Sulla STAMPA di oggi, 15/03/2014, due articoli sulla Siria. Il primo, di Maurizio Molinari, analizza il rapporto di forza tra Assad e l'opposizione, data in modo ormai definitivo come perdente. Nella stessa pagina 13, il reportage di Domenico Quirico, nel quale ricorda il suo rapimento insieme alla percezione della rappresentazione di quello che ha definito il Male.
Intanto i profughi " hanno raggiunto la quota record di 9 milioni - 6,5 in patria - a cui si aggiunge un bilancio di vittime oltre quota 146 mila ", come riporta Molinari nel suo pezzo.
Maurizio Molinari: " Siria, anniversario di sangue, Assad all'offensiva finale "
Maurizio Molinari Badshar al Assad
Il quarto anno di guerra civile in Siria inizia nel segno dell’avanzata militare dei governativi su Yabrud e della corsa alla rielezione di Bashar al Assad, lasciando intendere che i ribelli e l’opposizione potrebbero avere la peggio su entrambi i fronti. Quasi del tutto abbandonata dai suoi 30 mila residenti, Yabroud è l’ultimo centro siriano che i ribelli controllano lungo il confine con il Libano. È strategico per ricevere rifornimenti di armi e combattenti. Le forze del regime di Assad, sostenute dagli Hezbollah libanesi, sono impegnate in un assalto che ricorda quello con cui presero Qusayr: massicci bombardamenti da terra e dal cielo per spianare l’assalto alla fanteria d’assalto. I missili terraterra lanciati dai governativi e i «Volcano» adoperati dagli Hezbollah hanno obbligato i ribelli a ritirarsi dai terreni agricoli attorno all’abitato, ora gli scontri avvengono dentro l’area urbana quasi completamente distrutta e l’opposizione ritiene imminente l’assalto finale dei miliziani libanesi filo-iraniani. I mezzi di informazione di Damasco danno per sicura la caduta del piccolo centro, 90 km a nord della capitale, e quando ciò avverrà all’opposizione sunnita saranno rimasti solo i passaggi via terra con le retrovie nella Turchia del Sud. Per gli Hezbollah significa anche proteggere le roccaforti nella Valle della Bekaa dalle infiltrazioni sunnite. La conseguenza per Assad è apprestarsi a cogliere un successo sul campo capace di restituire fiducia alle truppe, scoraggiare gli avversari e testimoniare alla comunità internazionale di essere inamovibile Si spiega così la decisione di ricandidarsi alla presidenza - quando il 17 luglio scadrà il suo mandato presidenziale - puntando ad altri sette anni di governo assoluto. Ad attestare che questa è l’intenzione c’è la nuova elegge elettorale approvata dal Parlamento di Damasco che, escludendo la candidatura di chi ha vissuto all’estero negli ultimi 10 anni, trasforma la rielezione in un referendum sul raiss. L’inviato dell’Onu Lakhdar Brahimi, già protagonista dei negoziati a Ginevra, ammonisce Assad a «essere molto prudente sulle elezioni» perché «le opposizioni non daranno tregua» e «non parleranno certo con chi si fa eleggere nel bel mezzo del conflitto». Se il 15 marzo 2011 Assad fu colto di sorpresa dalle proteste dei manifestanti, nel 2012 e 2013 è riuscito prima a non soccombere e poi a riprendersi, adesso l’intento è vincere per ko contro i ribelli. L’Alto commissariato dei rifugiati ritiene tale scenario capace di moltiplicare i profughi che hanno raggiunto la quota record di 9 milioni - 6,5 in patria - a cui si aggiunge un bilancio di vittime oltre quota 146 mila.
