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IlGiornale-Corriere dlla Sera-IlSole24Ore-La Stampa Rassegna Stampa
26.01.2014 Shoah: interviste, commenti, libri
Fiamma Nirenstein, Daria Gorodisky, Giulio Busi, Marco Belpoliti

Testata:IlGiornale-Corriere dlla Sera-IlSole24Ore-La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein-Daria Gorodisky-Giulio Busi-Marco Belpoliti
Titolo: «L'antisemitismo non è morto. Ha un altro nome-La sciagura di essere una madre-Il Requiem al Lager-Il re buffone degli ebrei di Lòdz»

Domani è il 27 gennaio, giorno della memoria. Sul tema, riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 26/01/2014, a pag. 1-20, l'intervista di Fiamma Nirenstein a Daniel Goldhagen, le recensioni di Daria Gorodisky sul CORRIERE della SERA-LETTURA a pag. 12, di Giulio Busi sul SOLE24ORE-DOMENICA a pag. 32, dalla STAMPA il pezzo di Marco Belpoliti, a pag.32, sulla figura storica di Chaim Rumkowski.

Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " L'antisemitismo non è morto. Ha un altro nome"

Daniel Goldhagen                                              Fiamma Nirenstein

«L’antisemitismo è il prin­cipale pregiudizio etnico di tutti i tempi, e con la globaliz­zazione è diventato mondia­le ». Il nuovo libro di Daniel Goldhagen The Devil that ne­ver Dies è, come il suo celebre I
volenterosi carnefici di Hitler

(1996), un testo che schiaccia il lettore sotto una valanga di informazioni e dati che prova­no una tesi scandalosa quan­to evidente: e cioè che l’antise­mitismo non è un fenomeno da affidare alla memoria del passato, relegare nei libri. No, il male esiste ancora, il «demo­nio » resiste. Ha le stesse carat­teristiche genocide di un tem­po e, naturalmente, minaccia in primis lo Stato di Israele, l’ebreo collettivo.

Il nuovo libro di Daniel Goldhagen The Devil that never Dies (Little, Brown & Company, pagg. 486, dollari 30) è, come il suo celebre I volenterosi carne­fici di Hitler (1996) una testo che schiaccia il lettore sotto una valanga di informazioni e dati che provano una tesi scan­dalosa quanto evidente: è cioè che l’antisemitismo non è un fenomeno da af­fidare alla me­moria del passa­to, relegare nei libri. No, il male esiste ancora, il «demonio» resi­ste. E l’antisemi­tismo, dice Gol­dhagen, ha le stesse caratter­i­stiche genocide di un tempo e, naturalmente, minaccia in pri­mis lo stato di Israele, l’ebreo collettivo.
La tesi più spa­ventosa del li­bro è quella della diffusio­ne glob­ale del­l’antisemiti­smo, della sua morsa su tut­to il mondo.
«Con la globalizzazione l’an­tisemitismo, che è il principa­le pregiudizio etnico di tutti i tempi, è diventato mondiale. Spinto dai Paesi arabi e islami­ci, agganciandosi a fonti euro­pee e cristiane di antica matri­ce accantonate solo momenta­neamente dopo l’Olocausto, l’antisemitismo è oggi presen­te in larga misura ovunque. I media digitali - dal web alla tv satellitare - l’hanno messo al­la portata di chiunque, ovun­que e in qualsiasi momento. Sono stati fondamentali per la sua diffusione globale».
Cosa c’è di nuovo nell’antise­mitismo contemporaneo?

