Le radici del razzismo più profonde di quanto si crede I compromessi con il nazi-fascismo di Usa e Vaticano
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera Autore: Roberto Saviano - Enrico Manicucci - Francesco Margiotta Broglio Titolo: «E John Kennedy scrisse dall’Europa: 'Bene il fascismo, giusto il nazismo' - Chiesa e razzismo negli anni più bui»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 20/02/2014, a pag. 55, l'articolo di Roberto Saviano dal titolo " Un nazista piccolo piccolo ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 45, l'articolo di Enrico Manicucci dal titolo " E John Kennedy scrisse dall’Europa: «Bene il fascismo, giusto il nazismo» ", l'articolo di Francesco Margiotta Broglio dal titolo " Chiesa e razzismo negli anni più bui ". Ecco i pezzo:
La REPUBBLICA - Roberto Saviano : " Un nazista piccolo piccolo "
Roberto Saviano Giorgio Falco, La gemella H (ed. Einaudi)
Ogni lettore lo sa, c’è una sola parola per definire un libro, il suo tono costante, l’emozione che ti dà, la vibrazione di fondo: la sua musica. E quella parola arriva, o non arriva. E questo imponente La gemella H del quarantenne Giorgio Falco? Da giorni è sul mio tavolo, con la sua copertina sommessa, sui toni del grigio, dove una natura morta di tre mele, una delle quali ancora più morta, sembra suggellare un titolo quasi da referto medico, da obitorio, da catalogo apparentemente anaffettivo di merci, da cartellino, misterioso: La gemella H,appunto. Ma le gemelle, non si chiamavano sempre in coppia? Leggo questo romanzo e finalmente la parola si accende in testa, in contrasto forte con quel grigio sommesso. La parola è semplice, assoluta. Arriva precisa, a dare un nome a ciò che di più mi avvince in questa lettura. E insieme prende forma, pagina dopo pagina, una ignota creatura barbarica selvaggia e paurosa, anch’essa a un passo dai peggiori incubi del poeta Yeats, se non del narratore Lovecraft. Emerge da subito come isola d’inchiostro da queste frasi l’unica cosa che realmente riusciamo a conoscere in questa vita, che ci segna il corpo e l’anima, che ci trasforma da due gemelle in una sola creatura, la cosa capace di tutte le meraviglie e i tremori, quell’unica cosa che, scriverebbe Falco, mai ci ha tradito: la merce. Tutto il resto tradisce, la merce no. Con la merce, con le cose da consumare, il mondo inizia ogni volta, nella magia dell’attesa. Che cosa sta per arrivare? Che cosa voglio consumare, che desiderio mi si accende oggi? Forse il desiderio per la villetta del mio vicino, così uguale alla mia. E il mio vicino ebreo possiede una Mercedes Autobahnkurier, che io non posso nemmeno sognare di permettermi. Nuova, nuovissima. Chissà come può permettersela. Chissà come è bello correre con quel gioiello di pelle sontuosa e tecnologia verso il futuro che ci attende nel mondo, in questa nuovissima Germania di questi anni Trenta. Correre sulla Autobahn, sulla nuova autostrada appena inaugurata dal Reich, così nuova che non ci corre ancora quasi nessuno, e gli uccelli ancora nemmeno hanno imparato le nuove traiettorie, per salvarsi. Ma fermiamoci un momento, per capire come lavora il romanzo, con le parole di Falco: «Hans Hinner adora quella macchina, a cominciare dal nome, Autobahnkurier. Ama la carrozzeria nera della Mercedes, vorrebbe guidarla, immagina la campagna lungo l’autostrada, le fattorie contadine viste dal parabrezza, e come appare il cielo, nel tettuccio apribile». Sì, siamo