Stavamo per scrivere di essere, per la prima volta, d'accordo con Sergio Luzzatto per il suo pezzo sul SOLE24ORE/Domenica di oggi, 26/01/2014, a pag.32, dal titolo "Eichmann e X Factor: no grazie". Poi abbiamo ripensato al trattamento che il nostro riservò a Primo Levi, quando usci "Partigia", che diamine, bisognava trovare un argomento che suscitasse interesse su un libro che altrimenti avrebbe avuto poca attenzione, niente di meglio che far calare ombre e sospetti su Primo Levi partigiano, si sa, le vendite contano.
Per fare la predica agli altri occorre avere gli armadi in ordine, e non ci pare proprio che Luzzatto li abbia.
Ecco il suo pezzo:
Sergio Luzzatto
Non c'è bisogno di essere totalmente d'accordo con Elena Loewenthal, che ha pubblicato in questi giorni un pamphlet Contro il Giorno della Memoria, per deplorare certi effetti collaterali provocati dall'istituzionalizzazione del ricordo della Shoah. E per condividere con la scrittrice torinese l'impressione che sì, che effettivamente il Giorno della Memoria sia divenuto anche un «pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori». Valga ad esempio l'uscita del film di Roberto Faenza, Anita B. (mielosa rappresentazione del destino di una ragazza ebrea ungherese sopravvissuta al Lager per rinascere in Palestina). Su «Repubblica», il film è stato lanciato con una pagina di pubblicità che merita di entrare - tale e quale - nella storia dei più deteriori fra gli usi pubblici della Soluzione finale. È una pubblicità dove si vede l'organizzatore dello sterminio di massa, Adolf Eichmann, con le cuffie intorno alle orecchie, come se stesse ascoltando una musica anziché le accuse del processo di Gerusalemme, e dove si legge lo slogan: «A quale X-Factor partecipò Adolf Eichmann?». Questo si vede, in una pagina che declina poi i soliti luoghi comuni intorno alla necessità di conoscere la storia per onorare la memoria. E davvero vien voglia di dire, con Elena Loewenthal: basta! Basta con il gioco a chi la spara più grossa, tra sangue e miele, lacrime e kitsch, per quindici secondi di attenzione mediatica. Basta con la pornografia culturale su Auschwitz travestita da buonismo retrospettivo. Vien voglia di dire così, ma a rischio di soddisfare - alimentando polemiche - l'obiettivo stesso dell'inserzione pubblicitaria. Dunque resta soltanto da sperare che una pubblicità del genere si riveli controproducente. Che anziché invogliare il lettore di «Repubblica» ad andare al cinema per vedere il film di Faenza, lo induca piuttosto a rimanersene a casa.
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