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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
07.03.2014 Ungheria: prove di anti-semitismo reale
Cronaca di Andrea Tarquini

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 07 marzo 2014
Pagina: 31
Autore: Andrea Tarquini
Titolo: «Intanto sulla Shoah l'Ungheria della volpe Orbàn fa prove di rimozione»

Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA, di oggi, 07/03/2014, a pag.31, con il titolo "Intanto sulla Shoah l'Ungheria della volpe Orbàn fa prove di rimozione" l'articolo di Andrea Tarquini.

In riva al Danubio, il "Monumento alle scarpe"

BUDAPEST- Idea suggestiva, un po' tra un cartellone teatrale d'epoca per Cabiria di D'annunzio e le statue del Foro italico: l'Arcangelo Gabriele, simbolo del bene, schiacciato da una perfida aquila imperiale, chiaramente teutonica Messaggio chiaro, chi è schiacciato dall'aquila è vittima innocente. Ma questa volta il mondo non è stato al gioco, per cui quel monumento perora non saràcostruito. Sembra un flashback di cupe memorie artistico-politiche degli anni Venti e Trenta, invece siamo ai nostri giorni. Quel monumento avrebbe dovuto sorgere a Budapest, per volere del governo nazionalpopulista, autocratico ed euroscettico del fortissimo, popolare premier Viktor Orbán. Inammissibile, hanno protestato gli ebrei ungheresi e poi il World Jewish Congress:lancia il messaggiodiun'Ungheria non colpevole né complice dell'Olocausto. E allora, a pochi mesi dalle elezioni politiche nazionali di aprile e dalle elezioni europee di maggio, prove che comunque egli è certo di vincere se non stravincere, Orbán per la prima volta da quando (aprile 2010) è alla guida dell'Ungheria, ha fatto marcia indietro. Il monumento per adesso non verrà costruito, hanno annunciato le autorità magiare. Per il momento, appunto, poi si vedrà. L'improvvisa ritirata tattica di Orbán ha sorpreso molti, e molti osservatori, nella debole opposizione ungherese come nelle cancellerie, da Berlino a Bruxelles, da Washington a Gerusalemme, sospettano un rinvio astuto: recider pour mieux sauter. Ma comunque, non era mai accaduto che Orbán - descritto da chi lo conosce, a cominciare dai suoi ex docenti universitari, come ambizioso, deciso a tutto, caparbio a dir poco - ci ripensasse in pubblico. Che cosa è successo allora, o meglio che cosa sta succedendo a Budapest, dove da tre anni tra controllo dei media con un'autorità-Grande fratello, esautorazione della magistratura e della Banca centrale, epurazione nei media pubblici, nell'amministrazione, presto anche nella polizia, il governo ignora e viola sistematicamente norme e principi della Carta europea? Tutto è cominciato col progetto. La statua dannunziana/stadio dei Marmi, appunto. L'intenzione attribuita subito a Orbán  dalla forte comunità ebraica (cominciando dal Mazsihisz, la sua maggiore organizzazione ufficiale) è stata quella di compiere un passo in più nel lento, continuo strappo e riscrittura della Storia. La graduale, palese riabilitazione dell'ammiraglio Miclós Horthy, già esaltato in un quadro equestre, in una mostra di arte ufficiale tempo fa, mentre in uniforme entra nella capitale. Horthy, chi era costui?, chiederete giustamente. Bene, era un ammiraglio ungherese della Regia e Imperiale marina austroungarica. Dopo il 1918 guidò le armate bianche ungheresi, appoggiate militarmente dalla Francia, contro la Repubblica dei consigli comunista di Béla Kun arrivata al potere a Budapest. Horthy vinse, entrò a Budapest e subito la chiamò con disprezzo Juda. Già ne1920,il suo parlamento emanò quelle che gli storici considerano le prime leggi razziali antisemite in Europa, quando Mussolini e Hitler erano ancora solo facinorosi fanatici all'opposizione. In guerra, Horthy fu il principale alleato militare del Reich nella Operazione Barbarossa (la guerra d'annientamento contro l'Urss). Finché nel 1944 i nazisti non si fidarono nemmeno di lui, invasero l'Ungheria e installarono un duro ancora più duro, l'ultrà razzista Imre Szalasi. La Resistenza fu marginale o meno, furono le armate sovietiche del maresciallo Konstantin Rokossovskij a deporre nel 1945 il fascismo ungherese. Ma