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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Haim Baharier, La valigia quasi vuota 24/02/2014

La valigia quasi vuota            Haim Baharier
Garzanti                                     euro 14,90

«Qualcuno in quei tempi lontani, di Chouchani trattenne l’eccezionalità, il suo essere il meglio, e in essa si consolò. Chouchani accecava ogni individuo che incontrava. Solo collettivamente, insieme, quei reduci facevano schermo e riuscivano al di là delle scintille, e per mezzo di queste scintille, a coglierne l’essenza: la claudicanza». Chi è questo monsieur Chouchani (si pronuncia Sciuscianì)? È una figura gigantesca, e profondamente enigmatica, giusto per accrescerne il carisma. L’aspetto trasandato, quasi repellente, da clochard, i pochi che l’hanno conosciuto lo descrivono come un genio talmudico: sapeva tutto, di ogni materia. Di lui Emmanuel Lévinas ha detto: «Incontrarlo era come entrare in contatto con un genio nel senso assoluto della parola; era un uomo che poteva tenere insieme un numero molto vasto di idee senza essere soggetto alla costrizione di condurle a un esito conclusivo. Era come se il Talmud fosse presente dentro di lui, incorporato, vivente».
Dopo appena poche pagine de La valigia quasi vuota di Haim Baharier (Garzanti), abbiamo la certezza di trovarci di fronte a un essere indistruttibile, vocato a eterne interpretazioni (come vuole il Talmud), a torsioni di significato, uno di quei rari personaggi che camminano sul crinale fra storia e leggenda. Nello sconvolgimento che suscita, Chouchani è una grande occasione per sfuggire all’opprimente banalità della ragione.
La sua figura di zoppo senza età e senza patria, un apolide più etico che metafisico, sempre avvolto in uno sdrucito paletot, il terrore che suscitava, specie nei bambini, il disgusto che accompagnava il suo aspetto ci ricordano la parabola trasparente e misteriosa de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, ma la figura di Chouchani, il «clochard lunare», come lo definisce il suo autore, non si idealizza nella letteratura: dura come un diamante, ci ricorda che il limite di ogni conoscenza è una conoscenza più grande, il limite di ogni dolore è un dolore più grande.
La valigia quasi vuota è un libro singolare e profondo, procura un senso di vertigine perché è anche il confronto fra due grandi personalità, è il coraggio teologico di affrontare non un rischio ma il Rischio.
Nato a Parigi (cresciuto nella «Parigi dei primi anni Cinquanta… Ebrei da ogni dove, Polonia, Lituania, Germania. Tra questi i miei genitori, entrambi scampati ad Auschwitz. E poi noi, io e mio fratello… La nostra lingua madre era una lingua straniera»), Haim Baharier, matematico, psicoanalista, ma anche commerciante di preziosi e consulente aziendale, è tra i principali studiosi di ermeneutica biblica e di pensiero ebraico. E Chouchani visse a Parigi, fra quei reduci, poi scomparve, svaporò, lasciando in eredità la sua leggenda. Baharier, da adolescente, è stato il primo a scriverne, prima ancora dei libri inchiesta e della enorme fioritura aneddotica. Adesso, a distanza di molti anni, quel fantasma «stropicciato» ritorna, prepotentemente, come un conto mai chiuso.
Prima i ricordi: quando arrivava a casa loro, il piccolo Haim non era contentissimo. Abitavano in una «reggia» di 35 metri quadri e all’arrivo di Chouchani doveva cedergli il letto. Anche sua madre mostrava segni di nervosismo, ma per suo padre quel clochard era un uomo da rispettare e con cui discutere per ore. Erano colloqui che non finivano mai, impenetrabili: «Si elevano preghiere ai cieli, parole, per incontrare l’incomprensibile. Chouchani fu dissacratore per eccellenza perché con lui funzionava l’inverso: si usava l’incomprensibile per incontrarlo». Parlava moltissime lingue, un poliglotta alla Émile Benveniste. Avrebbe potuto sostituire docenti all’università in qualsiasi materia. Lévinas diceva: «Tutto quello che io so, lo sa anche Chouchani. Quel che sa lui io non lo so». Poteva parlare di Bagdad o di Mosca come se in quelle città fosse sempre vissuto. L’accattone, lo scroccone, lo «schnorrer» mendicava accoglienza in cambio di sapienza.
Ma a Baharier non interessa alimentare la favola del santo bevitore; mette persino in dubbio l’autenticità della tomba del clochard sapiente a Montevideo, su cui Elie Wiesel avrebbe fatto scrivere questo epitaffio: «Il savio maestro Chouchani di benedetta memoria. La sua nascita e la sua vita sono chiuse in un enigma».
Il centro della riflessione de La valigia quasi vuota è la claudicanza di Chouchani, non un difetto fisico ma l’essenziale della conoscenza: «La claudicanza la considero una condizione comune a tutto il genere umano; a imitazione non dell’imperfezione ma della perfettibilità, intesa come percorso. Ce lo suggerisce la Torà. È nella Genesi. Quando vennero creati luna e sole, essi furono all’inizio ugualmente grandi, ci dice il testo, i due grandi luminari del cielo. Ma la luna protestò: due sovrani non possono fregiarsi della medesima corona. Hai ragione, rispose il Creatore, vai e rimpicciolisci! Diventa claudicante. La claudicanza di cui parlo è una fiera menomazione, perché grandezza e precarietà non sono in alternativa, ma costituiscono il modus vivendi dell’uomo responsabile». Per questo Baharier chiama Chouchani «un clochard lunare» (il calendario ebraico segue le fasi della luna).
La claudicanza è la capacità di rimpicciolirsi senza per questo diminuirsi, è la capacità di fare un passo indietro, avvicinarsi alle sorgenti inviolate della vita in precario equilibrio. E si può accogliere l’altro, dargli parte del proprio spazio, senza per questo sentirsi impoveriti. Questa la grande lezione biblica di Chouchani: «Cosa rese Chouchani il geniale claudicante che tutti conobbero? Sappiamo che il giovane Giacobbe, non ancora patriarca, comprò con un piatto di lenticchie la primogenitura dal fratello Esaù. E anni dopo, quando Esaù furente lo cercherà per vendicarsi, Giacobbe, alla vigilia dell’incontro, lotta con l’angelo protettore del fratello e lo sconfigge. L’angelo, riconoscendolo degno avversario, lo tocca sull’anca e lo lascia zoppo. Da quel momento in poi l’essere claudicante costituirà la sua integrità. L’essere zoppo non gli farà abbassare lo sguardo».
Persino l’umorismo è una concausa della claudicanza. Il verbo «ridere» in ebraico non è transitivo, ma riflessivo: non si ride dell’altro ma di sé, il riso nasce da un propria contraddizione, da una propria inadeguatezza.
Nella valigia quasi vuota lasciata in eredità da Chouchani, più simile a un povero scatolone, c’è anche racchiuso l’arcano della scrittura, che si muove come le onde del mare, indietreggia e avanza, sparisce e riappare fra ritrosia ed emergenza, sempre tesa verso l’assoluto, anche quando si fa claudicante.

Aldo Grasso
Corriere della Sera


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