Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/02/2014, a pag. 45, l'articolo di Ian Bremmer dal titolo "La rete di Al Qaeda sulla disillusione araba".


Ian Bremmer Una manifestazione di islamisti
La Primavera araba non si è rivelata all’altezza delle aspettative, anzi, da allora va aggravandosi la spirale di violenza e di incertezza che lacera il Medio Oriente. Oggi la situazione non appare affatto migliorata e si direbbe addirittura che non abbia ancora toccato il fondo. Per questo motivo, a mio avviso, tutti i recenti spiragli di miglioramento, dai negoziati di pace in Siria (già conclusisi con un nulla di fatto) a un potenziale accordo sul nucleare in Iran, vanno considerati con una buona dose di scetticismo.
Dopo il rovesciamento del presidente Morsi per mano dei militari l’anno scorso in Egitto, e i successivi sollevamenti popolari, gli ultimi avvenimenti in questo Paese hanno dato adito a un certo ottimismo. A gennaio, il referendum costituzionale egiziano ha riscosso oltre il 98 per cento dei consensi e il Generale Abdel Fattah el Sisi è emerso come il candidato favorito alla presidenza, una scelta che dovrebbe rafforzare la credibilità politica del Paese, grazie a una nuova e più decisa collaborazione tra parlamento e istituzioni statali sotto el Sisi. Ma pur migliorando la stabilità di fondo, la situazione economica e la sicurezza dell’Egitto sono destinate ad aggravarsi. Violenza e terrorismo sono in aumento, di pari passo con l’estendersi di un movimento insurrezionale strisciante che comincia ad alzare la testa e a disporre di mezzi più sofisticati. La questione della sicurezza avrà un forte impatto negativo sull’economia egiziana, in particolare sul turismo. La società egiziana inoltre resterà divisa, e il governo dovrà vedersela con nuovi sforamenti di bilancio, poiché qualunque riforma economica coraggiosa certamente scatenerà un contraccolpo popolare.
In Siria, l’accordo siglato l’anno scorso grazie alla Russia sullo smantellamento degli armamenti chimici, e i recenti colloqui di pace tra Assad e l’opposizione, sono stati salutati come punti di svolta in Occidente. Ma sia l’accordo sia i colloqui hanno consolidato la posizione di Assad, rafforzando il suo ruolo e la sua legittimità politica. Nel frattempo, i colloqui non hanno portato alcun frutto e circolano voci che solo il 4 per cento delle riserve siriane di armi chimiche sia stato consegnato alle squadre di disarmo internazionali. Malgrado tutto, i Paesi occidentali non hanno nessuna voglia di riaprire la questione siriana, un dibattito politico che si rivela assai spinoso in patria. La realtà è che non si scorgono ancora vie percorribili per metter fine a un conflitto che fino a oggi ha fatto oltre 130.000 morti e più di 6 milioni di profughi.
Mentre in Siria la situazione si assesta in uno stallo drammatico, l’attenzione dei fondamentalisti islamici si rivolgerà ai vicini della Siria, e all’Iraq in particolare, dove armi e reclute attraversano i confini inosservati. La recente invasione di Falluja da parte delle milizie di al Sham e dello Stato islamico dell’Iraq ha sferrato un duro colpo contro il governo centrale di Bagdad, dominato dagli sciiti. Molte voci autorevoli negli Stati del Golfo appoggiano l’insurrezione dei gruppi armati sunniti contro Bagdad, nella speranza di indebolire un Paese alleato dell’Iran.
Oggi assistiamo all’azione di piccole cellule armate, collegate ad Al Qaeda, non solo in Iraq, ma anche nel Libano e nel Sinai settentrionale, operazioni che rischiano di estendersi alla Giordania e oltre. Se è vero che la minaccia diretta di Al Qaeda contro i Paesi occidentali si è affievolita dopo gli attacchi americani, che hanno annientato la capacità organizzativa del gruppo terroristico, e dopo l’uccisione di Bin Laden, resta il fatto che la presa di Al Qaeda sulla regione non è mai stata così forte, grazie all’adesione all’ideologia di Al Qaeda da parte di gruppuscoli regionali di lotta armata che puntano a obiettivi locali.
Le recenti speranze che la Turchia potesse contribuire ad appianare le tensioni al di là dei suoi confini sono svanite nel nulla, difatti la stessa Turchia si sta trasformando in una zona critica. Oltre ai problemi dei profughi che passano il confine dalla Siria, è probabile che dopo le elezioni di marzo venga meno il cessate il fuoco stipulato con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il che significherebbe la ripresa delle ostilità da parte dei guerriglieri curdi. L’atteggiamento sempre più intransigente del primo ministro Erdogan nei confronti dell’opposizione, sia all’interno che all’esterno del suo partito, minaccia di complicare e di destabilizzare ancora di più la situazione politica interna della Turchia. Malgrado le recenti iniziative internazionali e l’impegno profuso da John Kerry, non vedremo l’inizio di una vera svolta nel conflitto arabo-israeliano. Questo perché il governo palestinese, debolissimo, faticherà non poco ad attuare qualunque accordo, e l’intera questione sarà sospinta in secondo piano non appena l’attenzione della comunità internazionale si appunterà sui negoziati nucleari con l’Iran.
Accordo o non accordo, il 2014 sarà l’anno decisivo per le trattative con l’Iran sulla questione nucleare. Abbiamo finora assistito a un crescendo di interesse per un accordo di vasto raggio e le probabilità di successo non sono mai state così favorevoli. Questa è la vera scommessa per la regione, e le conseguenze saranno drammaticamente diverse nel caso di successo o di insuccesso dei colloqui. Ma mentre l’obiettivo dell’Occidente rimane la sigla di un accordo — e sarebbe una grande vittoria per il governo Obama, con ricadute positive sul prezzo del greggio a livello globale — un accordo del genere nella regione mediorientale non significherebbe nient’altro che l’ennesimo rimpasto di vincenti e perdenti. Un accordo non è una panacea, proprio perché restituisce prestigio e importanza all’Iran, spianando la strada al suo ritorno sulla scena internazionale come motore economico della regione. E questo sarebbe a tutto vantaggio dei suoi alleati — il regime di Assad e gli Hezbollah — mentre scatenerebbe un conflitto profondo con gli Stati sunniti del Golfo, come l’Arabia Saudita, che non vede affatto di buon occhio la crescente influenza di Teheran — e ancor meno l’impennata nelle sue esportazioni di greggio.
Malgrado i modesti spiragli di ottimismo, a mio avviso non è ancora venuto il momento di scommettere su una svolta positiva in Medio Oriente, certamente non nel breve termine. Cambieranno anche i numeri di vincenti e perdenti, ma le prospettive complessive della regione restano assai fosche .
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