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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.01.2014 'La mia Terra Promessa' di Ari Shavit
Recensione di Stefano Jesurum

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 gennaio 2014
Pagina: 43
Autore: Stefano Jesurum
Titolo: «Israele, una vita in bilico sulla pace»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/01/2014, a pag.43, con il titolo " Israele, una vita in bilico sulla pace", l'articolo di Stefano Jesurum, che recensisce il libro di Ari Shavit "La mia terra Promessa", in uscita in questi giorni presso l'editore Sperling & Kupfer.
Il libro di Ari Shavit si presta a un doppio livello di lettura, è indubbiamente un testo molto importante,come scrive Jesurum, "
Leggendo La mia terra promessa di Ari Shavit, sicuramente chi cerca motivi per alimentare la propria avversione verso lo Stato di Israele ne troverà quanti ne vuole, ma — suoni come augurio — troverà anche antidoti alla cieca avversione che tanto spesso va somigliando all’odio. Così come chi cerca motivi per nutrire la propria beatificazione acritica nei confronti dello Stato di Israele ne troverà quanti ne vuole, però — è una speranza — scoprirà pure l’intelligenza e il coraggio del dubbio, la strada che allontana e mette in salvo dal pericoloso baratro a cui i manicheismi hanno sempre tragicamente condotto." Per metà libro racconta il sionismo con una partecipazione appassionata che farà riflettere l'ignorante anti-sionista ideologico e informerà, nell'altra metà, sulle ragioni arabo-palestinesi come solo un pacifista israeliano può fare. Ma attenzione, Ari Shavit che scrive su Haaretz è una mosca bianca all'interno di quel quotidiano, i suoi articoli sono tutto tranne che ideologici.
 Un libro su cui ritorneremo nei prossimi giorni.