in pieno nazismo. Ma lo vediamo come non l’avessimo visto mai. Con gli occhi e la memoria della gemella H, la Hilde figlia di Maria in inscindibile ma conflittuale simbiosi con la madre (ma appunto con laMutter,la madre, e non con laMutti,la mamma, come è per la più accomodante gemella Helga): figlia destinata quindi a vivere tutta la vita all’ombra di Helga, la gemella non deviante, non ribelle, nata un battito di ciglia prima di lei. Hilde, voce narrante da grande romanzo ottocentesco e contemporaneo, che sa annettersi passato e futuro in un eterno presente narrativo e totalitario che unisce ogni epica del passato ai trasalimenti, alle illuminazioni, alle bugie e ai bagliori della vita quotidiana. E passa così quasi un secolo di storia di una famiglia. Dal giorno lontano in cui il fondatore della famiglia, reduce zoppicante e astioso ritorna, quasi nemmeno riconosciuto, dal fronte della Prima guerra mondiale, ai giorni di oggi in Italia: il Paese semigemello ma inferiore del Terzo Reich tedesco dove le gemelle H (sta per il cognome del padre, Hinner, oltre che per le iniziali dei loro nomi) si sono trasferite prima che la guerra distruggesse, forse, il nazismo. Sempre fingendo di non sapere, il padre in testa, che portavano il Male con sé, non l’hanno mai dismesso, mai davvero se ne sono pentiti, anzi forse era questa la missione vera, portarlo con sé ovunque. Giorgio Falco ambienta tutto in una città immaginaria sedimentata dall’immaginazione di tutte le cittadine tedesche: Bockburg, culla dell’intero libro. E culla della famiglia Zemmgrund, da cui nasce la madre delle gemelle H, e degli Hinner, da cui nasce il padre, Hans, deciso a sostituire al martello, al ferro e alla austera tradizione di suo padre, fabbro che non simpatizza con il nazismo, il ben più redditizio, ed efficace, martello della menzogna, della parola pervertita e del giornalismo di regime – pagine, queste sul giornalismo come arma contundente, davvero da declinare al presente, nella mente del lettore. Forse, fa capire la voce narrante, davvero tutto è cominciato da lì? Dalla perversione delle parole in menzogna? Questo, intanto, è il ritorno del capostipite a Bockburg nella memoria illimitata diHilde. «Maria Zemmgrund, mia madre, nasce a Bockburg, Baviera, Germania, nel 1909. Figlia di Michael Zemmgrund e di Christa Wissens. Michael combatte la Prima guerra mondiale come soldato di fanteria. Torna a Bockburg nel 1918, il volto è invecchiato di quattro anni, ma le mani sono più curate che alla partenza, quando lasciano la fabbrica. La gamba destra invece è zoppa». Nell’infanzia povera, «sdraiata nel letto, accanto a suo fratello Peter, la bambina Maria Zemmgrund sogna un’altra vita». Conosce Hans. Condivide, debolmente, i sogni di lui. Lo sposa e lo segue nella sua carriera nazista. Cambiano casa. Cominciano a vivere nel benessere. Ed è a questo punto che possono nascere le gemelle. Siamo nel 1933, e nella sua memoria illimitata Hilde può ben dire, raccontando il giorno del parto: «Noi siamo le nuove cose necessarie». Non figlie, non bambine. Le nuove cose necessarie, destinate ad «assecondare il flusso di eventi travestiti da soldi», non sotto un banale e classico cielo stellato ma in un altro luogo, dove «il mondo è un soffitto di soldi, le banconote sono le ultime stelle disponibili cadenti ». Intorno a loro il nazismo fa sempre più presa e se ad alcuni appare come «un passatempo ginnico domenicale, un divertimento