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la Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.01.2014 27/01/2014: Giornata della Memoria
commenti di Aharon Appelfeld, Riccardo Pacifici, Paolo Di Stefano, Susanna Nirenstein

Testata:la Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Aharon Appelfeld - Riccardo Pacifici - Paolo Di Stefano - Susanna Nirenstein
Titolo: «Raccontare la Shoah - Sei milioni di volte 'ebreo' - Dare ai giovani gli strumenti per non restare indifferenti - Shoah, il culto della Memoria non basta rivediamo le vecchie categorie politiche - Auschwitz non è un museo»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/01/2014, a pag. 1-46, l'articolo di Aharon Appelfeld dal titolo " Raccontare la Shoah ", a pag. 46, l'articolo dal titolo " Sei milioni di volte 'ebreo'  ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, l'articolo di Riccardo Pacifici dal titolo " Dare ai giovani gli strumenti per non restare indifferenti ", a pag. 28, l'articolo di Paolo Di Stefano dal titolo " Shoah, il culto della Memoria non basta, rivediamo le vecchie categorie politiche ". Da REPUBBLICA del 24/01/2014, a pag. , l'articolo di Susanna Nirenstein dal titolo " Auschwitz non è un museo ".

Tutti i quotidiani di oggi hanno dedicato ampio spazio ad articoli su Memoria e Shoah.


Segnaliamo, senza riprenderlo, il pezzo di Ban Ki Moon sulla Stampa. Un articolo contro l'antisemitismo, ma, se Ban Ki Moon pensa sul serio ciò che scrive, dovrebbe riformare, o, meglio, chiudere, alcune agenzie Onu (come l'Unesco e l'Unrwa) il cui unico obiettivo è l'attacco di Israele e dei suoi cittadini.

Riproduciamo, inoltre, la titolazione del pezzo di Marcello Veneziani, pubblicato sul Giornale.



L'Italia non fu antisemita? Veneziani vada a dirlo ai deportati ebrei rastrellati nelle città italiane e spediti a morire nei campi di sterminio.

Il commento di IC sulla Giornata della Memoria è condensato nella Cartolina da Eurabia di Ugo Volli del 21/01/2014 dal titolo "Quel che la Giornata della Memoria non ricorda".
Per leggerla, cliccare sul link sottostante
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=52116

Ecco i pezzi:

La REPUBBLICA - Aharon Appelfeld : " Raccontare la Shoah "


