Il popolo che disse no Bo Lidegaard
Garzanti euro 28
Chi salva una vita è come se salvasse il mondo intero, chi uccide una vita è come se uccidesse il mondo intero»: questo antico adagio ebraico, che in fondo è anche un paradosso, rappresenta il principio guida del monumento alla Shoah di Gerusalemme. Prima di essere un archivio e un museo, infatti, lo Yad Vashem è un bosco dove ogni albero porta il nome di una persona che sotto il nazismo è stata capace di salvare anche «soltanto» una vita. Individui, non collettività. Singoli, non masse. C'è, su questa collina di Gerusalemme, un'unica eccezione: una piccola barca di legno nera, con i remi appoggiati sul fianco. E' il segno dell'unico popolo che viene ricordato qui, in questo luogo dove la memoria è fatta di individui, ciascuno con il proprio nome. Fra settembre e ottobre del 1943, il popolo danese mise in salvo quasi tutti gli ebrei del paese, traghettandoli per il breve tratto di mare che separava la Danimarca occupata dai tedeschi dalla libera Svezia: questo racconta la barchetta di legno sulla collina di Gerusalemme, circondata dagli alberi dei Giusti fra le Nazioni. Come ogni storia che si rispetti, anche questa ha il suo mito fondatore - che nulla toglie alla sua straordinarietà, al suo coraggio, al potente impulso morale che la guidò. Nel gennaio del 1942 Thorvald Stauning, il primo ministro danese - la Danimarca era stata invasa dai nazisti ancora nell'aprile del 1940 - si consulta con un preoccupato re Cristiano. Teme che di li a poco i tedeschi impongano agli ebrei le misure della reclusione, preludio delle deportazioni. «Cosa faremo, Vostra Maestà, se si dovesse dire che anche i nostri ebrei devono indossare la stella gialla?». «Allora probabilmente la indosseremo tutti», risponde il re. Di qui a immaginare re Cristiano a cavallo per le vie di Co- penhagen con la stella gialla al petto il passo è stato breve, anche se non è mai successo per davvero. La suggestione del mito è irresistibile, ma in fondo sta a dirci che più del simbolo conta la realtà, e nel caso della Danimarca occupata dai nazisti essa conta tanto di più perché grazie ad essa furono in salvo migliaia di vite condannate allo sterminio, e per la prima ed unica volta fu un popolo intero, insieme al suo re, a mobilitarsi per cambiare il corso delle cose. La vera storia di questo salvataggio, insomma, è ancor più bella del mito, e viene narrata oggi in un libro avvincente e documentato: Ilpopolo che disse no (in italiano in questi giorni per Garzanti). L'ha scritto Bo Lidegaard, storico e giornalista danese, che segue passo a passo l'avventura del salvataggio, basandosi su una folta e varia documentazione. Volti, nomi e vite. Come quella del vicino di casa di Edgar Feuchtwanger, un bambino di cinque anni nel 1929 a Monaco: un signore con i baffetti e lo sguardo strano, che ogni tanto sale su una macchina nera con autista. «E' proprio di fronte a noi, sotto casa sua. Ci siamo fermati. Rosie rimane immobile. Noto che si è tagliato un pochino facendosi la barba, come capita talvolta a papà. Ha gli occhi azzurri. Non lo sapevo. Non si vede sulle fotografie. Credevo che fossero neri. Non l'ho mai visto così da vicino. Ha i peli nel naso, e anche nelle orecchie. E' più basso di quel che pensavo. Più basso di mio padre». Poi nel 1933 quel signore viene nominato cancelliere del Reich e tutto cambia.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa