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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Josef Bor, Il Requiem di Terezin 17/02/2014

Il Requiem di Terezin                         Josef Bor
traduzione di Bruno Meriggi
Passigli                                                 euro 14,50

Se solo non ci fosse quella tenebra, «orrenda, ripugnante». Dal palcoscenico è quasi impossibile scorgere il pubblico, immerso in un buio malato ed equivoco. Tuttavia i musicisti sanno distinguere fin troppo bene chi è venuto ad ascoltarli. Due tipi di persone. O meglio, né gli uni né gli altri sono più davvero «persone». I prigionieri, a un passo dalla morte; ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, è l'ultimo. Se non hanno ancora perso il senno è un miracolo. Eppure sono G, seduti in silenzio assoluto, emaciati, con gli occhi troppo grandi e il cuore in subbuglio. Vuol dire che lottano, e persone - per quel che possono - cercano ancora di esserlo. Gli altri «si sono agghindati e azzimati, hanno appuntato sul petto i lustrini, le chincaglierie, e ora giocano agli eroi». Loro, persone non lo sono forse state mai, certo non lo sono adesso, quando la musica sta per cominciare, e il direttore è sul punto di lanciare la sua sfida verso il buio. Il Requiem di Terezin dello scrittore ebreo ceco Josef Bor è un libro a tinte forti. Apparso nell'originale nel 1963, subito tradotto in tedesco e in italiano nella bella prosa di Bruno Meriggi, e riproposto ora da Passigli, questo Requiem ha un suo, lucido anacronismo. Fuori moda nel tono e nel contenuto, il libro è un omaggio, accorato, alla musica classica e alla tradizione borghese europea. Tanto terribile è la cornice del racconto quanto semplice è il messaggio: la cultura è garanzia di dignità; questo lo sapevamo o lo speravamo. E anche, la cultura può essere vendetta; un insegnamento di cui non eravamo forse consapevoli. È vicenda vera, trasposta in chiave narrativa e liberamente rielaborata. Josef Bor (Bondy), l'autore, fu testimone della più singolare e drammatica messa in scena di tutto il Novecento. Un campo di concentramento, Terezin, in tedesco, Theresienstadt. Un'orchestra e un coro composti esclusivamente da deportati ebrei, in attesa di essere mandati a morte, e consapevoli di quanto li aspettava. Come pubblico, oltre ai prigionieri, alti gradi nazisti; qui nel romanzo campeggia tra gli spettatori Adolf Eichmann in persona. E la musica? Quanto di apparentemente più lontano dalla tradizione ebraica si possa immaginare, il Requiem di Giuseppe Verdi, ispirato alla liturgia cattolica per i defunti e cantato in latino. Tutto il libro ruota attorno a Rafael Schachter, un giovane musicista internato a Terezin, che aveva fatto di questa rappresentazione una ragione di vita, quella poca che ancora sarebbe riuscito a vivere. Con un solo pianoforte malconcio e un'unica copia della partitura, che orchestrali e cantanti dovevano imparare a memoria, Schachter aveva messo assieme, nel 1942, uno spettacolo di grande livello e d'inaudita forza simbolica. «Canteremo ai nazisti quello che non possiamo dire loro», questo era il suo programma, basato sull'intensificazione e, in parte, sul rovesciamento della grande opera verdiana. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis, tale è l'invocazione all'inizio dell'Introito. Ma quale vita eterna potevano chiedere le vittime ebree della Shoah, quale pace, che ricompensa oltremondana sarebbe mai valsa nell'orrore del lager? La risposta di Schachter, visionario direttore d'orchestra, prevedeva un'eversione dell'ordine temporale del Requiem. Quand'anche l'ultimo deportato fosse morto nelle camere a gas, il giorno del giudizio e della punizione - il terrifico, incalzante Dies irae verdiano - sarebbe giunto per i persecutori ancora in vita. Schachter, i suoi artisti, tutti gli spettatori ebrei erano consapevoli - secondo Bor - del contenuto di rabbia e dell'aspettativa di riscatto mondano di cui si rivestiva il capolavoro di Verdi. Una vendetta di cui si sarebbero incaricati altri uomini, a breve, non nella dimensione escatologica ma in Europa, in Germania, nel Paese dei carnefici già in fiamme e stretto d'assedio. Secondo le testimonianze storiche, tra il 1942 e il 1944, quando anche gli ultimi musicisti furono trasferiti ad Auschwitz, il Requiem venne eseguito a Terezin almeno quindici volte. I nazisti non capirono il messaggio implicito, e lasciarono fare Schachter per ignoranza e stupidità? Questa è la convinzione di Bor, e da essa trae pathos tutta la narrazione. È vero però che i tedeschi mostrarono anche di saper sfruttare cinicamente il Requiem. L'ultima volta in cui Schachter e i suoi lo rappresentarono fu davanti a una delegazione della croce rossa danese, giunta per ispezionare Terezin, e a cui si fece credere che gli ebrei fossero trattati in fondo bene, tanto che si dilettavano addirittura di musica. Chi ha ragione? Quanti credono nel potere testimoniale della cultura o chi si arrovella sull'insensatezza del dolore e della sopraffazione? Certo, il ritmo grandioso del Dies irae non è di per sé il giorno del giudizio, ma solo la sua immagine in suoni. Il Requiem è emozione e attesa. A Terezin fu ira di giustizia, bruciante.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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