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La Stampa Rassegna Stampa
30.01.2014 Turchia: Napolitano incontra Gul, tra i due parole inaccettabili
di Claudio Gallo l'articolo sul disastro economico turco

Testata: La Stampa
Data: 30 gennaio 2014
Pagina: 11
Autore: Claudio Gallo
Titolo: «Tutti contro Erdogan»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/01/2014, a pag.11, un articolo di Claudio Gallo sulla Turchia, dal titolo "Tutti contro Erdogan". Nella stessa pagina una breve dal titolo " I due presidenti: Gul da Napolitano", con un nostro commento.

Gul e Napolitano

Napolitano incontra Gul, suo omonimo turco. Ma non è un abituale incontro diplomatico, se corrispondono al vero le parole del nostro predidente. La Turchia non ha - nemmeno lontanamente - le caratteristiche per entrare in Europa, è un paese sempre più assoggettato alle leggi islamiche, dove le praticghe democratiche sono ormai un lontano ricordo. L'ingresso di 80 milioni di turchi, da un paese governato da Erdogan, sono una minaccia per la democrazia europea. Ilsemestre italiano si apre nel modo peggiore.

I due presidenti
Gul da Napolitano «Vogliamol’Europa»
Un incontro incentrato sulle relazioni economiche e sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Il presidente turco Abdullah Gul, in visita in Italia fino a domani, è stato ricevuto ieri alQuirinale da Giorgio Napolitano. Il presidente italiano ha assicurato che l’Italia si propone, nel semestre in cui deterrà la presidenza dell’Ue, «iniziative per rilanciare il negoziato di adesione». Gul ha definito «inaccettabili »gli ostacoli posti da alcuni stati europei.

 Ecco l'articolo di Claudio Gallo:

Erdogan in una caricatura

 Il miracolo politico-economico dell’Islam «moderato» di Erdogan si sta sgonfiando a velocità variabile: dal punto di vista politico sta precipitando velocemente verso l’autoritarismo, da quello economico sta lentamente perdendo il passo virtuoso dell’economia. La Turchia fa ormai parte dell’ultimo neologismo finanziario, i «Fragile Five», il club delle economie emergenti afflitte da monete deboli, insieme con Brasile, India, Sud Africa e Indonesia. L’ultimo capitolo del travaglio economico è la decisione, dell’altro giorno, della banca centrale turca di alzare il tasso della lira (l’overnight è passato dal 7,5 al 12 per cento), nonostante l’opposizione del primo ministro che teme un rallentamento dell’economia proprio nell’anno delle presidenziali, con le politiche alle porte nel 2015. La mossa delle autorità bancarie ha rafforzato la lira, che ieri ha recuperato l’uno per cento sul dollaro dopo aver perso il 14 nei mesi scorsi, ma la tempesta sembra appena cominciata. La debolezza della valuta turca è in buona parte politica. La svolta autoritaria di Erdogan rischia di spaventare gli investitori stranieri. Assediato da una serie di inchieste che hanno scoperchiato massicci casi di corruzione nel suo partito, l’Akp, il premier ha reagito rimuovendo i giudici, cacciando in posti periferici tremila poliziotti e mettendo il potere giudiziario sotto il giogo di quello esecutivo. Alla fine,dopo aver disinnescato le inchieste, ha sfidato beffardo critici e nemici a mostrare le prove delle accuse di corruzione. A complicare le cose c’è la faida inter-islamica con il potente movimento Hizmet (Servizio), che i turchi chiamano spesso «Cemaat» (la comunità), guidato dal suo ritiro in Pennsylvania dall’ex imam Fetullah Gulen. Erdogan accusa la rete caritativa del suo ex alleato Gulen, sempre più presente in tutta l’area turcofona, dall’Azerbaigian allo Xingjiang cinese, di essere «uno stato nello stato», di aver infiltrato magistratura e polizia per colpire il suo partito. Molti funzionari sarebbero stati epurati solo perché appartenenti a Hizmet. Alcuni analisti, come Sibel Edmonds, ex collaboratrice del Fbi, sostengono che Hizmet sia manovrato dai servizi americani per scaricare l’ex amico al potere ad Ankara. In una intervista a sorpresa con la Bbc, concessa dopo anni di silenzio e speculazioni sul suo stato di salute, Gulen ha respinto tutte le accuse ma non ha negato il conflitto. Erdogan ovviamente incoraggia le tesi del complotto, sia in economia che in politica ma il quadro è tutt’altro che chiaro. Se il recente annuncio turco dell’intenzione di comprare missili cinesi ha irritato Washington e la Nato, è vero che Ankara resta una pedina cruciale sul fronte siriano, attraverso cui far passare aiuti e armi ai ribelli. Queste turbolenze tutt’altro che passeggere si abbattono sulla stabilità della moneta. Secondo la banca britannica Barclays, la Turchia quest’anno deve assicurarsi 200 miliardi di prestiti all’estero, circa il 25 per cento della sua produzione economica. «Se non riuscirà a ottenerli - scrive il “New York Times” - dovrà ricorre a un intervento della Fondo monetario internazionale». Per rischiare in Turchia gli investitori stranieri chiedono alti margini, in contrasto con la politica di tassi bassi tenuta finora dalla banca centrale per sostenere l’industria. E indirettamente far vincere le elezioni a Erdogan.

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