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La Stampa Rassegna Stampa
26.01.2014 Tunisia: Così finisce la Primavera, dai sogni al martirio
Reportage di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 26 gennaio 2014
Pagina: 14
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Shina e Anis, dai sogni al martirio. Così finisce la Primavera tunisina»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/01/2014, a pag.14, con il titolo "Shina e Anis, dai sogni al martirio. Così finisce la Primavera tunisina " il reportage di Domenico Quirico sulla Tunisia.

Domenicio Quirico

Tutto si disfaceva e nel disfarsimostrava in che modo era stato fatto e quale meraviglia fosse una cosa che era stata. Credevano nella decadenza totale del Paese, allora,ma nello stesso tempo che la decadenza vuol dire rinascita. Rivoluzione: che non dava a ciascuno un pezzo di terra o denaro,ma dava a ciascuno la propria vita. Sono tornato soprattutto per due di quei ragazzi, chemi apparvero, la prima volta, come ombre nel grigio dei lacrimogeni. Una di quelle spavalde cecità giovanili che è così bello quando si risolvono in vittoria, quasi che un dio avesse fatto da guida. C’è fumo anche oggi ma sono soltanto le eterne immondizie che nessuno raccoglie e vengono bruciate penosamente. Il caffè dove mi aspetta Josri, il cugino che mi ha annunciato il loro destino, è vario come il quartiere; ci sono poveri e meno poveri, tipi per bene e tipi meno. Quelli per bene sono un po’ disordinati e i disordinati sono abbastanza per bene. Chi potrebbe dire che questo o quello là sia esattamente un operaio, un artigiano, un piccolo avventuriero della miseria quotidiana? A Tunisi ci sono tanti mestieri e tanti intrallazzi. E le due donne sedute un po’ nell’ombra sono puttane o altro? Spesso un po’ tutte e due le cose. Il padrone fa anche da mangiare e sa che la clientela può sopportare solo prezzi ragionevoli. E una parte dei clienti traffica con il padrone in tali e tal’altri affari. Che cosa è un caffè di Tunisi? È un posto dove si trattano tutte le faccende materiali e morali di un quartiere o di un gruppo. C’è un segreto a cui partecipano più o meno tutti quelli che entrano per bere un caffè o una birra. Ci sono quelli che passano e non tornano perché sono esclusi dal segreto, altri che tornano e non sono messi a parte del segreto ma che si tengono perché fanno parte del posto. La rete della diffidenza e della fiducia è più allentata qui più fitta là. La regola si appoggia sulle eccezioni come nella vita. Nella bottega accanto un artigiano fabbrica, uno dopo l’altro, setacci di legno. Penso a quanto abbiamo parlato di Internet, 3 anni fa… E invece la rivoluzione è nata in caffè come questo. Shima e Anis: i due cugini, inseparabili. Avevano da lontano, a pensarci ora che conosci la fine terribile, l’aria solida, sicura, ragazzi forti e duri, gente che aveva ritrovato il mondo della collera e della rivolta Ma da vicino il loro sguardo era incerto, battuto, con brevi ombrosità che annunciavano la decisione e poi si dissipavano. L’ultima volta che li ho visti credevano ancora di aver vinto. Poi il tempo ha ripreso a scorrere a casaccio, i giorni non erano più vissuti per se stessi come in quella Primavera, non erano che domani, non sarebbero stati mai che domani. Ora sono morti, da jihadisti: uno kamikaze in Iraq a Falluja, poche settimane fa, l’altro ucciso dai francesi in Mali, l’estate scorsa. Morti: eppure la loro vita è qui, dappertutto, impalpabile, compiuta, dura e piena così fluida che Tunisi e i quattro angoli del mondo arabo vi passano attraverso, grande fiera immobile e vociante. Il senso violento del divino, ancora, senza scampo. È finita qui la gioventù della rivoluzione? Dove cominciano i nostri atti? Il destino quando vogliamo isolarlo somiglia alle piante che è impossibile strappare con tutte le radici. Josri, lui, è diverso, ha attraversato la rivoluzione con una tranquillità di sonnambulo. I solchi gli fanno il viso impietrito come da un dolore senza speranza.Quando racconta, nel caffè, si forma un silenzio dove comincia a soffiare la commozione. «Shima faceva il camionista da due anni, ma non era più lui, era diventato silenzioso, affunghito, dolorosamente meravigliato. Tutto quello che abbiamo fatto. Perché? Per niente? Poi un giorno ha deciso, lo ha detto allamadre, vado a combattere in Siria. Lei in silenzio lo ha benedetto. Con alcuni amici prima in Libia, il cammino passa di lì, hanno fatto tutto da soli». Ci sono almeno cinquemila tunisini che si battono nel jihad siriano, molti con alti gradi, un migliaio almeno di loro, è già morto. «È arrivata una mail, l’ultima, alla moglie, vado in Iraq, sarò un martire, addio». L’assurdo ritrova i suoi diritti. Bisogna sorpassarsi così per trovare Dio? Dio ha creato la sua speranza, la