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Al Sisi contro i Fratelli Musulmani e i giochi di potere Analisi di Mordechai Kedar (Traduzione dall’ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz) Dai giorni delle rivolte di Piazza al-Tahrir nel gennaio 2011, tutti gli egiziani ritengono oggi che il nome da dare al gioco politico in Egitto, per troppo tempo, dal 1972, alla mercè di un governo militare oscurantista e crudele, sia “ democrazia”. Una delle prove che la democrazia si è insediata in Egitto è la libertà d’informazione da parte di giornalisti, cronisti e proprietari dei media: la libertà di stampa è garantita. Tuttavia, la realtà è più complessa degli slogan. Ai tempi della dittatura di Mubarak i media egiziani godevano di una considerevole libertà, e giornali stranieri circolavano liberamente anche se contrari al regime di Mubarak e al suo governo. Persino il canale in lingua araba al-Jazeera poteva diffondere liberamente informazione anche se orientata a sostenere i Fratelli Musulmani a scapito degli altri partiti. Solo di rado e per un tempo limitato, Mubarak impediva e censurava le trasmissioni di al-Jazeera e controllava il lavoro che i suoi giornalisti svolgevano in Egitto. Al-Jazeera ha approfittato sempre della libertà di cui godeva per incitare, anche se con cautela, il popolo egiziano contro Mubarak, per cui si può ragionevolmente affermare che l’intera “ Primavera Araba “ sia stata il risultato di questo costante incitamento contro i dittatori arabi, non solo egiziani, da parte di al-Jazeera, sin dalla nascita nel 1996. Dopo la fuga del presidente tunisino in Egitto, il 25 gennaio 2011, scoppiarono i tumulti contro Mubarak, fino all’11 febbraio, quando fu costretto a dare le dimissioni. Ne seguì un governo militare e il 30 giugno 2012 fu eletto Presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani, regalando così ad al-Jazeera la più grande vittoria: far cadere un Presidente e sostituirlo con uno della Fratellanza. Un anno dopo, il 30 giugno 2013, scoppiarono violenti disordini contro Morsi e l’esercito li sfruttò per destituirlo il 3 luglio successivo. L’Emiro del Qatar, il padrone di al-Jazeera, che aveva saputo in anticipo il piano del rovesciamento di Morsi, rassegnò le dimissioni una settimana prima, il 25 giugno 2013, non sopportando la vergogna del proprio fallimento. Abdel-Fateh al-Sisi, Ministro egiziano della Difesa, era diventato così la persona più potente del Paese. Un Mubarak II, ma più gradito al popolo, per un motivo: tutti gli egiziani che non volevano il regime dei Fratelli Musulmani si attaccarono a lui come un naufrago a una scialuppa. Ora lui ha trascinato Morsi in tribunale, accusandolo di numerosi crimini, incluso l’omicidio di dimostranti, e intende candidarsi alla Presidenza nelle prossime elezioni che si svolgeranno a breve. Ma come potrà al-Sisi diventare Presidente se al-Jazeera continua a soffiargli sul collo e a divulgare una forte propaganda contro il nuovo regime? Sisi ha così preso le misure necessarie e nel secondo semestre del 2013 ha arrestato una ventina di dipendenti di al-Jazeera che operavano in Egitto, accusandoli di diffondere false informazioni, confiscando tutti gli strumenti tecnici per le riprese della sede egiziana per poi chiuderne gli uffici. Il Qatar, proprietario di al-Jazeera, ha mosso mari e monti per far liberare i giornalisti dal carcere egiziano, cercando aiuti presso le organizzazioni internazionali dei giornalisti, funzionari delle Nazioni Unite come Navi Pillay, presso l’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani, dal Ministro inglese William Hague, e persino da membri del Congresso Americano. Ma Sisi non si è scomposto. “ Non devo prendere lezioni di democrazia da nessuno, la libertà di stampa non è una licenza per diffondere falsità” – ha dichiarato – “ al-Jazeera non potrà andare lontano perseguendo l’obiettivo di far cadere il nuovo governo”. L’Arabia Saudita, che non ha mai concesso ad al-Jazeera di operare sul proprio territorio, ha concesso nel frattempo ad al-Sisi ingenti aiuti finanziari. Anche Hamas fa parte del quadro Qual’ è il collegamento tra la Fratellanza Musulmana in Egitto e Hamas? Ci sono punti in comune nell’ideologia e alcuni collegamenti