«L’antisemitismo globale at­tinge a vecchi pregiudizi cri­stiani, musulmani, di sinistra e di destra, ma oggi ha assunto anche nuove forme e dimen­sioni. Se prima prendeva di mi­ra gli ebrei locali - quelli che si conoscevano direttamente per città, regione o nazione ­oggi è accanitamente fissato anche sugli ebrei lontani, ovve­ro su quelli americani e israe­liani. Inoltre, mentre in prece­denza era un fenomeno di ma­trice principalmente sociale o culturale,nell’era globale poli­ticizzata in cui viviamo, è deci­samente un fenomeno politi­co. Per la prima volta, esso oc­cupa un posto centrale nelle strategie e nella politica estera di molti Paesi, contro lo Stato
d’Israele».
Lei ha scritto che auspicare l’annientamento di Israele attraverso armi nucleari è la
sostituzione dell’incitamen­to a un nuovo Olocausto. Il mondo islamico grida quoti­dianamente «morte agli ebrei» e nessuno batte ci­glio.
«Nel mondo arabo e islami­co dire di voler distruggere gli ebrei - e non Israele semplice­mente - è cosa comune. I lea­der politici e religiosi, i media e l’uomo della strada lo dico­no apertamente. In Occiden­te, a causa dell’Olocausto e del­l’adozione di leggi che perse­guono reati d’odio, gli antise­miti sono più cauti: non dirigo­no i loro attacchi contro gli ebrei di per sé, anche se ricor­rono a stereotipi tradizionali, fanno di Israele il loro obietti­vo ».
Dove sono oggi i difensori de­gli ebrei?
«Solo negli Usa, il Paese me­no antisemita dell’Occidente, abbiamo assistito a un arretra­mento dell'antisemitismo ne­gli ultimi decenni, invece di au­mentare come in Europa. Non sorprende quindi che gli ame­ricani sappiano riconoscere che dietro l’assalto antisemita contro Israele e contro gli ebrei, anche quando è masche­rato da antisionismo, si celi in realtà un odio pericoloso e omicida.
Che rapporto c’è tra il deside­rio di annientare gli ebrei e la ne­gazio­ne del­l’Olo­c
au­
sto?

«La negazione dell’Olocau­sto non è che una forma della vasta gamma di negazionismi diretti agli ebrei, e agli ebrei soltanto: viene negato che gli ebrei abbiano una storia pluri­millenaria che li lega alla loro terra, che il Tempio sia mai esi­stito, che abbiano il diritto co­me tutti i popoli ad avere un proprio Stato, e persino che si­ano esseri umani, un ritornel­lo molto comune nel mondo
arabo e islamico. Tutto ciò le­gittima l’idea che gli ebrei o Israele debbano essere elimi­nati ».
Che cosa dovrebbe fare Isra­ele per combattere l’antise­mitismo?
«Ogni popolo, nel mondo moderno, per essere ri­spettato, per potersi autogo­vernare e difendere ha biso­gno di un proprio Stato. Per la prima volta dopo millenni, gli ebrei hanno un proprio Stato che garantisce quella difesa che non hanno mai avuto quando sono stati perseguita­ti nel­mondo cristiano e islami­co nel corso dei secoli. Natural­mente Israele, come patria de­gli ebrei, è anche l’oggetto di molti attacchi antisemiti. Ed è questo antisemitismo e non le scelte politiche di Israele, che certo si possono criticare libe­ramente, che costituisce la ra­dice del desiderio di eliminare Israele».
Perché l’Europa, nonostan­te la Shoah, è il continente oggi più affetto dall’antise­mitismo?
«L’antisemitismo non è mai svanito dall’Europa.Le statisti­che mostrano che un numero enorme di europei crede nelle nozioni antisemite più assur­de e classiche sugli ebrei e Isra­ele, compreso che minuscole cricche di ebrei in Europa han­no troppo potere nel mondo degli affari e che Israele sta conducendo una “guerra di sterminio” contro i palestine­si, il che - per quanto si possa essere in disaccordo con le po­litiche d’Israele - altro non è che una fantasia antisemita».
È possibile guarire questa malattia? Uccidere The De­vil that never Dies ?
«Il diavolo non è destinato a scomparire pre­sto: è ben radica­to nel mondo ara­bo e islamico, è diffuso in Occi­dente e acquista spazio altrove. Prolifera sui me­dia digitali ed è in continua cre­scita, anche per­ché le diverse correnti di anti­semitismo si raf­forzano recipro­camente come mai in preceden­za. Non c’è dub­bio che il conflit­to mediorientale lo alimenti,ma non c’è neppu­re dubbio sul fatto che i vecchi pregiudizi antisemiti abbia­no di­segnato le linee interpre­tative con cui molta gente si fi­gura Israele e gli ebrei in gene­rale » .
Questa ondata di nuovo anti­semitismo potrebbe porta­re a un nuovo genocidio?
«L’antisemitismo odierno è senza dubbio potenzialmente genocida. Certo, molti degli antisemiti, specialmente in Occidente, non mirano, quan­tomeno non apertamente, a massacrare gli ebrei, ma molti altri, in particolare nel mondo arabo e islamico invece sì, e lo ripetono quasi abitudinaria­mente. In realtà i leader religio­si e politici arabi e islamici, co­me anche la gente comune, in­vitano di continuo a uccidere gli ebrei, più di quanto non l’abbiano mai fatto i Nazisti. Ciò che fanno, i loro scopi poli­tici- dalla corsa iraniana al nu­cleare all’esplicito impegno di Hamas a distruggere Israele ­indicano chiaramente che, se acquisissero i mezzi per com­piere un genocidio, la probabi­lità che li utilizzino è del tutto reale».