da ragazzi, la banda, l’intervento di oratori e l’attesa del tramonto, quando agli ultimi raggi nel cielo si uniscono le lingue di fuoco e fumo fino ai primi piani delle case», per il padre delle gemelle è una occasione da accogliere. L’occasione che i più non sanno vedere, privi di visione, destinati a rimanere semplici parti dell’ingranaggio, privi di vero desiderio e di festosa comunione con la merce, con l’avvenire radioso. «Funzionari statali, impiegati pubblici, operai, ferrovieri, reduci della Prima guerra mondiale, commercianti, commessi, fattorini, artigiani, agricoltori, braccianti: tutti sostano con gli abiti delle loro precedenti occupazioni, compongono le lunghe file di disoccupati, che diventano un’unica massa, chi con divise operaie, chi con cappotti e soprabiti grigi, che lasciano intuire un passato in qualche azienda, ex contabili o capireparto o venditori sconfitti al termine di una competizione aziendale in un grande magazzino, in un’azienda farmaceutica o automobilistica, in una fabbrica la cui dirigenza è scontenta per la lieve flessione dei ricavi, e ora i cappotti e i soprabiti manifestano il decadimento dei soldi e degli uomini». Indimenticabile Bockburg, cittadina ridente della Baviera, pochi chilometri da Monaco, più facili ora in Mercedes, il mare più vicino è la riviera romagnola, dove il romanzo avrà il suo esito, cittadina esattissima in tutto, calco forse di Merano, Italia. Ci ricorda qualcosa? Lascio al lettore scoprire il seguito. Se mi avessero detto che questo romanzo racconta come il nazismo nel suo cuore sia stato anche una sorta di esperimento di una entità sovrumana che continua a scorrazzare, una “alba dei grandi magazzini”, l’involucro tremendo in cui facevano le loro prime prove mondiali e di larghissimo respiro i riti della merce di massa e del consumo a un tempo di massa e individuale, le tecniche novecentesche del desiderio e dell’accrescimento infinito, avrei forse pensato a un nuovo episodio della serie: il Reich immortale e simili fantasie. Ma le gemelle H nella loro verità narrativa siamo noi, noi italiani nascosti e rivelati sotto lo sguardo di una bambina edonna tedesca, e la creatura mostruosa e infantile e festosa che allora ha fatto le fusa continua a farle altrove nel mondo. La trasformazione del padre nazista in oculato e immemore amministratore di un albergo per tedeschi a Milano Marittima, in preda al puro demone dei numeri e del profitto e della speculazione immobiliare, e la ribellione acquiescente di una figlia accoppiata all’impeto un po’ ribaldo dell’altra sembrano identificare da vicino un aspetto miserabile del nostro carattere nazionale. Non abbiamo mai voluto vedere fino in fondo, prenderci, banalmente, le nostre responsabilità. Ed è oggi questo romanzo a ricordarcelo.
CORRIERE della SERA - Enrico Manicucci : " E John Kennedy scrisse dall’Europa: «Bene il fascismo, giusto il nazismo» "
Ennio Caretto, Quando l’America s’innamorò di Mussolini (ed. Internazionali Riuniti)
