della jihad islamica in vari Paesi, approdando come tanti nell’Afghanistan dei Taliban. Aveva fondato un centro di apparente beneficenza araba, al Wafa, la “fedeltà”, che l’antiterrorismo americano considera una delle tante facciate per il finanziamento di Al Qaeda. Osama — racconta — era agitato, per nulla esaltato dal successo dell’operazione Torri Gemelle che poche ore prima aveva decapitato il centro finanziario di Manhattan. «Hai saputo?» gli chiese. «Sì, qualche cosa ho sentito, ma.... «. «Siamostati noi, lo sai, vero?». Il giovane non rispose, o dice oggi di non avere risposto. «Che cosa faranno gli americani?» domandò Osama. «Non lo so, non sono uno stratega militare o politico» cercò di schermirsi Sulaiman, che allora aveva appena 36 anni, ma il futuro suocero insistette. «Siediti, pensaci e rispondimi». Si sedette, ci pensò, dovette rispondere. «Credo... penso che gli americani piomberanno qui per rovesciare il governo Talibane cominceranno a darti la caccia fino a quando non ti cattureranno o ti uccideranno». Osama non reagì, poi si scosse da quel suo strano torpore nel freddo di una caverna che non aveva riscaldamento né elettricità, si fece animato. «Gli americani non sanno che sta per abbattersi su di loro una tempesta di attacchi dal cielo, con stormi di aerei sulle loro città». Poi tacque. Bevve un poco di tè da una tazza di metal-lo e cambiò discorso. «Ascolta Sulaiman, voglio che tu ti occupi dell’addestramento dei nuovi arrivati. Cerca di trattarli meglio, con più umanità, con un po’ di misericordia ». Lo sceicco temeva defezioni, fughe per sfuggire ai rigori crudeli dell’addestramento nei campi in Afghanistan. «Oggi sono troppo strapazzati, troppo schiacciati. Sono tutti così giovani, falli respirare». Lei avrebbe dovuto andare a insegnare la misericordia a terroristi addestrati a uccidere innocenti? Lo ha interrotto il procuratore dell’Accusa in udienza, secondo il resoconto stenografico del New York Times.«Sì». Il giudice ha dovuto smartellare sul suo scranno per calmare il pubblico. Ma Osama dovette leggere qualcosa nello sguardo del genero perché si sentì in dovere di dargli una spiegazione. «L’abbiamo fatto per dargli una lezione, capisci? Ora ti do i punti da sviluppare nel discorso da diffondere» e gli dettò la “linea”, come in un partito o movimento qualsiasi. E infatti sarebbe stato proprio lui, Sulaiman Abu Gaith a registrare i primi video diffusi da Al Jazeera.«Dovete aspettarvi molto più, voi pagani, crociati e infedeli» recita nelle clip. «E adesso lei ci vuol far credere che non sapeva nulla dell’11 settembre e degli attentati successivi?» lo ha incalzato l’Accusa. «No, avevo sentito dire qualche cosa, ma niente di preciso». Sulaiman fu catturato in Turchia, dai servizi segreti giordani, appena un anno fa, nel marzo del 2013 e consegnato agli americani, ma non finì a Guantanamo. Non era un cosiddetto “combattente”, come quelli finiti nelle stie della base americana, era un ricercato senza accuse di partecipazione diretta a omicidi o azioni di guerra ed è stato incarcerato in una prigione federale sotto l’imputazione di «cospirazione per uccidere cittadini americani». La sua difesa è nel racconto del viaggio nella notte e dell’incontro nella caverna, nel suo dipingersi come un assistente, un collaboratore, uno di famiglia, ma non uno stratega o un organizzatore di attentati. Sarà difficile provare il caso, perché filmare video amatoriali, incontrare Osama nel cuore nero dei monti del Kandahar, sposarne la figlia non sono reati da ergastolo e nessuno potrà smentire le sue parole. Certamente non potrà contraddirlo quell’uomo che gli parlava ansioso sorseggiando tè nella penombra di una grotta e che ora dorme con i pesci negli abissi dell’Oceano Indiano. Quello stesso oceano dove potrebbe giacere, per coincidenza, il relitto del Boeing 777 della Malaysia Airlines.
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