Lettura/Corriere della Sera-Daria Gorodisky: " La sciagura di essere una madre"

"Forse la cosa peggiore era essere madre". Perché? Perché orbisognava trovare il modo di strapparsi i figli dalle braccia e farli scappare con documenti falsi «dalla parte ariana» della città. Perché si faceva qualunque cosa per riuscire a dotarli di quella fialetta di cianuro che avrebbe potuto rappresentare l'unica possibilità di fuga dalle atrocità. Perché, se il proprio piccolo decideva di venire al mondo durante una delle Aktion dei nazisti nelle case del ghetto, un cuscino assorbiva per l'eternità il suo vagito: sacrificio indispensabile a salvare io o zo altre vite stipate in un buco. Sì, se davvero si potesse catalogare l'orrore, avrebbe ragione Alina Margolis-Edelman nel dire che nella Varsavia dei primi anni Quaranta, quando regnava la bestia, forse la cosa peggiore era essere una mamma ebrea. Dopo la guerra, Alina è diventata pediatra e si è sempre dedicata ai bambini più disagiatiadel mondo. Ha scritto le sue memorie (fina giovinezza nel ghetto di Varsavia, Giuntina, pp. 217, 14) a mezzo secolo di distanza dall'Olocausto. E un racconto sobrio ma dettagliato: la sua infanzia dorata, genitori medici, famiglia moderna, laica, integrata. Fino all'arrivo dei tedeschi, nel 1939, Alina non è neppure consapevole delle sue radici giudaiche. La gioventù insegue la vita e lei, ormai ragazza, ci prova. Nel ghetto studia da infermiera, consegna segretamente soldi e materiale a chi organizzava la rivolta, incontra eroi ignoti e capi famosi (dopo la guerra sposerà uno dei comandanti dell'insurrezione, Marek Edelman), assiste al massacro quotidiano, alle battute di caccia all'uomo dei nazisti, condivide fame, sporcizia, dolore. Sua madre riesce a farla uscire nel mondo degli «ariani», e da lì lei continua a aiutare come può. Nell'aprile del 1943 esplode la rivolta, ma dopo quasi un mese di battaglia i tedeschi bruciano il ghetto. Alina ha 21 anni, accorre, vede da fuori. E lì per la prima volta si sente «veramente ebrea». È la coscienza, specifica dell'ebraismo, di appartenere a un popolo. Una dimensione scomoda per chi oggi, restringendo artatamente l'identità ebraica alla sfera religiosa, vuole far credere che ci sia differenza fra antisionismo e antisemitismo. Un artificio. Utile di fatto a chi amerebbe vedere lo Stato ebraico trasformato in un nuovo ghetto di Varsavia del 1943.