sua ragione di vivere e di morire. E poi? «All’inizio ero furioso contro di lui, lasciare la moglie e i tre bambini piccoli così, senza mezzi… poi abbiamo scoperto che aveva provveduto: il camion venduto, per lasciare un po’ di soldi, e la casa comprata. I bambini, sette e cinque anni, lo hanno scritto a scuola: il mio papà è un martire, siamo felici… gli altri bambini li guardano invidiosi». A Tunisi si parla della nuova Costituzione, all’ultimo capitolo forse dopo tre anni di discussioni. Sono stato al Bardo dove si riunisce l’assembla costituente, la rissa degli ultimi articoli ancora aperti, la tentazione del ridiscutere: un teatro di gente incapsulata in un ottuso egoismo, conventicole abbigliate con il sospetto e la diffidenza. La Costituzione: pagine di carta dove son scritte le libertà, le regole di uno Stato civile e secolare, si crea una Corte costituzionale che vigili. Gli islamisti di Ennahda, si dice, sono stati costretti dalla pressione popolare ad accettare regole che non sembrano assomigliare al loro Credo. Abdelfattah Mourou, avvocato, ha fondato il partito islamico insieme a Rached Ghannouchi; le sue critiche gli sono costate aggressioni e minacce. Andiamo nel suo studio:vive all’ultimo piano, bisogna passare per porte sbarrate, corridoi senza sbocco, scale e impicci per eventuali anime nere, bramose della vendetta. Parla con energica impulsività, la testa gettata indietro come un moschettiere: «Il problema non è il rapporto tra islame democrazia, ma tra la decadenza dell’islam e la democrazia. Ennahda ha sbagliato: non si può governare solo con i poveri, i deboli, senza avere con sè gli imprenditori, la stampa e gli intellettuali, l’opposizione tunisina vive tra libri e nuvole, non ha rapporto con il popolo. Ma noi siamo un piccolo Paese più vicino all’Europa che al Medio oriente, non vogliamo esportare modelli. È importante che gli islamici non siano cacciati dal governo, messi in un angolo, costretti a battersi contro la democrazia per esistere. Noi dobbiamo cercare di vivere il nostro tempo, se vivi la modernità come può essere contrario l’islamche è nato per dare dignità all’uomo? E siamo qui per vivere non per morire». Penso ai due cugini che hanno scelto la morte. E chiedo a Dalila Ben Mbarek di raccontarmi come ci siano altri ragazzi che non hanno disertato nell’islamismo e non hanno perso le speranze. Dalila ha occhi scuri e in lei quando parla si gettano l’un contro l’altra il sogno e l’ostinazione, il furore e la dolcezza. È avvocato, è diventata il simbolo della società civile decisa a porsi come forza propositiva, ha creato, a sue spese, una rete di cittadini che si chiama «Doustourna» la nostra costituzione, ha scritto un libro contro il fanatismo: «Se necessario prenderò le armi». «La nostra è stata una rivoluzione contro il Padre, il padrone, il raiss. I politicanti non hanno capito niente, pensavano che tutto potesse tornare come prima, come ai vecchi tempi; ragazzi siete fantastici, ma adesso lasciate fare a noi, su! Fate i bravi, lasciateci lavorare… e invece no: la pressione popolare li ha braccati, costretti a proseguire, obbligati a scegliere la costituente, a scrivere questa Costituzione. Un lavoro duro, faticoso questo controllo conti nuo, ma che ha insegnato alla società civile a lavorare insieme, a creare un sistema di alleanze, è lei che sta facendo quello che i partiti non hanno saputo fare. Non abbiamo più bisogno di loro, abbiamo Internet che ha rovesciato il mondo, questo mondo, le gerarchie con i capi, i sottocapi, i portaborse. C’è una nuova dimensione senza frontiere, una nuova cultura nasce». Imen benMohamed è una giovane deputatessa di Ennahda, non si turba alle contestazioni, ai dubbi, alle domande maliziose. Ha nel volto, contornato dal velo, una irrefrenabile gioia di vita, una curiosità maliziosa che la fa a tratti di una bambineria irraggiungibile. «È più facile abbattere le dittature che ricostruire. Noi abbiamo fatto le maggiori rinunce per arrivare al compromesso costituzionale, abbiamo lasciato il potere anche se eravamo maggioranza, abbiamo accettato il sistema presidenziale anche se preferivamo quello parlamentare perché più adatto a una democrazia nascente. Certo ci sono ritardi, ma con noi il Pil è cresciuto nonostante la crisi e gli scioperi, la libertà è stata garantita, nessuna vendetta, una rivoluzione pacifica. C’è una legge sulla riconciliazione nazionale di cui non parla nessuno ma che è importante come la costituzione. Ennahda è la prova che islamismo e democrazia si integrano.Noi la democrazia la pratichiamo già al nostro interno. Certo ci sono i fanatici, i salafiti, i terroristi ma li abbiamo denunciati e perseguiti: in uno stato di diritto chi sbaglia, anche con le parole, deve pagare».

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