Gianni Riotta fa barba e capelli a Noam Chomsky ritratto del complottista odiatore di Israele
Testata: La Stampa Data: 24 gennaio 2014 Pagina: 30 Autore: Gianni Riotta Titolo: «Puzzle Chomsky, la sintassi impazzita di Noam Socrate»
Riportiamo dalla STAMPA del 23/01/2014, a pag. 13, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo "Puzzle Chomsky, la sintassi impazzita di Noam Socrate ".
Gianni Riotta Noam Chomsky
Quando mi capita di passare per la libreria della Columbia University a Broadway, mi fermo sempre a guardare, tra felpe colorate e libri di testo, gli scaffali dedicati al linguista e militante politico Noam Chomsky, 85 anni, considerato uno dei padri della linguistica, dozzine di opere pubblicate, milioni di voci su Internet, tradotto ovunque, Chomsky sfoggia capelli bianchi lunghi e carisma da bonario Einstein della politica, pronto a criticare il potere in pamphlet dalla ferrea logica, rodata insegnando al leggendario Mit dal 1955. Sfogliando quegli opuscoli, per lo più ormai raccolte di articoli e discorsi come questo: I padroni dell’umanità, saggi politici 1970-2013, tradotto da Ponte alle Grazie, provo tenerezza, perché al liceo mi misi nei guai organizzando un «seminario alternativo» in cui non si discuteva di Vietnam o scioperi, ma si studiava la «grammatica generativa» di Chomsky. Eravamo più interessati allo studioso dei linguaggi che non al leader politico, già allora effervescente e superficiale. In ogni saggio militante di Chomsky la tecnica di formazione del testo è identica, si confeziona un collage con testi e citazioni inoppugnabili, quasi sempre selezionati da fonti che non condividono il nichilismo del linguista, l’Economist, il Wall Street Journal, fonti del governo Usa, l’amato columnist inglese filo arabo Robert Fisk. Dall’assemblaggio di «dati oggettivi», Chomsky deriva un’analisi cupa, tetragona, sempre dalle stesse conseguenze: gli Stati Uniti tessono un crudele, infingardo, onnipotente, organizzatissimo complotto per depredare i paesi poveri e i loro lavoratori, il mercato, il capitale, le banche e Wall Street strizzano profitti, il resto del mondo assiste, complice, supino o vittima, allo scempio di cui manutengolo è Israele. Vietnam, Centro America, Balcani, Iraq, America Latina, il complesso mondo che dalla fine della Seconda guerra mondiale, alla guerra fredda, alla globalizzazione, all’11 settembre e all’ascesa della Cina fa da scena alle nostre vite è, per Chomsky, canovaccio gelido, dove i Potenti gestiscono nell’ombra camarille e ogni intellettuale che non concorda con questa apocalittica lettura della Storia è venduto o ignorante. I «fatti», l’oggettività, la dialettica, le diverse opinioni, non sono che pagliai da distruggere in questa Cavalcata delle Valchirie. Poco importa se, nel corso del tempo, Chomsky muta parere sull’11 settembre 2001, prima negando un ruolo a Osama bin Laden, poi dandoglielo, ma sempre in una Ragioneria Morale in cui l’attacco alle Torri Gemelle viene pesato contro «i crimini» di Clinton. Poco importa se, in nome di confusi «diritti di parola», si legittima il negazionista Faurisson. O se, per deprecare il ruolo americano in Vietnam, si parla dell’«imperialismo» di John Paul Vann, mentre, come sa chi legge lo straordinario saggio di Neil Sheehan Una sporca bugia (Piemme), Vann era l’ex ufficiale e consigliere americano che per anni, proprio dialogando con i giovani reporter come Sheehan o Halberstam, scongiura lo Stato Maggiore e il Pentagono spiegando che il solo intervento militare non avrebbe che seminato lutti, negli Usa e in Vietnam, e che occorrevano riforme economiche e sociali. Il «dettaglio» non si incastra nel puzzle di Chomsky? Si glissa e passa avanti. Chi è morto l’11 settembre? «Come sempre i lavoratori e i poveri», e poco importa che siano caduti anche broker e uomini di finanza. L’introduzione dello studioso Marcus Raskin è meravigliosa, un testo fantastico di piaggeria, adulazioni, salamelecchi all’autore e disprezzo per il resto del mondo. Chomsky, «supremo razionalista», stupisce i colleghi scienziati «nel dire la verità e smascherare le menzogne», dove naturalmente «verità» è il testo chomskyano, «menzogne» le idee altrui. «La scelta di Chomsky di perseguire una sapienza che sia utile all’umanità intera, come egli stesso non manca di sottolineare, si scontra con un muro quando il pensiero e la cronaca politica non dicono affatto la verità, e nemmeno ci provano». Ragion per cui «gli Stati Uniti finiscono però sempre per sostenere le dittature militari». L’ex segretario di Stato Kissinger? Liquidato così, via Raskin: «Se Chomsky e altri, compreso chi scrive, provano disprezzo per il ruolo del pennivendolo à la Kissinger, che dà forma ai pensieri e agli interessi di una classe dirigente in modo da farla sentire più al sicuro, è pur vero che tale condanna andrebbe estesa a tutto un sistema educativo e meritocratico che non vede l’ora di sfornare pennivendoli di tal fatta». Raskin esemplifica in modo scolastico il metodo di Chomsky, perché, impiegato da uno scrittore meno colto e meno elegante, la caricatura della ricerca e del dibattito si manifesta nella sua essenza: propaganda per élite intellettuali. Anche lo storico liberal Arthur Schlesinger è spennato per bene: «Perché Arthur Schlesinger mentì per conto dell’amministrazione Kennedy e fu poi premiato dalla comunità accademica con una cattedra prestigiosa…?». Possibile che nessuno abbia il fegato, il tempo o la voglia di ricordare che quando Schlesinger andò a lavorare con Kennedy alla Casa Bianca, nel 1961, insegnava già a Harvard University, e che dopo la morte del presidente, nel 1966, prese cattedra nell’assai meno «prestigiosa» City University di New York? Chomsky fa in tempo a demolire Telford Taylor, uno dei migliori uomini che abbia conosciuto, ex procuratore al processo di Norimberga e poi critico acuto di quella vicenda, tracciando l’equivalenza morale tra nazisti e Alleati. Definito «novello Socrate», Chomsky anziché la cicuta, beve il plauso dei sicofanti alla Raskin: «Per me Chomsky è allo stesso livello di Russell, Heidegger e Dewey. Anzi ancora più in alto. Anche se potrà suonare incredibile a chi dà tanta importanza ai paragoni, ritengo che nella sfera politica Chomsky li batta quanto a coerenza e rettitudine morale…». Da giovane Raskin aveva avuto per mentore Bundy, al governo con Kennedy, ma ora lo disprezza per la tesi che «la verità è grigia», vale a dire composta da elementi e tesi diverse. Per Chomsky il suo testo «vero» è bianco, chi dissente è nell’oscurità del falso. Nelle sue teorie sulla sintassi che mi appassionavano da ragazzo, Chomsky ritiene che le strutture del linguaggio siano comuni, innate, condivise dagli esseri umani. Rileggendolo adesso viene il dubbio che, nella bulimia retorica, per Chomsky anche le idee politiche e le «verità» sulla Storia siano innate, e che tocchi a lui solo, come ha fatto per i linguaggi, riconoscerle e svelarcele, mentre noi, abbindolati come tanti Raskin, lo applaudiamo: Noam Socrate.
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