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La Stampa Rassegna Stampa
02.03.2014 Peter Lantos, sopravvissuto a Belsen
Intervista di Alain Elkann

Testata: La Stampa
Data: 02 marzo 2014
Pagina: 29
Autore: Alain Elkann
Titolo: «Scrivo del lager per ricordarlo a me stesso»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/03/2014, a pag.29, con il titolo "Scrivo del lager per ricordarlo a me stesso", l'intervista a Peter Lantos di Alain Elkann.

Peter Lantos      Alai Elkann

Ho intervistato Peter Lantos alla London Library in St James's Square, a Londra. E un superstite dell'Olocausto originario dell'Ungheria e vive a Londra da 45 anni. Scrive in inglese ed è un medico in pensione.
Dottor Lantos, è preoccupato per la rinascita dell'antisemitismo nell'Europa dell'Est? «Non posso parlare di altri Paesi, ma in Ungheria, dove ora mi reco in visita una volta all'anno, c'è un partito di estrema destra, che si chiama Jobbik ed è antisemita e xenofobo, e che rappresenta il 17% del voto popolare. Hanno chiesto una lista di ebrei ungheresi influenti nella vita pubblica che possono rappresentare un rischio per la sicurezza per il Paese. E questo è successo in Parlamento». Lei ha passato l'infanzia a Mako, una città ungherese da dove, nel 1944, è stato deportato dai nazisti insieme ai suoi genitori nel campo di concentramento di Bergen Belsen. Ha scritto di questa esperienza nel bestseller«Parallel Lines «Ma in realtà fummo deportati dagli ungheresi sotto il controllo dei nazisti: la Germania invase l'Ungheria il 19 marzo 1944 e questo diede il via nel Paese alla Soluzione finale. In Ungheria c'erano già leggi antiebraiche dal 1938, ma iniziammo a indossare la stella gialla solo nel 1944». Perché, secondo lei, gli ebrei, in molti Paesi, non sono andati via prima? «Perché sembrava incredibile che 11 milioni di ebrei che avevano una vita normale potessero essere uccisi in massa nel bel mezzo dell'Europa. Era impensabile. In Ungheria c'erano 800 mila ebrei: nel maggio 1944, 450 mila furono deportati a Auschwitz e non fecero mai ritorno. Altri 100 mila finirono in altri campi di concentramento. Ne morirono circa 500 mila». Dopo la guerra la gente non voleva sapere dei sopravvissuti all'Olocausto? «Quando mia madre e io (mio padre morì a Belsen) tornammo in Ungheria non parlammo mai dell'accaduto. Solo da adolescente ho cominciato a fare domande». Perché? «Dopo la guerra, in Ungheria abbiamo avuto una dittatura comunista e l'intero evento è stato archiviato come un crimine del fascismo. La portata di quello che era accaduto non è stata pienamente compresa fino ai primi Anni Sessanta». Pensa che la memoria dell'Olocausto verrà cancellata? «Sarà un fatto storico. Questo è il motivo per cui ho deciso di scrivere, per me stesso, una memoria di ciò che è accaduto. Ero un bambino e la mia memoria era limitata: sono tornato in tutti i posti dove eravamo stati nel 1944-1945. E ho conosciuto alcune persone che erano lì allora». II regime comunista era duro come quello nazista? «Era molto difficile vivere sotto il regime comunista ma non era la stessa cosa. Solo nel 1954-1955 ha cominciato a mostrarsi più liberale». Perché si è trasferito a Londra? «Ho avuto la fortuna di avere un incarico come praticante medico nel 1966, ma non ho potuto lasciare l'Ungheria prima del 1968». Lì è diventato un ricercatore specializzato nello studio del cervello? «Sì, ho iniziato a lavorare sui tumori al cervello e ho ottenuto un dottorato all'Università di Londra nel 1973. Nel 1976 ho avuto la libera docenza come consulente. Nel 1979 ho ottenuto una cattedra all'Istituto di Psichiatria. Sono specializzato in malattie neurodegenerative come l'Alzheimer, il Parkinson e in particolare in una malattia chiamata atrofia multi-sistemica. Con un collega ungherese ho descritto mutamenti nel cervello che ora sono chiamati "Inclusioni Papp-Lantos"». Qual è il rapporto con la sua identità ebraica? «Mi sono sempre sentito ebreo e il fatto che sono finito a Belsen me l'ha reso ancora più evidente, ma non sono mai stato religioso. Quando sono andato in pensione avevo una lista di cose da fare. Due importanti: una era la memoria di Belsen, cercare di ricostruire quello che era successo; la seconda era celebrare il Bar Mitzvah che non avevo avuto in Ungheria. E ho fatto anche questo, prima del mio settantesimo compleanno». Come si sente in Inghilterra? «Mi sento come a casa, forse perché in questo Paese ho avuto molte possibilità. I britannici mi hanno dato quello che non avrei avuto in Ungheria, dove non avrei mai avuto una cattedra universitaria, per quanto bravo potessi essere. La mia famiglia era considerata capitalista, perché avevamo un'impresa». Cosa la preoccupa oggi? «Ci fu un momento di euforia nel 1989, dopo il collasso del comunismo. Si pensava che l'Europa sarebbe stata un luogo più tranquillo e pacifico. Sfortunatamente non è andata così. La Jugoslavia è stato il primo, terribile, esempio, la Georgia e l'Ucraina sono gli altri. Se si vuole essere pessimisti basta dare un'occhiata alla Corea del Nord. E una lista molto lunga, ma comunque bisogna sempre sperare che le cose andranno meglio».

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