Aharon Appelfeld

Sono passati sessantanove anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. E ora mi sembra che stiamo entrando in una fase nuova del nostro rapporto con l’Olocausto. Il cambiamento è sempre più evidente perché i sopravvissuti stanno lasciando questo mondo.
Isopravvissuti erano e rimangono lo spauracchio di chiunque scriva sull’Olocausto, si tratti di uno storico o di uno scrittore. I sopravvissuti stavano sempre in guardia per controllare che gli eventi fossero riferiti nell’ordine giusto, che località e nomi non fossero omessi, che i particolari non fossero alterati. Per il sopravvissuto era importante che l’Olocausto fosse raccontato con dettagli precisi.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era l’ancora alla quale aggrapparsi con tutte le proprie forze. Scrivere sull’Olocausto opere di fantasia è stato considerato, e lo è tuttora, qualcosa di inadeguato alla gravità dell’argomento. Si sente spesso dire: con l’Olocausto non si gioca con le parole o le forme, ma si raccontano le cose così come andarono, nel modo più preciso possibile. In questo ambito, l’introduzione di un elemento qualsiasi di creatività, che esuli dal ricordo in senso stretto, è proibito. Non è un caso che la maggior parte di ciò che si è scritto sull’Olocausto rientri nell’ambito della storia. Psicologia e teologia vi occupano una parte soltanto minima. È vero, sull’argomento si è scritta moltissima letteratura sensazionalistica e opere letterarie che contengano la verità sono rare.
Finché i sopravvissuti hanno vissuto in mezzo a noi, l’Olocausto è stato una presenza molto concreta. Aveva un nome proprio, un cognome, una città, un villaggio. Con la sua presenza, con il suo silenzio, raccontava leatrocità. Potevi incontrarlo per strada, a casa sua, alle cerimonie commemorative. Di fatto, ovunque. Sull’Olocausto è stato scritto un abbondante corpus di testimonianze. Se si osserva la natura di tale testimonianza, ci si rende subito conto che essa è priva di introspezione, la maggior parte delle testimonianze è resoconto. Tutto ciò che fu rivelato a chi era ebreo durante quegli anni andava oltre la sua ragione e il suo spirito. Si era trovato nel luogo esatto in cui si erano perpetrate quelle atrocità, e una volta libero aveva desiderato considerare il tutto un incubo, uno squarcio nella vita che doveva essere ricucito pril’Olocausto, possibile, un orrore che non meritava una valutazione spirituale, ma soltanto una maledizione. Per evitare malintesi, aggiungo subito che la letteratura della testimonianza è indubbiamente l’autentica letteratura dell’Olocausto. È una riserva immensa di cronologia ebraica.
Oggi si fa avanti un tipo diverso di sopravvissuto: tutti coloro che erano bambini quando scoppiò la guerra e la loro testimonianza è diversa. I bambini non assorbirono fino in fondo tutto l’orrore delpri ma soltanto quella porzione che erano in grado di assorbire. I bambini sono privi del senso del tempo che passa, del confronto con il passato. Mentre il sopravvissuto adulto parlava di com’era la sua vita prima della guerra, per i bambini l’Olocausto era il presente, era la loro infanzia, la loro giovinezza. Non conoscevano altra infanzia, né la felicità. Crebbero nel terrore. Non conobbero altra vita. Mentre gli adulti poterono estraniarsi da loro stessi e dai loro ricordi, reprimerli ecostruirsi una nuova vita al posto di quella precedente, i bambini non avevano avuto una vita precedente oppure, se anche l’avevano avuta, ormai gliel’avevano cancellata. L’Olocausto era il latte nero, come disse Paul Celan, che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera.
Questo aspetto psicologico ha avuto anche un significato ideologico. L’Olocausto per lo più è concepito, perfino tra le sue vittime, come un episodio, una follia, un’eclissi che non appartiene alflusso normale del tempo, un’eruzione vulcanica dalla quale bisogna stare in guardia, ma che non dice niente sul resto della vita. Nel caso dei bambini cresciuti nell’Olocausto, la vita durante quegli anni fu qualcosa che erano in grado di capire, perché l’avevano assorbita nel loro stesso sangue. Conobbero l’uomo bestia predatrice, non metaforicamente, ma come realtà materiale, con tanto di corporatura e abbigliamento, modo di stare in piedi o seduto, modo di carezzare i proma figli e percuotere un bambino ebreo. I bambini stavano seduti per ore, e osservavano. Fame, sete, debolezza ne fecero creature che osservavano. Invece degli assassini, osservavano i loro padri e i loro fratelli maggiori in tutta la loro debilitazione, in tutto il loro eroismo. Quelle visioni si impressero in loro proprio come l’infanzia si imprime nella matrice stessa della propria carne.
