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La Stampa Rassegna Stampa
04.03.2014 I negoziati visti dai palestinesi: uno Stato unico binazionale
per cancellare Israele. Cronache di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 04 marzo 2014
Pagina: 15
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Ma la demografia favorisce gli israeliani - Il piano dei giovani palestinesi: 'Un solo Stato per arabi e ebrei'»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/03/2014, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Il piano dei giovani palestinesi: 'Un solo Stato per arabi e ebrei' " e la sua breve dal titolo " Ma la demografia favorisce gli israeliani ".
Ecco i pezzi:

" Ma la demografia favorisce gli israeliani "


Yoram Ettinger

Bennet ha detto di recente che «la bomba demografica palestinese non esiste perché la natalità ebraica supera quella araba». Sono affermazioni controcorrente rispetto all’opinione dominante e si basano sugli studi di Yoram Ettinger, ex diplomatico appassionato di demografia, secondo cui «a ovest del Giordano c’è una maggioranza ebraica del 66%, destinata a rafforzarsi». Nell’«EttingerReport» la tesi è motivata, sulla base di statistiche esistenti, con due argomenti. Primo: in Cisgiordania ci sono circa 1,7 milioni palestinesi, 1 milione meno di quelli ufficiali perché «negli Anni 90 l’Autorità decise di conteggiare i residenti all’estero da oltre un anno». Secondo: dal 1995 le nascite fra ebrei sono cresciute del 65% mentre fra arabi si sono stabilizzate, la media di figli delle donne ebree oggi è del 3,04 contro il 2,91 delle arabe e a Gerusalemme il distacco sale, 4,2 a 3,9.

" Il piano dei giovani palestinesi: 'Un solo Stato per arabi e ebrei' "


Maurizio Molinari      Abu Mazen mostra la mappa della Palestina. Secondo lui.