IlSole24Ore/DOMENICA- Giulio Busi: " Il Requiem al Lager"

 

Se solo non ci fosse quella tenebra, «orrenda, ripugnante». Dal palcoscenico è quasi impossibile scorgere il pubblico, immerso in un buio malato ed equivoco. Tuttavia i musicisti sanno distinguere fin troppo bene chiè venuto ad ascoltarli. Due tipi di persone. O meglio, né gli uni né gli altri sono più davvero «persone». I prigionieri, a un passo dalla morte; ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, è l'ultimo. Se non hanno ancora perso il senno è un miracolo. Eppure sono G, seduti in silenzio assoluto, emaciati, con gli occhi troppo grandi e il cuore in subbuglio. Vuol dire che lottano, e persone - per quel che possono - cercano ancora di esserlo. Gli altri «si sono agghindati e azzimati, hanno appuntato sul petto i lustrini, le chincaglierie, e ora giocano agli eroi». Loro, persone non lo sono forse state mai, certo non lo sono adesso, quando la musica sta percominciare, e il direttore è sul punto di lanciare la sua sfida verso il buio. Il Requiem di Terezin dello scrittore ebreo ceco Josef Bor è un libro a tinte forti. Apparso nell'originale nel 1963, subito tradotto in tedesco e in italiano nella bella prosa di Bruno Meriggi, e riproposto ora da Passigli, questo Requiem ha un suo, lucido anacronismo. Fuori moda nel tono e nel contenuto, il libro è un omaggio, accorato, alla musica dassica e alla tradizione borghese europea. Tanto terribile è la cornice del racconto quanto semplice è il messaggio: la cultura è garanzia di dignità; questo lo sapevamo o lo speravamo. E anche, la cultura può essere vendetta; un insegnamento di cui non eravamo forse consapevoli. È vicenda vera, trasposta in chiave narrativa e liberamente rielaborata. Josef Bor (Bondy), l'autore, fu testimone della più singolare e drammatica messa in scena di tutto il Novecento. Un campo di concentramento, Terezino, in tedesco, Theresienstadt. Un'orchestra e un coro composti esclusivamente da deportati ebrei, in attesa di essere mandati a morte, e consapevoli di quanto li aspettava. Come pubblico, oltre ai prigionieri, alti gradi nazisti; qui nel romanzo campeggia tra gli spettatori Adolf Eichmann in persona. E la musica? Quanto di apparentemente più lontano dalla tradizione ebraica si possa immaginare, il Requiem di Giuseppe Verdi, ispirato alla liturgia cattolica peri defunti e cantato in latino. Tutto il libro ruota attorno a Rafael Schachter, un giovane musicista internato a Terezin, che aveva fatto di questa rappresentazione una ragione di vita, quella poca che ancora sarebbe riuscito a vivere. Con un solo pianoforte malconcio e un'unica copia della partitura, che orchestrali e cantanti dovevano imparare a memoria, Schachter aveva messo assieme, nel 1942, uno spettacolo di grande livello e d'inaudita forza simbolica. «Canteremo ai nazisti quello che non possiamo dire loro», questo era il suo programma, basato sull'intensificazione e, in parte, sul rovesciamento della grande opera verdiana. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis, tale è l'invocazione all'inizio dell'Introito. Ma quale vita eterna potevano chiedere le vittime ebree della Shoah, quale pace, che ricompensaoltremondana sarebbe mai valsa nell'orrore del lager? La risposta di Schachter, visionario direttore d'orchestra, prevedeva un'eversione dell'ordine temporale del Requiem. Quand'anche l'ultimo deportato fosse morto nelle camere a gas, il giorno del giudizio e della punizione - il terrifico, incalzante Dies irae verdiano - sarebbe giunto per i persecutori ancora in vita. Schachter, i suoi artisti, tutti gli spettatori ebrei erano consapevoli - secondo Bor - del contenuto di rabbia e dell'aspettativa di riscatto mondano di cui si rivestiva il capolavoro di Verdi. Una vendetta di cui si sarebbero incaricati altri uomini, a breve, non nella dimensione escatologica ma in Europa, in Germania, nel Paese dei carnefici già in fiamme e stretto d'assedio. Secondo le testimonianze storiche, tra il 1942 e i11944, quando anche gli ultimi musicisti furono trasferiti ad Auschwitz, il Requiem venne eseguito a Terezin almeno quindici volte. I nazisti non capirono il messaggio implicito, e lasciarono fare Schachter per ignoranza e stupidità? Questa è la convinzione di Bor, e da essa trae pathos tutta la narrazione. È vero però che i tedeschi mostrarono anche di saper sfruttare cinicamente il Requiem. L'ultima volta in cui Schachter e i suoi lo rappresentarono fu davanti a una delegazione della croce rossa danese, giunta per ispezionare *** Terezin, e a cui si fece credere che gli ebrei fossero trattati in fondo bene, tanto che si dilettavano addirittura di musica. Chi ha ragione? Quanti credono nel potere testimoniale della cultura ochi si arrovella sull'insensatezza del dolore e della sopraffazione? Certo, il ritmo grandioso del Dies irae non è di per sé il giorno del giudizio, ma solo la sua immagine in suoni. Il Requiem è emozione e attesa. A Terezin fu ira di giustizia, bruciante.