Per i bambini sopravvissuti, la guerra era la vita. Non sapevano parlare dell’Olocausto in termini storici, teologici o morali. Potevano parlare soltanto di paura, di fame, di colori, di celle, di persone che erano state buone con loro o di persone che li avevano maltrattati. L’intensità della loro testimonianza sta tutta nel loro orizzonte limitato. Non stupisce che la loro testimonianza sia stata respinta dai sopravvissuti adulti. Era considerata da questi ultimi una fantasia, una distorsione, qualcosa che riduceva la gravità dell’argomento. E oggi che si diffonde la negazione dell’Olocausto, si sente spesso dire: rimuovete la fantasia dalle testimonianze sull’Olocausto. Dovreste attenervi sempre più ai fatti.
Oggi abbiamo un corpus di testimonianze, scritte e orali, di sopravvissuti bambini e la loro testimonianza è più vicina alla letteratura. I loro ricordi sono piccoli, e quando riescono a ricordare che cosa accadde loro durante la guerra mettono in moto fantasia, sensazioni e sentimenti per ricostruire il loro passato. Questo tipo di testimonianza non dovrebbe essere considerato una testimo-nianza fattuale, ma una testimonianza riorganizzata.
Durante la guerra non vidi molti bambini. Istintivamente capii che dovevo stare per conto mio, ma dopo la guerra ne incontrai molti. Appartenevano alle masse di sopravvissuti che si aggiravano sulle spiagge della Jugoslavia e dell’Italia. Gli anni di guerra trascorsi nelle foreste e nei monasteri avevano lasciato il segno sulle loro facce e nelle loro espressioni. Alcuni di loro cantavano bene. Dico bene, anche se in genere le loro voci erano incrinate. Le loro canzoni erano reminiscenze delle melodie delle loro case ebraiche mescolate a frammenti di musica d’organo dei monasteri. Tutto ciò si fondeva in loro in una nuova forma di melodia che soltanto i bambini, nella loro cecità, potevano creare. La puoi definire innocente, o soltanto inelegante. C’erano bambini acrobati, che camminavano conmeravigliosa maestria su una corda tesa. Nei boschi avevano imparato ad arrampicarsi sui rami più alti e più sottili. C’erano anche bambini che imitavano animali e uccelli.
Parlo del destino dei bambini perché è da loro che, col passare del tempo, sono emerse espressioni artistiche. È strano dirlo così, ma lo si deve dire. Era necessaria una forma di relazione semplice, diretta, non mediata con quegli spaventosi eventi per poter parlare di loro in termini artistici. Nessuna sublimazione, nessuna scusa, e nemmeno glorificazione, ma soltanto il modo che ha una persona qualunque di parlare degli eventi della propria vita, per quanto terribili possano essere, ma in ogni caso sempre vita.
Quello era il modo di parlare, se così si può dire, dei bambini. Quello era il modo col quale si espressero quando erano nel ghetto e in seguito nei campi liberati, e qualcosa di quella qualità non mediata è rimasta loro dentro, anche dopo che sono cresciuti e hanno cercato sé stessi, come esseri umani e come ebrei. Nel corso degli anni il problema, e non solo il problema artistico, è stato quello di rimuovere l’Olocausto dalle sue dimensioni smisuratamente disumane e di avvicinarlo agli esseri umani. Per sua stessa natura, quando si tratta di descrivere la realtà, l’arte esige sempre una certa intensità, una forma di esagerazione. Ma non è il caso dell’Olocausto. Ogni cosa che lo riguarda sembra già profondamente irreale, come se non appartenesse più all’esperienza della nostra generazione, ma alla leggenda. Da qui nasce l’esigenza di riportarlo giù, nel regno dell’umano. Quando dico “riportarlo giù”, non intendo semplificare, attenuare o lenire tutta la sua atrocità: intendo cercare di far sì che gli eventi parlinoattraverso il singolo e nella sua lingua, intendo recuperare tutta la sofferenza da cifre enormi e dall’atroce anonimato, intendo restituire il nome e il cognome al singolo, ridare al torturato la forma umana che gli è stata rubata.
I sopravvissuti bambini non possono ricordare l’Olocausto nello stesso modo dei sopravvissuti adulti. Il loro contributo è legato alla loro esperienza, ma la loro limitata esperienza è profonda. Non stupisce che proprio da loro sia iniziata la letteratura dell’Olocausto.