C’era una volta l’America che andava pazza per Mussolini e il fascismo. Ci fu a lungo, anzi, anche apertamente, fino a poco prima che i soldati Usa cominciassero a sbarcare (e morire) sulle spiagge da questa parte dell’Atlantico. La storia del rapporto proibito fra la prima dittatura totalitaria di destra nel «secolo breve» europeo e la «più grande democrazia d’Occidente» viene sviscerata in un saggio di Ennio Caretto pubblicato dagli Editori Internazionali Riuniti col titolo Quando l’America s’innamorò di Mussolini (pp. 350, e 22) . Emerge un quadro sconcertante, ricco di aspetti di colore ma anche di legami e sinergie profonde. I primi spaziano dalla giovanile infatuazione per Duce e Führer di John Fitzgerald Kennedy, registrata nei suoi diari durante un viaggio europeo nel 1937 («Sono giunto alla conclusione che il fascismo sia giusto per l’Italia così come il nazionalsocialismo sia giusto per la Germania…») agli adulatori exploit canori di Cole Porter («Tu sei il massimo, tu sei Mussolini», dichiara in una canzone del 1934) o quelli cinematografici della Columbia Pictures che, l’anno precedente, produsse un film a dir poco agiografico, Mussolini parla , accolto da incassi record nelle sale americane. Per quanto riguarda il secondo aspetto, viene ricostruita la lunga consuetudine di Mussolini con gli Stati Uniti (battezzata nel 1903 da un suo articolo su «Il Proletario», periodico socialista dell’emigrazione: ma il segno politico cambierà inesorabilmente), rapporto che si giova di notevoli inclinazioni destrorse negli ambienti politici, industriali e finanziari americani, coi numerosi aiuti ricevuti dal Duce nel corso del tempo. Da quelli, involontari, del presidente Wilson che, dopo la fine della Prima guerra mondiale, rifiuta il patto di Londra, negando parte delle rivendicazioni territoriali all’Italia e alimentando il mito della «vittoria mutilata», a quelli pienamente consapevoli come il placet dell’ambasciatore Richard Child che incontra Mussolini alla vigilia della marcia su Roma, oppure il prestito di 100 milioni di dollari accordato all’Italia, nel 1925, dalla banca J.P. Morgan a condizioni particolarmente vantaggiose. «La maggioranza dell’America degli anni Venti e della prima metà degli anni Trenta s’innamorò di Mussolini perché ravvisò nel fascismo principi e obiettivi politici che essa allora condivideva», nota Caretto. Non pochi storici, del resto, hanno individuato forti analogie fra il New Deal roosveltiano e le politiche stataliste delle dittature europee. Trascurando un po’ la pagina più nota nei rapporti fra Stati Uniti e Italia fascista (quella della trasvolata atlantica di Italo Balbo), il saggio tocca anche i punti più critici, come la campagna per la creazione di Fasci di combattimento fra gli italoamericani. Un progetto dapprima sposato con entusiasmo da Mussolini (a organizzare quello di San Francisco fu inviato, sotto incarico diplomatico, quello che Indro Montanelli chiamava «l’amico italiano di Hitler», ovvero Giuseppe Renzetti, complessa figura di collegamento fra i due regimi), poi abbandonato per non urtare le suscettibilità americane. Per finire con la decisione di entrare in guerra a fianco della Germania hitleriana, un passo che gli americani avevano sperato fino all’ultimo di esorcizzare: «Mussolini sprecò in un’impresa suicida il patrimonio accumulato negli Usa in quindici anni». Oltreché sconcertante, il quadro non è di ottimo auspicio in proiezione futura, perché il saggio si dilata a prima e, soprattutto, a dopo il ventennio mussoliniano, sottolineando le analogie a cavallo di un secolo: «C’è qualcosa di mussoliniano nei banchieri di Wall Street che si proclamano master of the universe », nota Caretto preoccupato dall’eventuale indifferenza statunitense davanti a un’Italia che scivolasse verso un regime autoritario, di destra o di sinistra, «in nome della stabilità sociale e della crescita economica».