personali, organizzativi e finanziari. Il fine di Hamas è la ‘liberazione’ della Palestina – compresa Tel Aviv e Haifa – e quello della Fratellanza è liberare il popolo egiziano dalla élite militare laica conquistò il potere nel giugno del 1952. Entrambi i movimenti condividono la visione apocalittica di un grande stato islamico che comprenda tutti i musulmani del mondo, con l’imposizione dell’Islam a tutta l’umanità. Oltre a questo non c’è molto altro in comune tra i due movimenti, anche se su Hamas è nata molta narrativa in questi ultimi anni. Per esempio, che fossero agenti di Hamas e Hezbollah coloro che fecero irruzione nelle prigioni di Mubarak nel gennaio 2011 per liberare i detenuti, Morsi compreso. E che stiano per ripetere l’operazione. Non credo che sia stato il movimento di Hamas a far esplodere recentemente in Egitto le auto bomba, anche se la polizia di al-Sisi ripete che Hamas si è unita alla Fratellanza per prendere il potere in Egitto. Ci sono notizie di alcuni esperti in esplosivi che hanno maturato la loro esperienza nelle strutture di Hamas, della jihad Islamica o altri gruppi a Gaza, che hanno operato nel Sinai prima che Sisi distruggesse i tunnel, e che hanno istruito le opposizioni in Siria e in Egitto, ma non credo che Hamas, come organizzazione, coltivi il progetto di abbattere il regime di Sisi, perché i capi di Hamas conoscono bene il prezzo che pagherebbero – personalmente e come organizzazione – se il complotto venisse scoperto. Se Hamas facesse azioni concrete contro i militari, la polizia o le forze di sicurezza, verrebbero chiusi tutti i tunnel, con la perdita delle tasse applicate al confine di Rafah ai beni contrabbandati, alle armi, alle munizioni, ai carburanti, alle valute. Sparirebbe anche tutta la logistica in Sinai. Avrebbero troppo da perdere a mettersi contro uno Stato come l’Egitto, governato ora un regime forte come quello di Sisi. Tuttavia il regime egiziano ha bisogno di un nemico esterno per spiegare i suoi limitati successi interni durante gli ultimi otto mesi: l’economia è stagnante, il terrorismo in Sinai sta prosperando (si veda l’attacco all’autobus dei turisti coreani ), il turismo non riprende quota, gli americani sono arrabbiati, gli Etiopi stanno togliendo acqua al Nilo, e Israele, che ha un accordo di pace con l’Egitto, non può essere incolpato per i problemi egiziani. A chi dare allora la colpa? Per fortuna ci sono i Fratelli Musulmani e Hamas. E dato che la colpa è loro, perché non confiscarne le proprietà? Gli egiziani impoveriti sanno che i palestinesi ricevono gli aiuti dall’UNRWA e il reddito pro capite a Gaza è molto più alto di quello in Egitto, così non capiterà nulla di grave se i palestinesi condivideranno il loro benessere con gli egiziani. Questa è la ragione per cui la confisca dei beni di Hamas in Egitto avrà l’appoggio dell’opinione pubblica, che è contraria alla Fratellanza, e in questo modo l’immagine del regime sarà rafforzata in vista delle elezioni presidenziali. E se a quest’ultima si aggiunge quella di Israele, gli iraniani saranno sempre più obbligati ad equipaggiare di nuovo Hamas con il meglio del proprio armamentario, recentemente sperimentato in Siria. E questo non aiuta né l’Egitto né Israele. L’Ucraina è qui I media arabi stanno seguendo gli avvenimenti in Ucraina con molto interesse. Putin sta di nuovo dando a Obama una lezione e carica come un toro senza limiti o confini. Non si preoccupa affatto dell’Europa e il pacifista Obama non riesce a smuovere nemmeno la punta degli ultimi capelli rimasti sulla testa di Putin. I media arabi vedono e mostrano nei loro programmi quello che noi in Israele abbiamo capito da molto tempo: l’Occidente è solo una tigre di carta, gli Stati Uniti hanno perso la loro forza e la coalizione guidata dalla Russia sta impadronendosi del mondo.
Netanyahu può parlare e mettere il mondo in allarme come ha fatto nell’incontro con l’AIPAC, e il Re dell’Arabia Saudita può alzare la voce fin che vuole, ma l’equilibrio del potere globale sta andando dalla parte della coalizione russo-iraniana e sarà questo fatto a dettare ad americani e europei ciò che accadrà in Medio Oriente. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
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