La REPUBBLICA - "Sei milioni di volte 'ebreo' "


Phil Chernofsky

GERUSALEMME — La parola “ebreo” ripetuta per sei milioni di volte, come le sei milioni di vittime dell’Olocausto, in un libro di circa 1250 pagine. L’opera si chiama E ognuno fu qualcuno. L’autore è Phil Chernofsky, un insegnante americano sessantenne, nato a New York ma poi trasferitosi in Israele, che ha voluto così ricordare la strage della Shoah. Chernofsky ha spiegato: «Ho scritto questo libro perché è così che i nazisti consideravano le loro vittime: non individui o persone. Ma semplicemente una massa. Una massa da sterminare». Ilan Greenfield,a capo della casa editrice israeliana Gefen che ha pubblicato il libro, ha detto che l’opera dovrebbe essere esposta, a turno, in tutte le sinagoghe e le chiese, per ricordare la tragedia della Shoah e ha annunciato che donerà una copia al presidente americano Obama. Il libro ha già venduto cinquemila esemplari e attualmente il suo prezzo si aggira intorno ai cinquanta euro.

CORRIERE della SERA - Riccardo Pacifici : " Dare ai giovani gli strumenti per non restare indifferenti "


Riccardo Pacifici

«Ricordati di ciò che ti fece Amalek, durante il viaggio, quando usciste dall’Egitto». Così è scritto nell’ultimo dei cinque libri della Torah. Amalek è colui che cercò di distruggere il popolo d’Israele durante l’uscita dalla schiavitù in Egitto. In ogni tempo gli ebrei hanno dovuto combattere per la sopravvivenza contro un nuovo Amalek che tentava di annientarlo. Per questo non dobbiamo dimenticare. E non vi è dubbio che Hitler e il nazismo sono stati l’Amalek del nostro tempo. Del resto, secondo la tradizione dei nostri Maestri, il «ricordo» è un precetto accompagnato dall’imperativo «non dimenticare» (Zachor, lo tischak). Per questo il 27 gennaio, istituito Giorno della Memoria nel 2005, rischia di relegare ad un singolo giorno un impegno che dovrebbe in realtà cingere la nostra quotidianità. Su questo sarebbe utile un continuo e costante confronto tra gli storici, gli educatori e le istituzioni che sono, senza dubbio, il motore delle celebrazioni insieme con le scuole. I nostri detrattori ci accusano pubblicamente, oggi ancor di più abusando dello strumento della Rete, di usare il 27 gennaio per «farci commiserare». Sta a noi dimostrare senza esitazione che queste odiose accuse possono essere rovesciate: i sopravvissuti alla Shoah quasi mai si soffermano nel racconto delle sofferenze vissute nei campi di sterminio, ma sottolineano l’importanza di imparare dalla loro tragedia per scongiurare i pericoli del presente e del futuro affinché nessun altro «possa vedere ciò che i loro occhi hanno visto dentro l’inferno di Auschwitz-Birkenau» (Samy Modiano). Noi ricordiamo affinché il mondo non sia mai più indifferente. Per questo credo che il lavoro svolto nelle scuole grazie ai reduci dai campi e agli scampati alla Shoah debba insistere sull’idea che il valore della Memoria passa sottile, come un filo dentro la cruna di un ago, attraverso la consapevolezza di quanta complicità vi sia stata dalla maggioranza silenziosa dell’opinione pubblica che tra le pieghe del nazifascismo rimase indifferente. Quell’indifferenza che si rese complice delle tirannie incominciando con i provvedimenti discriminatori, passando per la cattura degli ebrei e poi per il trasporto in campi di sterminio attraversando mezza Europa. La battaglia di oggi è dare alle nuove generazioni gli strumenti per non rimanere indifferenti di fronte alle tragedie del presente. Che non sempre si manifestano subito con la violenza fisica, ma cominciano con quella verbale e con l’arma della demagogia, sventolando beceri stereotipi contro ogni minoranza, al fine di trovare una valvola di sfogo ai drammi contemporanei. Aiutare i giovani a non restare indifferenti significa sottrarli un domani dall’accusa di essere stati dei «volenterosi carnefici di Hitler», citando il libro di Daniel Goldhagen. Ma il nostro sforzo sulla Memoria non passa solo attraverso il ricordo delle brutalità e delle violenze fisiche. Il progetto originario, e già prima dell’avvento del nazismo, era annullare e mortificare la nostra identità ebraica. Annientarci prima di tutto culturalmente, e poco si sa sui numeri della portata di questo «annientamento culturale». C’è persino chi si allontanò dalla propria comunità, immaginando ingenuamente di trovare la salvezza. E se oggi vogliamo fare un servizio alla causa della Memoria dobbiamo accompagnare gli investimenti sui musei e i memoriali della Shoah con gli aiuti concreti che possano mantenere viva la nostra identità, rafforzando i progetti educativi nelle oramai poche scuole ebraiche rimaste in Italia. In questo, oggi, la Germania è diventata un esempio e con il sostegno economico statale ha consentito il risorgere delle proprie comunità ebraiche. Essere vicini alle istituzioni ebraiche, in questi giorni, è certamente un fatto che ci apre il cuore alla speranza. Ma immaginare un futuro in cui l’Italia possa commemorare i «propri ebrei» senza più ebrei, come già avviene in tanti Paesi d’Europa, significherebbe che ogni sforzo sulla Memoria sarà stato vano.

