Riprendiamo da LETTURA/CORRIERE della SERA, di oggi, 16/03/2014, a pag.20, con il titolo "La scalogna è un'arte e Malamud il suo maestro" di Alessandro Piperno. Quest'anno ricorre il centenario della nascita di Bernard Malamud, uno dei grandi scrittori ebrei del '900 americano. Un'occasione per chi non l'avesse mai letto, di riscoprire un autore di luminosa grandezza.
Mondadori ha pubblicato un Meridiano con la prima raccolta delle sue opere.

Bernard Malamud
Sarebbe bello se un giorno Renata Colorni, la titanica curatrice dei classici Mondadori, raccogliesse in un Meridiano una selezione di biografie dei grandi scrittori di cui si è occupata negli ultimi trent'anni. Che libro affascinante! L'impressione che potrebbe trarne un lettore buongustaio è di trovarsi di fronte alle mirabili biografie vittoriane in cui i dati reali venivano graziosamente mescolati a quelli presunti: una tecnica cara a Walter Pater, Marcel Schwob, il grande Lytton Strachey. Un'enciclopedia delle mediocrità, delle sofferenze, delle incertezze, delle invidie e delle troppe bollette da pagare che hanno funestato i geni letterari dell'umanità. Be', qualcosa mi dice che in questa fantasmagorica opera borgesiana troverebbe spazio (in appendice?) anche la biografia che apre il nuovo Meridiano dedicato a Malamud, che potrebbe intitolarsi: Bernard NIalamud, su come vivere in ritirata. Con un certo spirito Paolo Simonetti, l'abile curatore della suddetta cronologia, ha messo in epigrafe una frase dello stesso Malamud: «Non so che cosa farà con me un futuro biografo — credo ben poco». Intendiamoci: non si può dire, in senso stretto, che Bernard Malamud appartenga alla confraternita dei grandi reclusi (Salinger, Pynchon e così via). In lui non c'è retorica dell'isolamento, né il narcisismo altezzoso dell'ascesi. Più che altro c'è riserbo, timidezza e tanta circospezione, però niente di patologico. Chissà, forse, con buona pace di Barthes, la vita dice qualcosa (non tutto, ma qualcosa sì) dell'opera di un artista.





La vita borghese (piccolo borghese) di Bernard Malamud è consustanziale ai suoi libri zeppi di povere anime angustiate, prese a cazzotti dalla vita. Piccoli ebrei (ma non solo) che stentano ad assimilarsi alla società americana: creature dignitose e indigenti che vagolano tra Brooklyn e il Lower East Side, tra il Bronx e l'Upper West, succhiando grandi cetrioli, compulsando vecchie copie del « Forward», non smettendo di desiderare ciò che non potranno mai avere. Diciamo che tra i due grandi Roth americani, Malamud è più vicino a Henry che al suo discepolo Philip. Così come occorre chiarire che, a dispetto degli impropri accostamenti giornalistici che lo ritraggono come un sorta di fratello minore di Saul Bellow, Malamud ha lasciato in Europa la sua famiglia. Babel, Kafka, Schultz, Singer e, in un certo senso, persino il nostro Svevo: ecco i cugini più prossimi.



