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La Stampa Rassegna Stampa
01.03.2014 I filosofi di Hitler
Gli intellettuali al servizio del nazismo

Testata: La Stampa
Data: 01 marzo 2014
Pagina: 5
Autore: Massimiliano Panarari
Titolo: «Filosofia über alles sulle tribune del Terzo Reich»

Riprendiamo da TUTTOLIBRI-LASTAMPA di oggi, 01/03/2014, a pag.V, con il titolo " Filosofia über alles sulle tribune del Terzo Reich", la recensione di Massimiliano Panarari al libro "I filosofi di Hitler", pubblicato da Bollati Boringhieri. Stralciamo dal testo "... E non mancarono, come risaputo, anche le autentiche star della cultura, come i titanici ma collaborazionisti Carl Schmitt e Martin Heidegger, smaniosi di imprimere il loro marchio e di dirigere intellettualmente il nazionalsocialismo. " Il diffusore del pensiero di Heidegger in Italia è stato Gianni Vattimo, la cui propaganda contro Israele è ben nota.

 

Tra le tante, mostruose, operazioni di brainwashing condotte dal nazionalsocialismo ce ne fu anche una realizzata a colpi di «idee filosofiche». La filosofia in Germania è sempre stata una cosa assai seria e importante, e i pensatori, lungo la storia di quella nazione, molto più che altrove, hanno assunto e svolto un ruolo di opinion-leader in grado di influenzare la mentalità collettiva. Perciò si rivela di interesse l'intricata vicenda raccontata dalla ricercatrice dell'Università di Oxford Yvonne Sherratt ne "I filosofi di Hitler", un libro dallo stile fortemente narrativo e avvincente, e a cui l'autrice ha voluto imprimere un andamento simile a quello di una sorta di docudrama. L'adesione o la compromissione con il regime nazista - per ragioni molteplici, dalla xenofobia al narcisismo, dall'ambizione sfrenata al delirio ideologico - di parecchi dei nomi che affollano queste pagine è ampiamente conosciuta, e dunque la particolarità del volume risiede nella restituzione vivida del clima e del contesto della Germania degli anni Trenta (oltre che nel considerevole lavoro di documentazione, compiuto trascorrendo anni all'interno di vari archivi). Il primattore di questa immane tragedia è il futuro führer, il quale, nei pochi mesi trascorsi in cella nel corso del 1924, prima della sua (probabilmente resistibile) ascesa, si dedicò alla stesura del Mein Kampf (destinato a trasformarsi rapidamente in un nefasto e orrido best-seller), procedendo a un'«invenzione della tradizione» e a una riscrittura manipolatoria della propria biografia e cogitando anche sulla funzione della cultura e, in special modo, della tradizione filosofica nella formazione dell'«autentico spirito germanico», ove svettavano quali suoi «depositari» innanzitutto Kant, Hegel e, naturalmente, Nietzsche. Recluso in carcere come sobillatore di violenze di piazza e agitatore, Hitler aveva divorato i teorici del biologismo e del razzismo allora in voga - de Gobineau, de Lagarde, Langbehn, Houston Stewart Chamberlain - e anche i testi di due figure che brillavano nel firmamento della destra europea come Oswald Spengler e lo storico «militarista» Heinrich von Treitschke. Dopo essersi appropriato di una serie di parole d'ordine di Nietzsche (e anche di vari suoi oggetti personali, consegnatigli dalla novantenne sorella del pensatore defunto), il desiderio di Hitler di atteggiarsi anche a «capo filosofo» dei tedeschi divenne incontenibile. E la strategia culturale del Terzo Reich si sviluppò così nell'intreccio tra l'utilizzo strumentale dei grandi del pensiero tedesco (da Fichte a Schiller, da Schopenhauer a Wagner convertito in musicista ufficiale del regime), il recupero e la promozione massiccia di ogni dottrinario della purezza della «razza ariana» e dell'antisemitismo (di odio nei confronti degli ebrei, per portare un esempio, era pervaso anche il famoso logico, e progenitore de facto della filosofia analitica, Gottlob Frege), la popola-rizzazione dell'influente darwinismo sociale dello zoologo (e fan dell'antica Sparta) Ernst Haeckel e il lavoro di una costellazione di intellettuali al servizio della macchina di potere nazista, tra romanticismo pagano e nazionalismo biologico (con correlati giustificazionismi filosofici, per l'appunto, e giuridici). Alcuni dei suoi interpreti risulteranno (tristemente) noti ai posteri, come Alfred Rosenberg (soprannominato il «filosofo», e teorico per eccellenza del razzismo e della distruzione della democrazia), e altri meno, da Hans Friedrich Karl Giinther all'eugenista Alfred Ploetz, da Alfred Báumler (l'esegeta n. 1 del nietzscheanesimo «versione nazi») a Ernst Krieck (incaricato del processo di nazifecazione delle università), tutti sgomitanti per acquisire benemerenze davanti ai gerarchi e un posto al sole sulla plancia di comando intellettuale, accademica ed editoriale del nuovo ordine hitleriano. E non mancarono, come risaputo, anche le autentiche star della cultura, come i titanici ma collaborazionisti Carl Schmitt e Martin Heidegger, smaniosi di imprimere il loro marchio e di dirigere intellettualmente il nazionalsocialismo. In questa doviziosa genealogia culturale del totalitarismo, l'autrice si occupa inoltre di alcuni intellettuali simbolo, perseguitati e oppressi dal Behemoth nazionalsocialista: Walter Benjamin, Theodor W. Adorno, Hannah Arendt e il martire Kurt Huber (il filosofo e musicologo, componente della resistenza della Rosa Bianca, che venne giustiziato nel '43). E si sofferma anche sulla reazione feroce di porzioni significative degli ambienti culturali alla denazificazione voluta dagli Alleati (di cui furono testimonianza eclatante gli ostacoli frapposti al reintegro di Adorno, che dovette attendere addirittura il 1957 per avere la chiamata da professore ordinario all' Università di Francoforte) e sulla pervicace sopravvivenza (fino ai giorni nostri) di un antisemitismo più o meno occultato in taluni settori - talora dall'apparenza assai «rispettabile» - dell'istituzione accademica.

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