CORRIERE della SERA - Paolo Di Stefano : " Shoah, il culto della Memoria non basta, rivediamo le vecchie categorie politiche "


Paolo Di Stefano

Come ricordare? È una domanda che mette in discussione il significato della Giornata della Memoria, richiamando la necessità di non accontentarsi di un «Mai più» che rischia di essere rassicurante e conciliativo. «Come ricordare?» è il sottotitolo del libro dello storico francese Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz , appena uscito per Einaudi in una nuova edizione rivista e ampliata. «L’era delle commemorazioni — scrive Bensoussan — esprime l’inquietudine di un mondo privato di senso». E continua: «La ricerca di senso contribuisce a banalizzare ulteriormente la specificità di ogni avvenimento; e cioè, nel nostro caso, ciò che fa dello sterminio del popolo ebraico una cesura della Storia». Il «culto della memoria» diventa garanzia della nostra identità, ma non riesce a soddisfare la conoscenza (e la coscienza) di un crimine senza proporzioni.
La domanda che si lega alla prima è: come insegnare la Shoah alle generazioni presenti e future? Non basta il racconto emotivo dell’orrore, come accade spesso alla vigilia delle rievocazioni: lo afferma con decisione (e dolorosamente) un altro libro uscito in queste settimane, Contro il giorno della memoria di Elena Loewenthal (Add Edizioni). Lo storico francese si chiede se questo «tumulto della memoria», piuttosto che presentarsi come la cancellazione di un tabù, non si riveli in definitiva un «parlare senza fine per non dire l’essenziale»: «Talvolta, effettivamente, si commemora per dimenticare, e certi ricordi ostacolano la memoria».
È un dato di fatto che il moltiplicarsi delle commemorazioni non ha affatto impedito (né almeno attenuato) la crescita dell’antisemitismo in Europa. La nostra arma, avverte Bensoussan, non è la memoria ma la Storia: «la politica della memoria deve mutarsi in politica della storia, se non addirittura in un imperativo per la comunità». Il genocidio ebraico non fu una «parentesi» nella storia umana (neanche il fascismo italiano lo fu), un gesto di prevaricazione violenta da parte di un manipolo di assassini, ma un crimine di Stato diventato l’opera di una collettività, cui contribuirono non soltanto l’antisemitismo, ma la burocrazia e la tecnologia. Dunque, se non si vuole sminuirne la portata, «questo disastro costringe a rivedere le categorie politiche tradizionali». La pedagogia della memoria, che sfocia in un generico appello alla tolleranza o al dovere di non dimenticare, non è sufficiente, può servire solo a sistemare provvisoriamente la nostra coscienza. Partendo dal lungo processo che ha portato ad Auschwitz, è necessario esaminare quali siano i legami tra barbarie e progresso, tra crimine e (apparente) normalità. Educare alla critica civile tutti i giorni dell’anno.