Josef Bor, Il Requiem di Terezin, traduzione di Bruno Meriggi, Passigli, Firenze, pagg.108, e 14,50

La Stampa-Marco Belpoliti: " Il re buffone degli ebrei di Lòdz"

Mordechai Chaim Rumkowski

Il 20 novembre 1977 La Stampa pubblica un testo di Primo Levi, Il re dei giudei, con un’illustrazione: una moneta, recto e verso, in lega leggera; su una faccia la stella ebraica. La moneta dà il via a un racconto autobiografico. Levi l’ha raccolta ad Auschwitz, dopo la liberazione, conservata come portafortuna nel portamonete, poi in un cassetto.Ora narra la storia dell’uomo che l’ha fatta coniare: Chaim Rumkowski, un industriale ebreo fallito, posto dagli  occupanti tedeschi a capodel ghetto di LLódzdz,città polacca nel 1940, una sorta di sovrano della popolazione ebraica,esausta e affamata,destinataalla eliminazione, non senza aver prima prodotto, negli impianti industriali la tela necessaria all’esercito tedesco. Rumkowski collabora con i nazisti e assume posture da monarca assoluto, con tanto di corte e aedi. Carnefice e insieme vittima, è preso quale esempio di quella che nove anni dopo neI sommersi e i salvati (1986),Levi definirà la «zona grigia »: zona tra il bianco e il nero, tra le vittime e i carnefici. Il racconto riappare nel volume Lilít e altri racconti del 1981, e poi è incastonato nel capitolo «La zona grigia» di I sommersi e i salvati. Oggi Rumkowski sembra tornato al centro dell’attenzione: Gli spodestati di Steve Sem-Sandberg(Marsilio), romanzo di autore svedese; Rumkowski e gli orfani di Lódz (Marsilio) di Lucilla Eichengreen,una testimonianza. Perché Levi scrive di Rumkowski a tanti anni di distanza dal suo ritorno da Auschwitz? È la questione della zona grigia a sollecitarlo, tema che alha elaborato a partire dal 1975. Racconta di aver trovato notizie in varie fonti, che gli hanno permesso di ricostruire questa storia «non comune, affascinante e sinistra». Cosa ha letto su Rumkowski? In un saggio intitolato Variazioni Rumkowski: sulle piste della zona grigia, una giovane studiosa, Martina Mengoni, ha documentato le fonti da cui Levi ha tratto le informazioni. Sono vari libri apparsi tra il 1953 e il 1962. La fonte principale è un articolo del 1948 di Salomon F. Bloom, Dictator of the Lódz Ghetto - The Strange History of Mordechai Chaim Rumkovski; poi un testo che Levi potrebbe aver letto: Il commerciante di Lódz di Adolf Rudnicki, scrittore polacco, compreso nel volume I topi, tradotto nel 1967.
Ma il nome di Rumkowski compare in un altro libro di un autore famoso, anche lui ebreo, che Levi non può non aver letto: Saul Bellow, premio Nobel 1976. In uno dei suoi romanzi più noti, Il pianeta diMr Sammlers, il protagonista parla di Rumkowski. Pubblicato negli Stati Uniti nel febbraio del 1970, è tradotto nel ’71 da Feltrinelli. L’ipotesi è che l’opera dello scrittore americano abbia attirato l’attenzione di Primo Levi, spingendolo a riguardare meglio la moneta e a documentarsi sulla vicenda del Decano di Lódz. Il protagonista di Bellow, Arthur Sammler, è un ebreo polacco, settantenne, ex giornalista. Vive da vent’anni a New York, ma è ancora uno «straniero». Tornato per caso in Polonia allo scoppio della guerra, era stato coinvolto nella strage nazista; rimasto sepolto sotto un cumulo di cadaveri, sopravvive, anche se perde un occhio; combatte i tedeschi e quindi si nasconde in un cimitero. Infine, dopo la guerra è in un campo