CORRIERE della SERA - Francesco Margiotta Broglio : " Chiesa e razzismo negli anni più bui "
Pio XII
Il convegno che si apre oggi in Vaticano, sul tema dell’atteggiamento assunto dalla Santa Sede verso il razzismo nel periodo tra le due guerre mondiali, ha lo scopo di verificare la «partecipazione della Curia al dibattito razziale» negli anni Venti e Trenta, in riferimento sia alla realizzazione di quelle teorie, sia al ruolo di primo pianto assunto dall’eugenetica quasi ovunque, con posizioni antitetiche ai presupposti cristiani che tuttavia non impedirono ad alcuni «pontieri ecclesiastici» di impegnarsi in tal senso e di «promuovere, addirittura, una sterilizzazione obbligatoria per le vite inferiori». Particolare attenzione verrà riservata alle acquisizioni più recenti sulle divergenze tra Roma e le istituzioni «razziste» e sulle presenze di «persone orbitanti intorno alla Curia relativamente alle teorie e alle leggi razziali». Al di là del molto discusso atteggiamento del papato di fronte all’antisemitismo e alla Shoah, al centro del dibattito si collocano il razzismo cattolico, lo studio delle razze, l’eugenetica cattolica (con riferimento in primo luogo alla Casti connubii di Pio XI del 1930), l’atteggiamento dei protestanti tedeschi di fronte al nazismo, il confronto di posizioni nella Curia romana sulle ideologie razziste. In quest’ultimo contesto ci si interrogherà sui gesuiti, su padre Gemelli, sulla problematica razziale vista dal Sant’Uffizio, sul difficile rapporto tra Eugenio Pacelli e il filonazista monsignor Hudal, rettore del Collegio dell’Anima in Roma. Si concluderà su temi molto studiati: Pio XI e la Curia di fronte all’antisemitismo fascista, il siamo «spiritualmente semiti» di papa Ratti, la sua enciclica Mit brennender Sorge e quella cosiddetta «nascosta» da Pacelli. L’incontro si chiuderà con una tavola rotonda sulle prospettive della futura ricerca, cui parteciperanno anche gli italiani Massimiliano Valente e Paolo Valvo, autore, quest’ultimo, di un rilevante volume, in corso di stampa, sulla Santa Sede e la rivoluzione messicana. Proprio il Messico, insieme alla Russia e alla Spagna (il «triangolo dolente»), fu oggetto del primo incontro che Mussolini ebbe con Pio XI dopo la Conciliazione, l’11 febbraio 1932. Un colloquio del quale il Duce fece un dettagliato resoconto al re, pubblicato nel 1968 da Angelo Corsetti, sul quale ora torna Giorgio Fabre nel saggio Pio XI e gli ebrei, 1932-33 , che sta per uscire nei «Quaderni di Storia» diretti da Luciano Canfora, grazie ad una larga messe di eloquenti documenti inediti tratti dai principali archivi italiani e vaticani e dalle carte di padre Tacchi Venturi — a lungo tramite tra Mussolini e papa Ratti — conservate dalla Compagnia di Gesù. Si tratta di un momento meno studiato dei successivi, ma essenziale per leggere la fase 1937-40 e comprendere la «via di mezzo» che il cattolicesimo adottò verso l’ebraismo negli anni Venti. Fabre ricorda lo scioglimento nel 1928 della associazione cattolica «Amici d’Israele» da parte del Sant’Uffizio, il quale però condannava «l’antisemitismo persecutorio», mentre «La Civiltà Cattolica» coglieva l’occasione per sviluppare la «teoria del complotto ebraico e della responsabilità ebraica nella rivoluzione russa»: una teoria che riaffiorerà nell’incontro di Pio XI con il Duce. Nel 1930, del resto, Pio XI, che era stato nunzio in Polonia, disse a Pacelli: «Varsavia è ora un covo di ebrei e di massoni». Anche sui protestanti italiani, «favoriti» dalla legge sui culti ammessi del 1929, il Papa non esitò ad esprimere nel colloquio con Mussolini vivissime recriminazioni, preoccupato per le dichiarazioni del Duce alla «Jewish Agency» del luglio 1929 (in Italia «tutte le Chiese godono degli stessi diritti»). Certo nel 1933 così Pacelli, segretario di Stato, annoterà la «mente» del Papa che voleva richiamare l’attenzione del nunzio a Berlino sui primi eccessi antisemiti tedeschi: «Può venire il giorno in cui si potrà dire che è stata fatta qualche cosa. È cosa che sta nella buona tradizione della S. Sede». Il relatore della causa di beatificazione di Pio XII, il gesuita padre Gumpel, nella prefazione al volume di Michael Hesemann Pio XII. Il Papa che si oppose a Hitler (Paoline, 2009), ha scritto che le bugie di alcuni storici «hanno le gambe corte». Altri storici, però, e spesso di… curia, le hanno così lunghe da riuscire a fuggire lontano dalla documentazione eloquente, come quella selezionata da Fabre, che ormai anche gli archivi «segreti» del Vaticano mettono a disposizione di tutti.
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