a sin. Alessandro Piperno
Diciamo che, mentre per Bellow (e per i suoi personaggi) l'America è un opportunità straordinaria, la patria da conquistare con spavalderia, per Malamud (e per i suoi personaggi) l'America è un problema, l'ennesimo luogo sulla terra ostile agli ebrei e alle brave persone. Forse è questa la ragione per cui i suoi eroi (sì, mi piace chiamarli così) vivono in uno stato di scaramanzia permanente. La felicità è pericolosa. Non provarci nemmeno, a essere felice. Qualsiasi felicità conquistata, qualsiasi sogno lungamente coltivato, ti si torcerà contro. Lo sa bene Morris Bober, protagonista de II giovane di bottega, con Il suo insano desiderio di mettersi in proprio e di aprire un negozio di alimentari che non porterà niente di buono né a lui né alla sua famiglia. Lo sa ancor più Roy Hobbs, eroe de Il fuoriclasse, il promettente giocatore di baseball che, un istante prima di coronare il sogno di una vita di entrare in una grande squadra, si becca una revolverata. Ma chi lo sa meglio di tutti è Yakov Bok de L'uomo di Kiev. II povero Yakov pagherà a carissimo prezzo l'improvvida decisione di lasciare lo shtetl ucraino in cui è nato e vissuto, e di avventurarsi nella tundra gelida, ingiusta e ferocissima dei goyim. La scalogna (ma non nel senso romantico che le attribuisce Baudelaire, bensì nel senso biblico caro al fratelli Cohen) si arraniscre in modo quasi sistematico sui personaggi di Malamud. Emblematico il formidabile attacco del racconto L'angelo Levine: «Manischevitz, un sarto, nel suo cinquantunesimo anno di età ebbe a patire molte disgrazie e molte umiliazioni. (uomo agiato, nel giro di una notte perse tutto quello che aveva: qualcosa aveva preso fuoco nel suo laboratorio che, dopo l'esplosione d'un recipiente metallico pieno di smacchiatore, bruciò fino alle fondamenta. Sebbene Manischevitz fosse assicurato contro gli incendi, le cause per danni intentategli da due clienti rimasti feriti tra le fiamme lo spogliarono fino all'ultimo centesimo di tutto ciò che aveva riscosso. Quasi contemporaneamente suo figlio, un ragazzo molto promettente, fu ucciso in guerra, e sua figlia, senza neppure una parola di preavviso, sposò un tanghero e sparì con lui come cancellata dalla faccia della terra». Non c'è successo, non c'è speranza di riscatto che prima o poi non vengano umiliati. Allora meglio nascondersi, non farsi vedere, non dare nell'occhio. Meglio non scatenare l'invidia dei goyim o la capricciosa ira dell'Onnipotente. È così che ragionano gli ebrei di Malamud. Perché gli ebrei? Perché proprio gli ebrei? Perché Malamud non fa che parlarci di loro? Be', è lui stesso a rispondere, in una delle rare interviste concesse: «Perché li conosco. Ma soprattutto, ne parlo perché gli ebrei sono l'incarnazione stessa della tragedia». Questa è un'idea che lo ossessiona e che lo illumina. A un certo momento ne il barile magico, uno dei suoi racconti più celebri, un personaggio trova proprio nell'ebraismo la consolazione alle proprie angustie, tanto da commentare quasi con soddisfazione: «Un ebreo deve soffrire». Un postulato che Malamud avrebbe di certo potuto sottoscrivere. Ma allora perché, malgrado Malamud non faccia altro che parlarci di questi poveri diavoli, malgrado non faccia altro che scriverne con uno stile così apparentemente trasandato e così severamente disadorno, malgrado non faccia altro che mettere in scena il reiterarsi irrevocabile del grande dramma ebraico... insomma perché, mi chiedevo, malgrado tutto questo, leggere Malamud ti dà una gioia così sottile che ondeggia tra sorriso e commozione? È questione di tono. Del resto, la narrativa è sempre questione di tono. L'inconfondibile tono di Malamud è un impasto calibrato di ironia e pietà. Il suo scabro naturalismo è riscattato dall'ironia, e la miserabile mediocrità dei personaggi è trasfigurata dalla pietà con cui li guarda. E come se la circospezione di Malamud, la paura che lo affligge, coinvolgesse anche lo stile. Malamud è il contrario di un esibizionista. Non concepisce la scrittura come performance. Malamud usa parole semplici, ma mai dozzinali; non ricorre a giri di frasi particolarmente elaborati e complessi. Per lui la sintassi è uno strumento, non certo un fine. Predilige gli spazi angusti, i sentimenti indefiniti. Poi c'è sempre qualcosa di improbabile. Una nota d'irrealtà che rende l'amalgama ancor più gustosa. Ma persino questa deriva magica viene trattata con garbo. Non scantona mai nel demonismo di Singer, tanto meno nel gotico o nel sovrannaturale. Malamud resta con i piedi per terra. Tanto che il lettore è autorizzato a interpretare il magico in Malamud come la tipica fuga dalla realtà dell'alienato, il delirio di colui che soffre di un serio disagio psichico. E, infine, c'è il sesso. Niente di esplicito. Niente di spericolato. Niente di funambolico. Al punto tale che forse il termine «sesso» non rende bene l'idea. E' più cauto parlare di desiderio. Desiderio allo stato puro. Desiderio umiliato. Ancora una volta Malamud è più vicino a Italo Svevo che a Philip Roth. Le tre o quattro pagine de Il giovane di bottega dedicate agli sguardi furtivi che Frank Alpine lancia a Helen valgono tutta l'opera di Henry Miller. Un' ultima cosa, un piccolo rilievo personale che spero il lettore saprà perdonarmi. Ci ho messo parecchio a innamorarmi di Malamud. Quasi vent'anni. Non si può dire che la sua narrativa offra l'alimento di cui il mio palato ha bisogno. 'Tutta questa sobrietà, tutto questo rigore narrativo non rispondono in alcun modo al mio ideale. Diciamo che Malamud me lo sono fatto piacere, come Zeno Cosini si fa piacere la moglie Augusta. E, proprio come quello di Zeno nei confronti della moglie, ho scoperto strada facendo che il mio amore per Malamud non era un ripiego. Anzi, ho scoperto che esso, come i grandi amori coniugali, aumentava con la pratica e con la consuetudine. Oggi non c'è pagina di Malamud che non mi riempia di ammirazione. C'è qualcosa di tonificante nell'imparare ad amare ciò che non ti somiglia.
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