profughi; lo tira fuori un ricco nipote americano. L’argomento su cui insiste Bellow, per bocca di Sammler, è la teatralità di Rumkowski: la sua recitazione appartiene a un genere clownesco e insieme tragico. Anche per Levi la recitazione del capo del ghetto di Lódz è importante. Dove dobbiamo collocare Rumkowski, uomo che appartiene alla «fascia di mezze coscienze » della zona grigia? In alto o in basso? Lo potremmo sapere, risponde Levi, solo se potesse parlare davanti a noi. Solo lui potrebbe dire se mentiva. Aggiunge: potrebbe fare questo proprio mentendo. Sarebbe una menzogna integrale, anche con se stesso, ma servirebbe: «come ogni imputato aiuta il suo giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell’uomo di recitare una parte non è illimitata ». Sono temi che rinviano a un autore: Shakespeare. Levi cita alla fine del suo testo su Rumkowski Misura per misura, mentre per Bellow il rinvio a Shakespeare è più implicito,ma quasi inevitabile. Tra Levi e Bellow non sembrano esserci troppe cose in comune, oltre all’origine ebraica. C’è però la frase dettata dall’autore di Herzog per la fascetta dell’edizione americana del Sistema periodico, su insistenza del traduttore, Raymond Rosenthal, che contribuì molto alla popolarità dell’opera dello scrittore italiano negli Stati Uniti. Poi, la testimonianza di un incontro non troppo entusiastico tra i due nel corso del viaggio americano di Levi. Inoltre, Bellow cita Levi in una lettera indirizzata a Cynthia Ozick, alla fine degli Anni 80,dopo l’uscita di un suo libro, Il messia di Stoccolma. La scrittrice ebrea americana era stata accusata da un recensore di non aver affrontato direttamente il tema dell’Olocausto. Bellow riflette sul fatto che gli scrittori ebrei d’America non hannomai trattato nel modo dovuto l’avvenimento centrale della loro epoca: lo sterminio degli ebrei. Riferendosi a questo scrive: «solo pochi ebrei hanno saputo comprenderlo (per esempio Levi)». Nel finale del testo indirizzato alla Ozick,Bellow cita Shakespeare, una sua espressione, proveniente probabilmente da Macbeth («aiuto metafisico»). In effetti, la citazione shakespeariana con cui si chiude lo scritto di Primo Levi su Rumkowski, è una possibile chiave per interpretare la storia del Decano di Lódz. Levi parla di fragilità dell’uomo, ma anche del suo aspetto ridicolo, una ridicolaggine che si mescola alla tragedia sino a produrre il tragicomico. Levi scrittore tragicomico? Ci si potrebbe stupire, se non fosse che Massimo Mila, alla morte di Levi, ha scritto sulla Stampa: era un umorista. La sua prima opera, Se questo è un uomo, contiene momenti comici, rari, e tuttavia presenti nell’edizione del 1958; così La tregua (1963). È la pietas di Levi a dargli la capacità di cogliere il comico. Di questo c’è traccia nei racconti raccolti in Lílit, cui appartiene Il re dei giudei. La figura di Rumkowski finisce per interessare Bellow e Levi per questo aspetto tragicomico, per le sue insulse buffonate. Chissà se non è stata proprio questa insistenza sul tragicomico, presente nei romanzi dell’ebreo americano, a indurre il chimico torinese a leggere Il pianeta di Mr Sammler e a fargli incontrare di nuovo Chaim Rumkowski, così da convincerlo a tirar fuori dal cassetto la vecchia moneta, e raccontare la storia terribile del Decano di Lódz. Un’ipotesi da non scartare.

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