A metà strada fra El Bireh e Ramallah questo villaggio è una roccaforte di Al Fatah dove si riuniscono gli attivisti che non credono nella formula dei due Stati frutto degli accordi di Oslo, ritenendo più «giusta» la soluzione dello «Stato unico», una nazione con «arabi ed ebrei titolari di pari diritti».
Abu Mazen e Benjamin Netanyahu sono protagonisti di un difficile negoziato con gli Stati Uniti sullo «status definitivo dei confini» destinato a far convivere «due nazioni in pace e sicurezza» come previsto ad Oslo nel 1993, ma per gli attivisti di Nabi Saleh si tratta di un percorso perdente «che non porterà a nulla». Lema Nazeeh, 26 anni, è una dei leader del «Comitato di coordinamento della lotta popolare». Seduta sul muretto di un piccolo giardino, dove ogni venerdì gli abitanti di Nabi Sabeh si ritrovano prima di protestare contro gli israeliani, spiega di «non credere alla soluzione dei due Stati» perché «comporterebbe comunque di vivere fra barriere, posti di blocco e soldati». Quando Abu Mazen si è detto a favore di schierare i soldati della Nato nella Valle del Giordano, per facilitare un’intesa sulla sicurezza con Israele, la reazione di Lema, Ashira e Diana, assieme ad altri 300 militanti, è stata di andare a occupare le rovine del villaggio cananeo di Ein Hijleh, a ridosso del Mar Morto, per testimoniare che «su questa terra dobbiamo starci noi e non i militari Usa». Dopo una settimana le truppe israeliane hanno evacuato con la forza gli attivisti, ma Lema, Ashira e Diana - tutte sotto i 30 anni - non la considerano una sconfitta. «Le nostre proteste sono diverse - spiega Ashira, 29 anni e la passione per il giornalismo - perché siamo andate nella Valle del Giordano, come in precedenza nell’area E1 davanti a Maalei Adumim, per dimostrare di saper agire fuori dai villaggi arabi, sempre in maniera non violenta». Ovunque il messaggio è «il legame dei palestinesi con la terra» e porta a sostenere la «One State Solution». Lema lo spiega così: «Ciò che la gente palestinese vuole non è vivere dentro aree recitante, più o meno grandi, ma poter andare ovunque in Palestina, a Tel Aviv come ad Haifa, assieme agli israeliani». Ashira aggiunge: «Non abbiamo nulla contro gli ebrei, siamo pronti a convivere sulla stessa terra e nello stesso Stato, dove ogni cittadino godrà degli stessi diritti, ognuno avrà un voto, ma vogliamo poter arrivare fino alle spiagge sul Mediterraneo». Per molti israeliani ciò implica il piano di una conquista demografica della Palestina con la inesorabile distruzione dello Stato Ebraico. Ma Bassem Tamimi, 46 anni, veterano dell’Intifada con nove arresti sulle spalle, ribatte: «L’errore degli israeliani è stato nell’ideologia sionista di volersi costruire uno Stato-ghetto per separarsi dagli altri, invece su questa terra dobbiamo vivere assieme». Avendo più esperienza degli altri militanti, Bassem affronta anche il nodo politico dei possibili modelli istituzionali dentro la «One State Solution»: «Potremmo vivere negli stessi confini, ma magari avere due Parlamenti diversi dando vita a una sorte di federazione che potrebbe in prospettiva allargarsi anche alla Giordania» dove vivono almeno 3 milioni di palestinesi. «Ciò che conta è cambiare la prospettiva - aggiunge Bassem - la priorità è diritti umani per tutti, non la divisione della terra». Ecco perché il «Comitato di coordinamento della lotta popolare» ritiene che l’errore che i leader palestinesi devono evitare è «rinunciare al diritto al ritorno dei profughi del 1948». Fra i leader di riferimento hanno Sari Nusseibeh, ex rappresentante palestinese a Gerusalemme e docente di Filosofia all’Università di Al Quds, favorevole a «far restare in futuro i coloni israeliani nello Stato di Palestina perché chi fra loro è nato qui, appartiene a questo luogo».
Queste posizioni di opposizione alle politiche di Abu Mazen vedono affiancate persone con identità diverse: Bassem vive a Nabi Saleh dalla nascita e rappresenta la generazione che si è battuta in strada sin dalla prima Intifada mentre Lema è nata a Tunisi dal matrimonio fra uno dei capi della sicurezza di Yasser Arafat e una libanese, ed è arrivata a Ramallah solo dopo Oslo. Palestinesi della Diaspora e dei Territori sono arrivano alla conclusione che «chi ci guida deve cambiare formula, altrimenti resteremo fermi». La sfida ad Abu Mazen arriva da un villaggio imbandierato con i drappi gialli di Al Fatah, dove Jihad islamica e Hamas non sono mai riusciti a entrare, come dimostra il fatto che fra i circa 500 abitanti neanche un quinto frequenta la locale moschea. Per Bassem «almeno il 30 per cento dei palestinesi non crede alla soluzione dei due Stati» e «fra gli israeliani tale percentuale è perfino maggiore» anche se per ragioni differenti, a cominciare dalla sfiducia nell’affidabilità della controparte.
Poco dopo le 12 di ogni venerdì a ritrovarsi sulla piazzetta è gran parte degli abitanti per ripetere la sfida all’insediamento ebraico di Halamish, distante meno di 1 kg in linea d’aria. I militanti sfilano in corteo sulla discesa che porta fuori dal villaggio, puntando a raggiungere una fonte d’acqua nell’adiacente valle che l’esercito israeliano ha assegnato a Halamish mentre «era proprietà di uno dei cittadini di Nabi Saleh». Sulla strada trovano l’esercito che li ferma lanciando i lacrimogeni. Lema, Ashira, Diana e Bassem si disperdono per ritrovarsi poco dopo a casa di Halil, una palazzina biancastra trasformata nel museo degli scontri con i soldati, con tanto di raccolta di proiettili di gomma e lacrimogeni di ogni tipo. C’è chi ritiene che la terza Intifada potrebbe iniziare qui perché lo scontro sul controllo dell’acqua, e più in generale sulle risorse, è il nuovo capitolo della sfida fra i due popoli.
Ha collaborato Michele Monni


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