Le trattative di pace e la logica del suk
Cartoline da Eurabia,di Ugo Volli
Cari amici,
siete mai stati in oriente? Vi è mai capitato di comprare qualche cosa in un suk? Non il solito souvenir, ma qualcosa di un po' più importante, chessò, un tappeto, un oggetto di artigianato? Sapete come si fa? In merito c'è una grande letteratura. La cosa sicuramente sbagliata da fare è quella tanto comoda che fareste nel supermercato sotto casa: guardare l'etichetta, vedere quanto costa, decidere se vi interessa o meno, nel caso positivo dire “prendo qurllo” e mettere mano al portafoglio.
Comodo, ma sbagliatissimo, anche perché le etichette nei suk non ci sono, e bisogna chiedere. Ma è un errore anche chiedere semplicemente il prezzo di quel che vi interessa. Bisogna procedere a manovre aggiranti, parlare d'altro, chiedere di altre cose poi, quando casualmente viene fuori il costo di ciò che volete, esprimere un netto rifiuto, fare il gesto di andarsene, accettare a malincuore il richiamo del negoziante, offrirgli un prezzo estremamente inferiore al suo, con l'aria di fargli un favore, poi negare ancora la sua controfferta e andare avanti così per tutto il tempo necessario, senza avere fretta.
Anche lui negherà di volere o potere vendere, tirerà fuori dei pretesti, vanterà la merce come preziosissima...
Come la cerimonia del the in Giappone, così la trattativa in un mercato orientale è un fatto culturale, con regole assai precise, o se volete una sorta di guerra o di partita di poker in cui vince chi è bravo a imporre la sua visione, il suo ritmo, la sua capacità di definire la relazione. Può essere un divertimento, per chi ama questo tipo di relazioni tortuose, o una tortura per chi non si diverte o non ha tempo da perdere. Comunque è un passaggio obbligatorio per non farsi spennare.
Perché vi racconto queste cose? Perché anche e soprattutto una trattativa politica in Medio Oriente funziona così. Le richieste sono esagerate, i rifiuti clamorosi, le rotture continue. Conta soprattutto il fatto di imporre la propria agenda, di portare l'altro sul terreno che è importante per sé e ostico per lui. Questo è il gioco che si sta svolgendo in questo momento fra Autorità Palestinese, Usa e Israele. Gli arabi dell'Anp queste cose le hanno nel sangue e le praticano con naturale abilità. Israele cerca di stargli dietro, ma dubito che ci riesca; l'America è come un turista da spennare in un negozio di antiquariato al Cairo o a Istanbul.
In realtà il gioco è vecchio ed è stato fatto molte volte ai danni di Israele. Pensate che dopo la prima Guerra Mondiale nella spartizione delle terre occupate dall'Impero Ottomano (che era ancora uno spazio enorme in teoria, dallo Yemen all'Armenia), era stato previsto, oltre a Stati per i Curdi e per gli Armeni, che avrebbero evitato tante tragedie successive, anche uno spazio per il popolo ebraico che doveva comprendere tutto l'attuale Israele inclusa Giudea e Samaria, e anche tutta l'attuale Giordania.
Quella doveva essere la nuova-vecchia patria degli ebrei, che li avrebbe sottratti alle persecuzioni in Europa e se ci fosse stata avrebbe evitato la Shoah.
Gli arabi presenti sul territorio avrebbe goduto di diritti politici e civili e religiosi, ma i loro stati indipendenti sarebbero sorti tutt'intorno dalla Siria all'Arabia all'Egitto. Questo non era un pio desiderio, ma un trattato fra le potenze (San Remo) una delibera vincolante della Società delle Nazioni, l'organismo internazionale di cui l'Onu ha accolto interamente l'eredità giuridica.