Stefano Jesurum

Ari Shavit ha 57 anni. «Da quando ho memoria, ricordo la paura. Una paura esistenziale. L’Israele in cui sono cresciuto, quello della metà degli anni Sessanta, era un Paese vitale, esuberante e pieno di speranza, ma avevo la costante sensazione che al di là delle belle case e dei giardini ben curati dell’alta borghesia della mia città natale si agitasse un oceano minaccioso. Temevo che un giorno quell’oceano sarebbe esondato e ci avrebbe sommersi tutti». È nato nel 1957. «Da quando ho memoria, ricordo l’occupazione. Solo una settimana dopo aver chiesto a mio padre se i Paesi arabi avrebbero conquistato Israele, fu Israele a impadronirsi dei territori della Cisgiordania e di Gaza, abitati dagli arabi». Oggi scrive: «Solo qualche anno fa mi è divenuto improvvisamente chiaro che le mie paure riguardo al futuro del mio Paese e lo sdegno che provo per le politiche israeliane di occupazione e di intimidazione non sono slegate. Da una parte, Israele è l’unica nazione occidentale che occupa il territorio di un altro popolo; dall’altra, è anche l’unico Stato occidentale la cui stessa esistenza sia minacciata. Minaccia e occupazione, infatti, sono le colonne portanti della nostra esistenza». Minaccia e occupazione. Fuori da questa realtà, se non si entra con la testa e con il cuore in questa dualità, osservatori ed esperti, destra e sinistra (noi tutti) non vedono (non vediamo), non colgono (non cogliamo) l’essenza, vorrei dire la verità, di Israele e del conflitto israelo-palestinese.
Leggendo La mia terra promessa di Ari Shavit, sicuramente chi cerca motivi per alimentare la propria avversione verso lo Stato di Israele ne troverà quanti ne vuole, ma — suoni come augurio — troverà anche antidoti alla cieca avversione che tanto spesso va somigliando all’odio. Così come chi cerca motivi per nutrire la propria beatificazione acritica nei confronti dello Stato di Israele ne troverà quanti ne vuole, però — è una speranza — scoprirà pure l’intelligenza e il coraggio del dubbio, la strada che allontana e mette in salvo dal pericoloso baratro a cui i manicheismi hanno sempre tragicamente condotto.
Ari Shavit è una guida che non fornisce — né, per altro, gli interessa farlo — soluzioni politiche a portata di mano, e il suo è di conseguenza il libro meno tendenzioso che mi sia mai capitato di leggere. Come ha scritto Dwight Garner sul «New York Times», un libro sionista senza i paraocchi del sionismo.
Nato a Rehovot in una famiglia di quelle che hanno creduto a Theodor Herzl, Shavit è editorialista di «Haaretz», ha servito l’esercito nei territori occupati come paracadutista, è stato poi attivista del movimento pacifista, e ha quindi deciso di sfidare progressivamente i dogmi della destra e della sinistra, diventando, in patria e negli Stati Uniti, una delle voci più autorevoli e libere sulla questione mediorientale. Immerso fino al midollo nella storia del suo Paese, La mia terra promessa è una straordinaria narrazione nel senso più letterale, ampio e universale del termine. O, come dice l’autore, «l’odissea privata di un israeliano disorientato dal dramma storico che sta inghiottendo la sua patria».
Partendo dal viaggio in Palestina che nel 1897 intraprese suo bisnonno, il ricco e raffinato Herbert Bentwich, molto onorevole suddito di Sua Maestà britannica, Shavit sceglie sedici date non canoniche negli annali della storia palestinese-israeliana: dal 1897, appunto, al 2013. Racconta luoghi e persone, scandaglia la storia ufficiale e no, e mette a nudo tutte le sue emozioni e contraddizioni. Senza fare sconti, fin da subito, con uno sguardo attento a rintracciare i semi dell’angoscia e del dramma futuri per i palestinesi e per gli israeliani. Dati, archivi, ricostruzioni, documenti, disquisizioni sulle guerre, sul programma nucleare israeliano, sulla cultura, sui fanatismi religiosi, gli intellettuali, le trasformazioni demografiche, gli anni delle discoteche e degli autobus saltati per aria, l’abisso. E anche molte, moltissime interviste, un flusso inesauribile di storia orale.
Senza sconti dicevamo. Esiste un segreto oscuro, una sorta di peccato originale che Shavit affronta di continuo: «La nazione in cui sono nato ha cancellato la Palestina dalla faccia della terra». Eppure: «Se necessario, starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Se non fosse stato per loro, io non sarei nato. Hanno fatto lo sporco e turpe lavoro che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere».
Oslo, il sogno della pace. «In un raro momento di grazia, il senso morale di Israele si impose sulla brutalità e il realismo palestinese prevalse sull’estremismo». La minaccia iraniana, reale, assoluta, maledetta. I dubbi, di nuovo la paura. «Mi chiedo per quanto tempo potremo mantenere la nostra miracolosa storia di sopravvivenza. Ancora una generazione? Due? Tre? Alla fine, la mano che tiene la spada dovrà allentare la presa. Alla fine la spada stessa si arrugginirà. Nessuna nazione può affrontare il mondo che la circonda per più di cento anni con una lancia sguainata».
Niente sconti, e tanto amore. Non propaganda. Shavit ci insegna che è possibile criticare aspramente e insieme esprimere solidarietà. Vale per oggi e vale per ieri, per il sionismo e per ciò che dal sionismo nacque, lo Stato, e anche l’Israele odierno. Ci furono e ci sono ancora crimini che andavano e vanno condannati, ma non si può demonizzare la guerra per la sopravvivenza e l’autodeterminazione in cui i crimini sono stati commessi. Non piacerà agli ammiratori del «senza se e senza ma», però da qui si passa se si vuole capire. Insomma, se i palestinesi non possono essere adeguatamente e rispettosamente compresi, se vengono considerati esclusivamente dal punto di vista degli israeliani, lo stesso vale per gli israeliani quando sono considerati esclusivamente dal punto di vista dei palestinesi: è la grande lezione de La mia terra promessa. Il libro di un uomo che senza retorica né illusioni affronta, prima di tutto con se stesso e poi con i lettori, il proprio Paese, un Paese che «ha vissuto sette diverse rivolte interne: la rivolta dei coloni, la rivolta della pace, la rivolta liberal-giudiziaria, la rivolta orientale, la rivolta degli ultra-ortodossi, la rivolta edonista-individualistica e la rivolta degli israeliani palestinesi». Per arrivare a una conclusione visceralmente ebraica e universale insieme — nel senso che interroga il mondo, noi tutti —, ovvero che «ciò che questa nazione ha da offrire non sono la sicurezza o il benessere o la pace della mente. Quello che ha da offrire è l’intensità della vita in bilico».

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