La REPUBBLICA - Susanna Nirenstein : " Auschwitz non è un museo "


Susanna Nirenstein

Smettiamo di considerare Auschwitz un museo perché Mein Kampf di Adolf Hitler, oltre a essere stato in questi giorni sdoganato dalla Baviera che sinora ne aveva vietato la pubblicazione, è già un bestseller tra gli ebook (in inglese ce ne sono sei versioni ed è al primo posto nella sezione “Political and Propaganda Psychology” di Amazon e al 12esimo in “Politics and Current Events” dell’iTunes Book Store oltre a essere tra i libri più letti nei paesi musulmani). Auschwitz non è un museo perché nel 2012 in Francia sono stati registrati 614 atti antisemiti, 1,6 al giorno, il 58 per cento in più dell’anno prima, tra cui aggressioni e uccisioni a mano armata spesso a sfondo israelofobico da parte di chi inneggia alla jihad. E perché in Ungheria e Grecia l’antisemitismo è rappresentato in parlamento. E in Italia ci sono onorevoli che parlano di complotto dei banchieri ebrei. Auschwitz non è un museo perché c’è ancora molto da sapere e dachiarire dello sterminio nazista: per restare ai dati, l’United States Holocaust Memorial Museum di Washington, raccogliendo i risultati delle ricerche per l’enciclopedia in corso di pubblicazione, è arrivata solo quest’anno a focalizzare numeri scioccanti, di gran lunga superiori a quelli noti. Ha infatti catalogato 42.500 tra ghetti e lager realizzati dai nazisti in tutta Europa, alcuni campi dedicati allosterminio, ma anche: 30.000 campi di lavori forzati, 1.150 ghetti, 1000 destinati ai prigionieri di guerra, 980 campi di concentramento, 1.000 di prigionia di guerra, a cui ne vanno aggiunti altre migliaia di più piccoli e meno noti, come i 500 bordelli con relative schiave del sesso, i lager (circa 90) destinati all’eutanasia dei vecchi e dei malati, e quelli per gli aborti forzosi, e ancora quelli di “donazione di sangue” (tolto ai bambini slavi – lasciati morire – per i soldati tedeschi feriti), e altri di “germanizzazione”, posti dove veniva raccolta un’infanzia soprattutto polacca e russa (dall’aspetto insomma razzialmente puro) presi dagli orfanotrofi o rapita alle famiglie: gli “elementi validi” erano dati in adozione a tedeschi, quelli scartati uccisi. In questo sistema concentrazionario entrarono dai 15 ai 20 milioni di persone, e ne morirono tra i 7 e gli 8 (tra i 3,5 e i 4 gli ebrei), a cui vanno aggiunte le fucilazioni e le fosse comuni ad Est, che portano a 6 i milioni di ebrei uccisi. «Le cifre e le diverse tipologie dei campi sono state sorprendenti anche per noi» ci ha detto Geoffrey Mergaree direttore dell’enciclopedia, «a questo punto al fatto che i tedeschi non sapessero quel che stava avvenendo non può più credere nessuno”. Nella sola Berlino c’erano 3.000 centri dove erano detenuti gli ebrei, ad Amburgo 1.300. Questi numeri sono così immensi che finiscono quasi per annullarsi, per ubriacarci. Ma riguardano tutti singoli individui, con un nome e un cognome, una vita prima dell’annientamento, una realtà che può sfuggire se invece smettiamo di ragionare su come si arrivò alla rottura di civiltà europea, se musealizziamo il Giorno della Memoria. Due libri diversissimi tra loro in uscita per il 27 di gennaio colgono bene il tema oltre il nuovo The Devil That Never Dies di Daniel Goldhagen incentrato sulle figure dei nuovi odiatori di ebrei, come Ysuf al-Qaradawi che nei suoi popolari sermoni su Al Jazeera predica la punizione degli ebrei per la loro corruzione, «dopo Hitler sarà per mano dei credenti (leggi musulmani ndr) che verrà portata a termine»: la cosa non scandalizza nessuno. Ma torniamo ai nostri due libri. Prima, brevemente, Scorzedi Georges Didi-Huberman (Nottetempo, trad. Anna Trocchi) filosofo e storico dell’arte francese, un racconto fotografico