Domenico Quirico: "A Yabroud, ostaggio sotto le bombe ho capito che la rivoluzione era finita "
Domenico Quirico
È nel primo incontro con Yabroud che ho sentito l’improvviso impero di un destino, il mio personale e quello di una rivoluzione intera. Una notte appena dopo esser entrato in Siria attraverso la frontiera libanese sguarnita di soldati, su una tortuosa petrosa stradicciola vagabonda presidiata da frutteti che radono a destra e sinistra i montuosi fianchi deserti. Dai meli in fiore, era aprile, i petali fluttuavano pigramente nell’aria. Ho capito a Yabroud come sia così difficile separare il Bene dal Male.Non sapevo ancora che stavo per entrare in una vita diversa, così come per sbaglio si sale in un treno diverso. Ho iniziato a capire quando ho incontrato il prete. Yabroud non si preannuncia, Yabroud ti afferra quando si comincia a rendersi conto della sua presenza, è già là con le sue casupole i suoi minareti le vie tortuose e ingombre di immondizia. La chiesa è splendida: vi hanno pregato i legionari di Roma, il segno di Caligola Cesare è ancora ben impresso nelle pietre, e poi i cristiani, perennemente eroici perché perennemente assediati, dai pagani e poi sperduti in terra di islam. Sul piano del cortile, sulle fronti, sulle arcate un crescente di lume di sole veniva più e più colorando le pietre austere come una ascensione interna di vita di senso di parola. Il prete era un uomo anziano che aveva studiato teologia in Belgio. Nell’accogliermi una evidente mestizia, un allarme. Mi accompagnava a vedere la chiesa ostentatamente, con maniere da visita turistica, rivolte ai miliziani che facevano da corteo. Sfilavan via, sequenza surreale, dotte spiegazioni sulle trasformazioni della navata nei secoli, e sulle icone preziose salvate da mille assedi saccheggi violenze. Poi mi portò nella piccola sacrestia, troppo piccola per ospitare anche l’ingombrante codazzo dei rivoluzionari. È allora che il prete racconta. Che a Yabroud, da quando è scoppiata la rivolta comandano gruppi di finti ribelli, di banditi travestiti che vivono a spese della popolazione con esazioni, sequestri, violenze. Vittime, tra gli altri, i cristiani: «Dobbiamo pagare perché ci lascino pregare e vivere in pace, e ogni volta la somma è maggiore. Ma eravamo cinquemila cristiani qui, tre anni fa. Oggi ne è rimasta forse nemmeno la metà, gli altri fuggiti nel vicino Libano o a Damasco. Sia prudente perché la rivoluzione non esiste più, è diventato brigantaggio». Non l’ho ascoltato. Sono tornato a Yabroud due mesi dopo: ostaggio. La chiesa era ancora candida nella luce;ma non ho più rivisto il prete,non so se è vivo. Questa volta non ero libero di scegliere dove andare, ero nelle mani proprio di un gruppo di ribelli-banditi.All’ingresso della città ho visto i miei primi rapitori vendermi a un altro gruppo per un grosso pacco di dollari. Ho sperato, sognato che sarei uscito di lì attraverso quella pista che si inerpicava sulla montagna; ci sono passato davanti due volte:sempre invano. Tutto era cambiato. Solo la luce era la stessa.Dal cielo incredibilmente vicino ai monti che spalleggiavano e chiudevano la valle pioveva luce su tutte le cose, in limpidezza tale da sembrar fuori di natura, quasi estinta. Questa volta ho attraversato le strade in fretta, su un pickup, il viso avvolto in una kefiah per ingannare i passanti, figure fiere e remote che furtivamente gettavano su di me sguardi di odio. La città l’ho soltanto ascoltata, dalla stanze in cui ero tenuto prigioniero: il rumore della folla, dei venditori, le grida i richiami del muezzin, la moschea era a due passi dalla mia prigione nella parte alta della città che si arrampica verso una semidistrutta fortezza turca. E poi le esplosioni. Gli aerei del regime saggiavano qua e là come se palpeggiassero la robustezza degli edifici. È a Yabroud che ho conosciuto i carcerieri di altri tre mesi di vita rubata. Furbi lesti febbrili, metà rivoluzionari e metà briganti. Immersi nella guerra civile fino al collo come in una melma, la loro vita è un attimo.Questa è la loro forma di eternità. Lerciume denaro bugie…la rivoluzione che avevo amato nelle vie di Aleppo la ribelle, a Yabroud è diventata un panno sporco da gettar via.Son stato prigioniero in piccole stanze: strani fili di suono ti avviluppano, improvvisi scoppi di luce attraverso la finestra chiusa da una grata, lampi di fughe impossibili, (ah! riuscire ad arrivare alla chiesa, il pretemi aiuterebbe…), felici invasioni di vertigine. Quando un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte come la vita che non sai se hai più; e dal mistero balzano improvvise illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre. Potrei dimenticare Yabroud, ma non posso, non voglio. Gli Hezbollah di cui hanno una folle paura hanno cacciato i miei carcerieri dalla città. Immagino: che guardino la mestizia delle rovine, delle ceneri, del dolore. Sanno che devono morire. La loro vita è chiusa, è quasi piena, la clessidra è colma fin quasi all’orlo. E la morte non ha che da aggiungere pochi, pochissimi granelli di sabbia.
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