Si tratta della sola base giuridica vincolante per la delimitazione degli stati in Medio Oriente, quella che ancora è la vera base legale dell'esistenza di Israele. Come è noto, due anni dopo aver ricevuto il mandato di costituire questa patria ebraica, la Gran Bretagna iniziò a smantellare il progetto, per favorire la sua presenza coloniale fra i popoli arabi (come del resto si rimangiò l'istituzione di uno stato armeno, che sarebbe sorto solo dopo il crollo dell'Urss e di uno curdo, che sembra prendere forma solo ora). Diede l'ottanta per cento della Palestina mandataria alla famiglia degli ex custodi della Mecca, cui aveva assegnato anche il regno dell'Iraq, e ritagliò per questa uno stato mai esistito, la Giordania.
Il movimento sionista, interessato soprattutto a garantire l'insediamento, subirono quel primo brusco salto negoziale, sperando che il resto fosse loro garantito: c'era ormai uno stato arabo ritagliato dal Mandato di Palestina, quel che restava era poco, la dimensione di un paio di regioni italiane ritagliate da un territorio con dimensioni superiori a quelle dell'intera Europa. E invece non andò così. Gli arabi rivendicavano e rivendicano l'intero territorio, minacciando non di andarsene come nelle trattative del Suk, ma di ammazzare tutti gli ebrei (e cercando anche di farlo). I britannici e la società internazionale accettarono sempre più queste richieste, e il movimento sionista abbozzò sempre.
Parte del territorio fu riconquistato nelle guerre difensive che Israele dovette subire, spesso ceduto in cambio di paci fragili e fredde (così il Sinai con l'Egitto). Israele ha sempre vinto le guerre, se no non ci sarebbe un ebreo vivo da quelle parti, ma ha sempre perso le trattative, perché ne ha subìto i termini, secondo la logica del suk, in particolare ha subito l'impostazione che si trattasse di discutere la “restituzione” di territori “occupati”, e non il riconoscimento del pieno diritto all'esistenza di uno Stato ebraico sui suoi territori storici.
Nella trattativa attuale Netanyahu è riuscito a imporre alcuni temi centrali: il riconoscimento non semplicemente di uno Stato chiamato Israele, ma della sua natura di “patria nazionale” (national home, nei termini della dichiarazione Balfour e del trattato di San Remo) del popolo ebraico; e poi il problema, evidentemente fondamentale, della sicurezza di uno Stato che da sessantasette anni (da quando si è costituito) e anche da prima della sua esistenza formale (cioè dagli anni Venti del Novecento) è stato aggredito in tutti i modi possibili: con guerre tradizionali e campagne terroristiche, aggressioni individuali e battaglie politiche e giuridiche, con le bombe, i coltelli, le pietre, i carrarmati, gli aerei e gli avvocati.
Non a caso di fronte a questa posizione ferma, la parte araba, da un lato fa da specchio alle posizioni israeliane, rivendicando certe volte in maniera assolutamente ridicola, un'antichità e un legame storico (e naturalmente un'identità nazionale) che sono pura invenzione della tradizione, come le definisce la storiografia contemporanea.
E dall'altro, minacciando continuamente di rompere le trattative, di andarsene, di passare alla guerra aperta (questa sarebbe la famosa terza intifada, di cui ha parlato anche Kerry).
Questo è lo stato delle trattative nel suk chiamato negoziati di pace. Kerry, da americano un po' presuntuoso e col portafoglio gonfio, crede di risolvere tutto decidendo lui qual è il prezzo giusto, come se per comprare un tappeto dicesse che cosa intende pagare, senza rendersi conto che questa sua dichiarazione sarà usata contro di lui.
Israele questa volta sembra difendersi almeno un po' meglio di quanto disastrosamente fece Rabin e dopo di lui Barak e Olmert.
Ma la trattativa non è finita nonostante le numerose dichiarazioni provenienti dall'Anp sul fatto che siamo alla rottura. Proprio questo conferma che siamo in pieno suk. Se il risultato varrà il prezzo, lo vedremo fra qualche mese.
E però bisogna ricordare questo: che nei mercati arabi è meglio non comprare che comprare male, almeno per chi sta da quelle parti. Perché il mercato è sempre lì e si può ricominciare, non esistono le “ultime occasioni” come pretende Kerry. Mente, un oggetto comprato a prezzo eccessivo (o un accordo sfavorevole) resta lì e non si può più liberarsene.
Ugo Volli