di un luogo dove sembra non ci sia più niente da vedere, Auschwitz Birkenau appunto, “museo della memoria” con i suoi allestimenti, ricostruzioni (come quella delle immagini prese di nascosto da un membro del Sonderkommandosu un gruppo di prigionieri che corrono nudi verso le camere a gas sotto la minaccia dei soldati: manca nella messa in scena delle foto quella fuori fuoco, l’unica che poteva spiegare, evocare la circostanza travolgente in cui furono tutte scattate, in segreto, e salta anche il punto di vista dell’uomo – la porta della stessa camera a gas – che rischiò per documentare l’obbrobrio). Uno sguardo attento come quello di Didi Huberman sconvolge l’asetticità del museo e recupera quel che i nazisti distrussero: coglie ad esempio i fiori nati dove riposano le ceneri del crematorio, le tracce – schegge e frammenti di ossa che la pioggia ha fatto risalire in superficie – dei massacri di massa nelle aree continuamente ricoperte di nuova terra. Auschwitz non è un museo, appunto. Gli esseri distrutti sono ancora lì – 12.000 assassinii al giorno durante l’estate ’44 ad esempio,aggiungiamo noi – nel più grande cimitero del mondo. Attacca ancor più direttamente la sterilità di un retorico “dovere della memoria” e indica invece le strade da seguire (Come ricordare? recita il sottotitolo), lo storico francese Georges Bensoussan (grande indagatore della storia contemporanea ebraica e della Shoah, con alle spalle numerosi titoli e riconoscimenti). Il suo ampliamento deL’eredità di Auschwitz (Einaudi, trad. Camilla Testi, postfazione Mauro Bertani) porta non uno ma mille spunti su come vada corretta l’impostazione attuale che comunque continua a considerare la Shoah come lezione oscura sacralizzata, incarnazione di un male assoluto e folle, impossibile da indagare a fondo e da attualizzare. Difficile tirare fuori da questo testo fitto fitto di suggestioni e indicazioni, le cose essenziali. Eccone alcune. Primo, la Shoah non è affattola ripetizione di tragedie ebraiche passate: è una cesura della civiltà europea, ma non è assolutamente un incidente della Storia, è un crimine bio-politico sviluppato da dentro l’idea dell’igiene del mondo a sua volta originata dal darwinismo sociale sviluppato nel XIX secolo, un fenomeno da tenere a mente, dice Bensoussan, anche mentre guardiamo l’oggi e la nostra deificazione della scienza. Ma per quanto il millenario antigiudaismo cristiano e l’antisemitismo nazista siano diversi, mette in guardia Bensoussan, essi non sono opposti: l’antigiudaismo cristiano ha preparato il terreno, ha introdotto l’identità demoniaca degli ebrei, e non solo quello (anche la limpieza del sangue richiesta nella Spagna del XV secolo). Oltre a questo, c’è molto altro. Ovvio. Se il nemico per il nazismo è un oggetto biologico da eliminare, il progetto genocida è anche frutto di una visione millenarista e appunto demonizzante (come non pensare anche qui all’oggi, e alla definizione degli ebrei come figli di scimmie, all’assurda denuncia che i soldati israeliani distribuiscano caramelle avvelenate ai bambini palestinesi), tanto che con la ragione non si arriva a stabilire una casualità lineare: sono un milione i tasselli da mettere insieme. E Bensoussan ce li suggerisce chiedendo di fare Storia, non di ricordare. Lo sforzo di comprensione ci spinge a fare paragoni, sacrosanti ma non devono livellare, ogni genocidio ha la sua specificità. Quello degli ebrei, delle camere a gas, nasce dal ventre dell’Europa e dalla modernità: il terreno di ricerca, di archeologia storica è ancora in gran parte incolto, gli interrogativi che pone sono ancora molti, da rivolgere a se stessi e nelle scuole. Leggete Bensoussan e ve ne renderete conto.

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