IC7 - Il commento di Stefano Magni Dal 02/02/2014 all'8/02/2014
Testata: Informazione Corretta Data: 10 febbraio 2014 Pagina: 1 Autore: Stefano Magni Titolo: «Il commento di Stefano Magni»
Il commento di Stefano Magni
Stefano Magni
In questa settimana la peggior mazzata finita sul capo di Israele è arrivata dalla parte più inaspettata: dagli alleati statunitensi. Non è una sorpresa assoluta, considerando che l’amministrazione Obama non stravede (per usare un eufemismo) per lo Stato ebraico e soprattutto non dimostra affatto simpatia per il governo Netanyahu. Ma il momento è particolarmente delicato, perché i nuovi negoziati israelo-palestinesi promossi dagli Usa stanno finalmente prendendo forma. E dunque ogni parola fuori posto può comprometterne il buon esito. Le parole fuori posto sono state pronunciate dalla personalità che porta su di sé le maggiori responsabilità del negoziato: il segretario di Stato americano John Kerry. In occasione della Conferenza per la Sicurezza di Monaco, il titolare della politica estera statunitense ha detto chiaro e tondo che Israele deve accettare compromessi … altrimenti subirà numerosi altri boicottaggi. Non si tratta di una minaccia esplicita, Kerry non ha dichiarato che gli Usa boicotteranno Israele. Ma si tratta di un avvertimento velato. Un po’ come se un poliziotto dicesse a un cittadino “non posso garantire la tua incolumità se entri in questa o quella zona”. Il boicottaggio è, fra l’altro, già una realtà. Come è noto, dalla settimana scorsa, l’attrice statunitense Scarlett Johansson, una delle donne più popolari del mondo, ha coraggiosamente tenuto testa alle bordate della Ong Oxfam, (di cui era “ambasciatrice”) proprio perché si rifiutava di lasciare il suo ruolo di testimonial di SodaStream, azienda che ha impianti anche a Maaleh Adumim, in un territorio rivendicato dai palestinesi. «Io rimango una sostenitrice della cooperazione economica e dell’interazione sociale fra un Israele democratico e la Palestina – dichiarava la Johansson – SodaStream è un’azienda che non solo è impegnata nella protezione dell’ambiente, ma sta anche costruendo un ponte di pace fra Israele e la Palestina, facendo lavorare i vicini gli uni accanto agli altri, garantendo loro eguali salari, eguali benefici ed eguali diritti. È questo quel che avviene nella loro fabbrica di Maaleh Adumim ogni giorno di lavoro». L’attacco furioso all’attrice lanciato dai gruppi di boicottaggio anti-Israele e il suo licenziamento da Oxfam sono ammissioni implicite che la causa del boicottaggio non mira tanto alla pace e alla cooperazione fra semplici cittadini israeliani e palestinesi, quanto al danneggiamento unilaterale dello Stato ebraico. Non a caso, gli operai palestinesi di Maaleh Adumim hanno espresso il loro sostegno alla Johansson, contro i boicottatori. E nel mezzo di questa battaglia ad alta potenza mediatica, arriva un John Kerry (di cui la Johansson è un’aperta sostenitrice) a ventilare boicottaggi, citandoli come arma di pressione? Oltre ad aver implicitamente scaricato una delle sue più amate sostenitrici, anche Kerry si è posto di traverso agli interessi dei lavoratori palestinesi, della cooperazione nei territori contesi, di quel poco di pace che, sul terreno, già è stata conseguita. Ovviamente, una volta fatta la gaffe, è iniziato il gioco delle smentite, delle spiegazioni, delle rassicurazioni. John Kerry ha specificato, nei giorni scorsi, di essere amico di Israele, di non desiderarne affatto il boicottaggio. Dopo l’energica risposta del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha definito l’arma del boicottaggio “immorale e ingiusta” (“Nessuna pressione mi indurrà a fare concessioni sugli interessi vitali dello Stato di Israele, specialmente sulla sicurezza dei cittadini israeliani”), il ministro degli esteri Avigdor Liberman ha gettato un po’ di acqua sul fuoco della polemica, definendo la controparte statunitense “un vero amico di Israele”. Intanto, però, il danno di immagine è fatto. Gli israeliani si sentono istintivamente abbandonati dagli Stati Uniti. Già negli anni scorsi, prima della rielezione di Barack Obama, percepivano la lontananza ideale del grande alleato democratico. Dopo la visita del neo-rieletto presidente in Israele, il primo viaggio ufficiale dopo le elezioni, l’opinione pubblica dello Stato ebraico si era riconciliata con la Casa Bianca. Ma la sparata di Kerry rischia di compromettere di nuovo la luna di miele. Un