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E dopo nove mesi... a destra, Ismail Haniyeh con Abu Mazen e una gigantografia di Arafat. Firmeranno? Non firmeranno? Non firmeranno.
Non firmeranno, e il problema naturalmente è che cosa accadrà dopo. L'esperienza insegna che c'è un contraccolpo alle forzature in direzione della "pace": pensate solo a quel che accadde dopo i negoziati falliti fra Barak e Arafat, nel 2000: il più terribile ciclo terroristico che Israele abbia conosciuto, con enormi danni e lutti. Aggiungeteci che questa volta ci sono le minacce esplicite, o piuttosto i pubblici ricatti di Kerry e Obama a Israele: se non firmate ci sarà la terza intifada, se non firmate il movimento del boicottaggio vi colpirà pesantemente, eccetera eccetera. Però chi non vuoler firmare e neppure prolungare le trattative in questo momento è l'Autorità Palestinese, non Israele. Guardate per favore queste dichiarazioni fresche fresche di Abbas (http://danilette.over-blog.com/article-declaration-de-mahmoud-abbas-devant-des-jeunes-militants-de-l-olp-le-6-mars-2014-122891501.html): nessuna presenza israeliana ammessa oltre le linee armistiziali del '49, nessuna rinuncia al "diritto di ritorno" per "5 milioni" di "palestinesi" che dovranno essere compensati e tornare a vivere nel luogo in cui vivevanoi i loro antenati, nessun riconoscimento del carattere di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. Insomma, no, no e no. Nessun accordo possibile. Abbas si è messo apposta in una condizione giuridica tale da non POTER firmare un accordo che rinunci alle sue pretese, per esempio a quella sui "rifugiati": ha emanato leggi che stabiliscono il carattere individuale e dunque non disponibile a un accordo del "diritto al ritorno", si è chiusa la strada di un riconoscimento del carattere nazionale di Israele, insomma ha reso impossibile la firma, come potete leggere qui: E' importante capire perché, dato che al fallimento delle trattative seguirà certamente una polemica aspra sulle responsabilità. Il punto è che le cose non sono cambiate da quindici anni fa, quando gli interlocutori erano Barak, Arafat, Clinton. Il punto di vista palestinese non è pacifista, diciamo così, l'obbiettivo non è la pace. E' un punto di vista irredentista (http://danilette.over-blog.com/article-l-irredentisme-palestinien-re-oit-le-soutien-americain-122889875.html). I dirigenti palestinisti non sono "stanchi di guerra", non aspirano a costruire un futuro più prospero e meno pericoloso per la loro popolazione, o almeno non questo in primo luogo. Se l'avessero voluto avrebbero avuto numerose occasioni per arrivarci, dalle vecchie spartizioni britanniche a quella dell'Assemblea dell'Onu nel '48, alle trattative che ho ricordato prima. Anche a Gaza avrebbero potuto costruire in pace la loro Singapore mediterranea e farci un'economia prospera senza che Israele avesse avuto niente da dire, anzi: la speranza di Sharon era quella. Invece non vogliono. E non vogliono, cercando di essere obiettivi, per ragioni chiare. I dirigenti palestinisti sentono di essere i rappresentanti della nazione araba ferita dall' "invasione" ebraica. Non possono accettare che un pezzo del territorio che è stato sotto dominio musulmano diventi di un altro popolo – come sentii dire una volta al capo di una tribù araba di Hebron e come ripete Hamas: neanche un centimetro. La costituzione dello Stato di Israele è, ai loro occhi, una terribile violenza, una ferita, come dicono gli iraniani "un cancro" e questa "malattia" va eliminata. Se fosse possibile, domani con la guerra. Dato che non lo è, progressivamente, con l'assedio, con la violenza minuta, col terrorismo, con tregue momentanee. Ognuno di questi mezzi deve essere misurato al fine, portare un progresso verso il risultato o almeno una premessa per questo progresso. Certamente non deve e non può essere una rinuncia. E' concepibile un accordo per rafforzarsi, per proseguire la lotta con altri mezzi. Ma nessun accordo può chiudere la questione. Quelli che si illudono che "i dividendi della pace", come si esprimevano gli ideologi di Rabin, inducano a chiudere i vecchi conflitti come è avvenuto in Europa fra Francia e Germania, si illudono, non hanno capito niente di quel mondo e non stanno neanche ad ascoltare quel che dicono spesso con molta chiarezza, i palestinisti stessi. Continuamente e in mille modi, alla televisione, sugli stemmi e sulle bandiere, nei libri di scuola, nei discorsi dei politici si dice che Jaffa e Haifa e il Carmelo e il lago di Tiberiade sono Palestina e che prima o poi saranno "liberati" (http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Likud-minister-Palestinians-want-Jaffa-Haifa-and-Ramle-344818): un progetto politico che si comprende molto bene, che comporta la prospettiva di uno sterminio del nemico (perché non è una rivendicazione su una parte dell'altro stato, su certi confini, ma su tutto il territorio) e che non è cambiato da un secolo in qua. Ecco perché non firmeranno. Ed ecco perché, invece di cercare una soluzione definitiva che non è possibile (una "pace"), magari minacciando Israele di boicottaggio, isolamento e guerra legale e diplomatica e con ciò rafforzando la speranza bellicosa dei palestinisti, sarebbe meglio se gli Usa e l'Europa appoggiassero Israele e cercassero di migliorare le condizioni di vita della popolazione araba, partendo dal basso e non dei regimi corrotti che le governano, cercando di favorire i ponti come le imprese israeliane che impiegano personale arabo in Giudea e Samaria. Ma quel che sta accadendo è esattamente il contrario, sono interventi che hanno il risultato di esasperare e prolungare il conflitto. Perché questo comportamento poco saggio? E' un discorso che abbiamo fatto spesso assieme, e che non voglio ripetere qui. Chiamatelo, se volete, antisemitismo. Ugo Volli |
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