Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/02/2014, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Fra i profughi di Gaza rabbia e timori: 'Non rinunceremo alle nostre terre' ”.
Maurizio Molinari Hamas
Traditi dall’Egitto, derubati da Israele, senza fiducia nei confronti dell’America e con un incontenibile desiderio di tornare nei luoghi d’origine, da Giaffa a Beer Sheva: sono i sentimenti che pulsano nel cuore di Gaza che batte dentro la grande moschea Omari, roccaforte dei seguaci di Hamas. Sulla strada intitolata a Omar el Muktar, l’eroe della resistenza libica all’occupazione italiana, poco oltre il mercato coperto degli orafi e alcuni carretti di frutta, la moschea che porta il nome di Omar bin el-Khattab, il califfo della conquista musulmana della Palestina, è un simbolo dei fondamentalisti da quando nel giugno 2007 l’imam Mohammed al-Rafati venne ucciso da Al Fatah durante la guerra fratricida che terminò con l’affermazione di Hamas.
Nei periodi di intervallo fra le preghiere, nel grande spazio centrale i fedeli si siedono in circolo, soffermandosi a discutere sui versetti del Corano e i temi dell’attualità entrano prepotentemente nella conversazione a più voci. A guidare la discussione è Nadr al-Masry, avrà 60 anni, che cita a memoria le battaglie delle «vittorie dei soldati musulmani contro i Crociati» per evocare il paragone nello scontro «di noi palestinesi con gli israeliani che ci assediano da terra, mare e cielo lanciandoci contro bombe da una tonnellata». Ma se «gli israeliani sono il nostro peggior nemico» ciò su cui si sofferma di più è il «tradimento dei fratelli egiziani».
Basta questo accenno e dal parterre di chi lo ascolta, seduto su seggiole di plastica o steso in terra sui tappeti, si levano mugugni e mormorii di protesta alla volta del Cairo. Le grida si sovrappongono: «Vergogna», «Ci hanno abbandonato», «Non si trattano così i propri fratelli». Il motivo è la rabbia per la chiusura ermetica del tunnel fra l’Egitto e la Striscia che il governo militare di Abdel-Fattah al Sisi ha ordinato da giugno, togliendo a Gaza l’unica strada per ricevere ogni sorta di beni che alimentavano l’economia.
«Gli abitanti di Gaza e gli egiziani sono da sempre legati, come fratelli» spiega Diab Rajab, kefiah a scacchi bianconeri e tunica marrone, sottolineando come «matrimoni, scambi economici, feste religiose ed eventi collettivi dalla notte dei tempi ci hanno unito». Gli occhi quasi gli si illuminano quando ricorda «i giorni in cui andavano a passare i finesettimana al Cairo» oppure «il confine di Rafah sempre aperto, anche di notte». «L’Egitto per noi è come una seconda patria - aggiunge - proprio come lo è la Giordania per i palestinesi della West Bank». Da qui l’irritazione, la rabbia per «le ragioni politiche che oggi ci dividono dall’Egitto» dice al-Masry, riferendosi alle «vendette» dell’esercito egiziano contro il sostegno che Hamas diede ai Fratelli musulmani durante la presidenza di Mahmud Morsi.
I fedeli nella moschea sono divisi fra opposte pulsioni: da un lato la fedeltà ideologica a Hamas, dall’altro la nostalgia per un legame con l’Egitto ora impossibile proprio a causa di Hamas. Nel grande cortile, alcuni ragazzi parlando in un inglese stentato prevedono che «le cose con l’Egitto andranno anche peggio perché al Cairo stanno processando Morsi proprio per i legami con Hamas». L’amarezza è evidente e si nutre della nostalgia per l’«orgoglio dei nostri nonni quando venivano arruolati nell’esercito egiziano» durante il periodo pre-1967 che vide la Striscia amministrata dal Cairo.
Nessuno parla di Abu Mazen, dell’Autorità nazionale palestinese né di Al Fatah che qui restano gli sconfitti della mini guerra civile del 2007, ma sul negoziato condotto dal Segretario di Stato John Kerry sembrano tutti aggiornati, fin nei dettagli. «Kerry sta spingendo su noi palestinesi per farci rinunciare al diritto al ritorno nelle terre da cui ci cacciarono nel 1948 e questo per noi è inaccettabile» dice al-Masry. Questa volta i boati sono di plauso, un’ovazione che rimbomba nella volta della cupola. Più persone si alzano in piedi, per dire da dove vengono loro o sono venuti i genitori: «Giaffa, Lod, Beer Sheva, Geya, Betan».
È la geografia della Palestina pre-israeliana che fa parte della loro identità e si sovrappone alla toponomastica dell’attuale Stato Ebraico. Diab Rajab ricorda «il giorno in cui l’Haganà, l’esercito degli ebrei, arrivò con carri e aerei per cacciarci a fucili spianati dal nostro villaggio a Beer Sheva» e assicura di «voler tornare per rimettermi a lavorare sulla terra che avevo». Ibrahim El Kolak appartiene ad una famiglia di Geya, nei pressi dell’odierna Rehovot, «vogliamo tornare e non saranno certo Kerry e Obama a impedircelo». «Quelle terre sono nostre, i sionisti ce le hanno strappate, nessun leader palestinese ha l’autorità per rinunciarvi» aggiunge El Kolak sollevando consensi, e aggiunge: «Voglio tornare a Geya con i miei, ricostruirla e fare il carpentiere».
Dalla moschea Omari il tentativo negoziale di Kerry appare lontano, incomprensibile. «Gli Usa ci tradiscono da Madrid e Oslo - conclude al-Masry, nato a Giaffa - Arafat strinse le mani di Shamir e Rabin, firmò gli accordi alla presenza di Mubarak e Hussein ma per noi non è cambiato nulla, gli israeliani ci hanno rubato la terra e l’America continua a fare di tutto per proteggerli». All’origine del conflitto resta la volontà dei profughi del 1948 di tornare nelle terre che oggi appartengono a Israele. Una rivendicazione che Hamas fa propria in ogni ministero o ufficio dove campeggia - su una mappe o sottobicchieri - la cartina dell’intera Palestina, dal fiume Giordano al Mediterraneo.
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