no, dicono gli storici filogovernativi: Horthy cercò sempre di salvare il salvabile, l'unica macchia nera della Storia ungherese contemporanea fu il periodo senza indipendenza» dl 1944 al 1989 (fine del comunismo), e l'Olocausto in Ungheria avvenne solo dopo l'occupazione nazista. Quella del monumento, appunto. Prima, è giunto a dire Sándor Szakály, capo dell'istituto di ricerca storica Veritas, le azioni contro gli ebrei nel 1941 «furono controlli di docuimenti di migranti, non deportazioni».Infatti monumenti e strade dedicati a Horthy cominciano a  vedersi in varie città. La realtà allora però era diversa: soldati,  gendarmi, poliziotti ungheresi seminarono dal 1941 il terrore nei rastrellamenti, e nelle orrende rappresaglie antipartigiane contro i civili in Jugoslavia, Slovacchia, Urss, da Novi Sad dove 12 mila vecchi, donne e bambini furono uccisi con un colpo alla nuca e gettati in buchi scavati nel Danubio gelato (in I giorni freddi lo narrò il grande regista Miklós Jancsó, durante la blanda dittatura di Kádár) a Kosice, e altrove. Per ebrei, civili sospettati, o magari per giovani partigiane, come la minorenne russa Zoja Kosmodemjanskeja violentata a morte dalle SS, cadere in mano a soldati tedeschi o di Horthy non faceva tanta differenza. Quando gli ultimi di loro vengono scovati dal Centro Wiesenthal,  Budapest li assolve, li lascia morire  Iiberi fino alla vecchiaia cui le loro vittime non arrivarono.  «Ma no, tranquilli, noi vogliamo ricordare l'Olocausto e tutte  le vittime ungheresi» si è sforzato di rassicurare il premier. Nulla da fare: non verremo alle celebrazioni ufficiali, non accetteremo più un fiorino delle sovvenzioni governative, a questo punto sporche di sangue, ha risposto il Mazsihisz  Hanno ragione, ha incalzato il World Jewish Congress. Persino la diplomazia tedesca si è fatta sentire, confidenzialmente. Messaggio, in sostanza: Al tempo, noi saremo sempre i primi colpevoli, ma voi foste complici, non vittime come ebrei, polacchi o sovietici. Meglio non forzare la mano, deve aver pensato allora Orbán. Anche riflettendo sul ruolo-chiave degli investimenti tedeschi (Audi, Mercedes, Siemens) in Ungheria. Costruzione rinviata, faccia salvata. E ordine agli istituti culturali di celebrare, ma all'estero, martiri come il grande poeta Miklós Rádnoti, deportato e assassinato dai nazisti. Tutto bene, allora? Svolta a Budapest? No, non confondetevi. Certo, tutto suggerirebbe a Orbán un po' di moderazione conciliatrice: dalla crescita economica resa possibile appunto dagli investimenti tedeschi, giapponesi, sudcoreani e dalla flat tax di fatto classista, ai conti pubblici ben più in ordine di prima, fino alla debolezza delle opposizioni e ai sondaggi in cui egli vola. Invece no. Ha aperto la campagna elettorale dicendo: «0 noi o il ritorno del comunismo». Ha fatto varare una legge che punisce penalmente gli stranieri, anche della Ue, che acquistano sacro territorio nazionale magiaro, tanto peggio per gli agricoltori bavaresi o austriaci che investivano creando pil e lavoro. I suoi commentatori promettono un' Ungheria «che non si piega a Bruxelles o a Londra», parlano di «strategia euroasiatica perché la Ue dell'eurozona è in crisi». Il clima a Budapest, specie nelle vivacissime caves giovanili a sud del Ghetto, quasi evoca quello stato d'animo di ripiegamento in se stessi che segnò gli umori nell'Impero sovietico: emigracja wewrnetrma, emigrazione interna, come la chiamarono i grandi intellettuali polacchi, dai tempi dello Zar e del Kaiser fino al tramonto di Breznev. Al resto del panorama ci pensa Jobbik, il partito neonazista e antisemita, terza forza politica nello Orszaghàz, il Parlamento nazionale. Settimane fa hanno inscenato un'adunata in una Sinagoga-museo, nelle campagne la Magyar Garda vicina a Jobbik (ufficialmente vietata), sfila quando vuole e terrorizza i Rom. Rinviato il monumento, la Ue tace di nuovo: e via, il partito di Orbán è nei Popolari europei guidati dalla Cdu, mica fa paura come i radicali greci di Tsipras. Benvenuti sul bel Danubio blu, Europa: non solo nelle favole c'è chi perde pelo ma non vizi.

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