sondaggio commissionato dal quotidiano Israel Hayom, rivela infatti che il 61% degli ebrei di Israele consideri le frasi del segretario di Stato americano come una minaccia al loro Paese. Solo il 20,9% non ritiene che siano preoccupanti. Le parole del ministro statunitense possono anche essere stata fraintese, o “distorte” (come afferma l’ambasciatore americano a Tel Aviv, Dan Shapiro), ma resta il fatto che sono unilaterali. Non esiste alcuna prova che il segretario di Stato abbia detto altrettanto ai palestinesi, che abbia fatto capire al presidente dell’Anp Mahmoud Abbas quale prezzo avrebbe potuto pagare in caso di fallimento dei negoziati. Forse proprio rassicurati dall’assenza di pressioni nei loro confronti, gli uomini del presidente Abbas, in questa settimana, hanno alzato la posta in gioco nei negoziati. E di molto. In primo luogo, alla Palestina viene richiesto il riconoscimento di Israele quale Stato ebraico, come fu promesso sin dalla dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917. Ma Abbas ha dichiarato, chiaro e tondo, che non accetterà il carattere ebraico del suo futuro vicino. Si tratta di una questione solo apparentemente terminologica. Il fatto che Israele sia “Stato ebraico” non vuole affatto dire che i non ebrei non godano di diritti civili (le minoranze arabe, druse, beduine, circasse già vi hanno cittadinanza a pieno titolo), ma semplicemente che si mantenga la premessa di una “patria per il popolo ebraico” in fuga dal resto del mondo. Abbas vuol invece trasformare Israele in uno Stato multietnico perché non ha mai formalmente rinunciato al “diritto al ritorno”, dunque al rientro di tutti i discendenti di tutti i profughi palestinesi fuggiti da quelle terre dal 1948 in poi. Una volta riconosciuto, il diritto al ritorno sommergerebbe demograficamente gli ebrei e trasformerebbe Israele in uno Stato a maggioranza araba, con un parlamento votato da arabi, pronto a votare la riunificazione con altri Paesi arabi. Il vecchio sogno pan-arabista, insomma, diverrebbe realtà grazie al peso demografico, invece che con le armi. L’altra richiesta mossa dai palestinesi è ancor più astuta: affidare la sicurezza dei futuri confini fra i due futuri Stati confinanti a una forza di interposizione internazionale a guida Nato. Apparentemente si tratta di una richiesta favorevole a Israele: nell’immaginario collettivo, lo Stato ebraico (che Abbas vorrebbe multietnico) è già spiritualmente un membro dell’Occidente, dunque di quell’Alleanza Atlantica che rappresenta al meglio questa parte di mondo. Ma, al di fuori di questa fantasia collettiva, nella cruda realtà dei fatti la Nato è costituita anche da nazioni tradizionalmente anti-israeliane, come la Norvegia (che nelle sue forze di pace in Medio Oriente manda soldati musulmani) e la Francia. Ci sono nazioni “fredde” nei confronti di Gerusalemme, quali il Belgio, l’Olanda e la Germania. C’è il Regno Unito che era l’ex potenza coloniale, responsabile della chiusura delle porte della Palestina ai profughi ebrei in fuga dalla Shoah. Chi riaccoglierebbe volentieri le truppe in divisa kaki? C’è una Spagna, che si è rivelata tutt’altro che vicina soprattutto ai tempi di Zapatero. C’è un’Italia che è stata realmente amica di Israele solo ai tempi di Berlusconi, ormai estromesso dalla politica estera. Ci sono Paesi della nuova Nato quali l’Ungheria e la Polonia, in cui l’antisemitismo è ancora succhiato col latte materno (soprattutto in Ungheria). E poi c’è l’esperienza attuale delle forze internazionali di interposizione già sperimentate sul campo, come Unifil2 che ha permesso a Hezbollah di riarmarsi dal 2006 ad oggi, tanto per citare il caso più eclatante. Le due proposte di Abbas, il suo no allo Stato ebraico e il suo invito di una forza internazionale, costituiscono chiari sintomi del suo disegno strategico: ottenere confini provvisori oggi, per occupare tutto Israele domani. Non c’è da essere paranoici: questo è sempre stato il disegno strategico palestinese dal 1993 (accordi di Oslo) ad oggi. Il problema è che non sembra accorgersene Kerry, che dovrebbe saperlo e potrebbe far pressioni su Abbas (magari minacciando un boicottaggio?) perché giunga a un compromesso. Ma non le fa. Piuttosto si limita a considerare un possibile slittamento del prossimo accordo/quadro fra Israele e Palestina, che era previsto per il 29 aprile e che invece è stato rimandato a data da destinarsi. Se il buon giorno si vede dal mattino…